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Nuovi birrifici italiani: Ca’ del Brado, Miamal, Birra Pasqui e Godog

Di base le configurazioni che può assumere un’azienda brassicola sono tre: birrificio classico, brewpub o beer firm (con varie sfumature). Raramente si affacciano sul mercato esperienze differenti da queste fattispecie, ma non è escluso: un esempio ci arriva dalla prima novità che presentiamo oggi nell’aggiornamento sui nuovi birrifici italiani. Ca’ del Brado si autodefinisce “cantina brassicola” per il particolare modello di business sul quale si basa: l’acquisto di mosto di malto da altri produttori e il controllo della fermentazione e della maturazione in tini di legno in loco. Praticamente viene curata “solo” la parte del processo produttivo che implica la trasformazione del mosto in birra, attraverso fermentatori, maturatori e botti di legno di proprietà.

Le birre in gamma sono chiaramente influenzate dalla particolare impostazione aziendale. La linea Piè Veloce è dedicata ai brettanomiceti e consta di due produzioni. La Piè Veloce Brux prevede una percentuale importante di cereali diversi dall’orzo (frumento e segale) e una luppolatura di stampo americano, mentre la fermentazione (inoculo di Brettanomyces Bruxellensis) e la maturazione avvengono in grandi botti di legno (30 hl) che in passato ospitavano vino. Simile il procedimento per la Piè Veloce Lambicus, con la differenza che la luppolatura è inglese e i Brett appartenenti al ceppo Lambicus.

Fuori dalla gamma Piè Veloce è presente la Nessun Dorma, una Vieille Saison con una percentuale di frumento non maltato e un invecchiamento di sei mesi in tonneaux e barriques (ex passaggi di vino) con contaminazione di brettanomiceti e batteri lattici. Alla gamma delle birre base sono da segnalare anche la Bradamante (Flemish Red Ale) e la Cerbero (Old Ale affinata in legno), mentre in futuro entreranno anche diverse sperimentazioni. Dettagli su questo interessante progetto, che ha sede a Pianoro (BO), sono disponibili sul relativo sito web.

miamal

È invece una “semplice” beer firm, ma con l’obiettivo di trasformarsi presto in brewpub, Birra Miamal, aperta lo scorso maggio. I soci sono Valerio Orlandi e Fabio Zanai, che dopo anni passati a produrre su un impianto auto costruito, hanno deciso di compiere il grande passo, sebbene ancora in forma part-time. Le birre base sono due: la Sunny (4,8%), una Golden Ale, e la Natural Mystic (5,5%), una Pacific Pale Ale. Ad esse si aggiunge la ICS, che può essere definita una birra mutevole perché nasce dall’idea di associare a una sola etichetta (sempre la stessa) ricette che cambieranno di volta in volta. È dunque un prodotto da intendere come un “contenitore di one shot”, ideato per offrire al pubblico la possibilità di scoprire tanti stili diversi. La prima incarnazione, battezzata ICS 0001, è un’Amber Ale di stampo americano. A breve dovrebbe anche entrare in commercio un’Imperial Stout, la ricetta della quale ha vinto due concorsi di homebrewing nel corso del 2015. La sede è a Verdello (BG), mentre altre informazioni sono disponibili online.

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Restiamo nell’ambito delle beer firm con la nascita di Birra Pasqui, progetto inteso a rivitalizzare un vecchio marchio di birra. Come riportato da Forlì Today, dietro all’idea si nascondono i cugini Pasqui, tutti discendenti di quel Gaetano che nel 1835 aveva fondato a Forlì la Premiata Fabbrica di Birra Gaetano Pasqui. La sua storia fu raccontata dal libro L’Uomo della Birra, di cui vi raccontai più di cinque anni fa e il cui autore è il giornalista Umberto Pasqui, chiaramente imparentato con il protagonista che ha ispirato questa operazione. L’unica birra attualmente prodotta si chiama Livia, in onora della primogenita di Gaetano, ed è realizzata presso l’impianto di Mazapegul a Civitella di Romagna (FC). Maggiori informazioni sulla beer firm, la birra e la storia di Gaetano Pasqui sono disponibili online.

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E concludiamo (finalmente!) con un birrificio a tutti gli effetti: Godog di Jesi (AN). Operativo da febbraio scorso, nasce dall’iniziativa di due ragazzi provenienti da percorsi “ellittici e concentrici” e utilizza un impianto isobarico e iter di fermentazione a doppio tino. La gamma delle birre è influenzata dalla cultura brassicola angloamericana, ma non in modo esclusivo. La Boner è una Golden Ale sui generis, che prevede luppoli inglesi e sloveni ma soprattutto una percentuale di frumento e un’aromatizzazione con buccia d’arancia; la Pearl Harbor è un’American Bitter di color rosso rubino e con una luppolatura data da varietà statuinitensi e giapponesi; la En Plein Air è Saison brassata con frumento (sia maltato che “liscio”) e spezie (buccia d’arancia, coriandolo e cumino); la Hail Citra una Double Ipa di stampo americano la cui ricetta prevede l’aggiunta di un pizzico di avena; la Maracaibu, infine, è un’American Pale Ale dallo spiccato aroma agrumato, dove non manca una percentuale di frumento.

Al momento sono in produzione anche due birre con luppolo fresco: una riconducibile a una sorta di Keller di segale con luppolatura slovena, l’altra a una Pils con luppolo americano coltivato in Italia (presumibilmente Cascade). Tra le collaborazioni e le stagionali si segnalano anche una White Ipa ispirata al Mojito e una Blanche con Erba Luigia. Tra le informazioni disponibili sul sito web, anche alcuni aforismi che tradiscono un fare piuttosto audace:

L’impianto logora chi non ce l’ha (o chi ce l’ha piccolo)

Non esistono IPA che non siano americane. Chi sostiene il contrario sia condannato a una vita di East Kent Goldings.

IPA è morta, aggiungere più luppolo non la farà resuscitare. La soluzione va cercata altrove, Godog lo sta già facendo.

Se la tua risposta è “rossa doppio malto”, la domanda è sbagliata

Avete già conosciuto alcuni dei produttori presentati in questa sede? Cosa ne pensate?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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16 Commenti

  1. Giacomo Faramelli

    Mi INCURIOSISCE MOLTO CA DEL BRADO. Spero di poterne assaggiare a brevissimo le birre!
    Di Godog ho sentito Maracaibu.
    Una breve nota iniziale di diacetile, poi una luppolatura forte, molto “piney” e “citrusy”.
    In bocca non è così rotonda come ci si può aspettare da una ipa con frumento, il luppolo dona una bevuta un po’ spigolosa. Credo ci siano ampi margini di miglioramento.

  2. Anch’io appoggio l’intrigante progetto di Ca’ del Brado. In Italia è senz’altro una novità.

  3. Ho provato le birre di Miamal, la Natural Mystic è buonissima, molto luppolata e ben bilanciata, interessante anche l’idea della ICS.

  4. A parte la definizione di IPA sulla quale ci sarebbe da discutere, ma che brutta la definizione di impianto isobarico. Anche l’iter di fermentazione a doppio tino. Praticamente hanno un impianto normale con fermentatori e maturatori. In Italia è quasi una rarità, ma dovrebbe essere lo standard. Fantasioso l’impiego dei luppoli.

  5. Io sono d accordo sulla Ipa. È uno stile americano. Punto

    • Così tanto americano che successivamente hanno dovuto codificare lo stile American Ipa

      • Ma quale stile americano? Preciso che io sono lo Stefano del primo commento, mentre lo stefano del commento successivo, di stili ne capisce veramente poco. Indian Pale Ale non si riferisce agli indiani d’America, genio.

        • Stefano(secondocommento)

          Se vogliamo fare i puntigliosi allora ti informo su una cosa: “Indian Pale Ale” non esiste. Si scrive (e si dice) India Pale Ale (senza “n”). Il nome sta per “Pale Ale fatta per l’India” e non “Pale Ale Indiana”…o forse quella che intendi tu è veramente quella dei nativi d’america…

          • Appunto come può essere americana se prodotta dagli inglesi per le colonie dell’India?

          • Stefano(secondocommento)

            Perchè quella birra archetipica e leggendaria di cui parli è stata intensamente prodotta tra ‘800 e ‘900. Era una birra probabilmente chiara, con luppoli inglesi, invecchiata (durante il viaggio) almeno 3/4 mesi in botte, dove veniva anche dryhoppata. Il risultato era una birra secca, con buone probabilità brettata e con un aroma di luppolo sicuramente più stagionato rispetto a quello di una IPA attuale. Queste IPA cosidette inglesi sono di fatto scomparse prima della Prima Guerra Mondiale. Le poche che hanno vivacchiato fino alla Seconda erano più leggere, meno amare, più colorate (sono le attuali Bittere e Pale Ale inglesi). La IPA per come la conosciamo oggi è stata inventata dagli americani a metà del secolo scorso, ha probabilmente raggiunto la forma attuale negli anni 80/90. Il profilo del lievito neutro, l’amaro inteso, l’aroma di luppolo tropicale/resinoso/agrumato che la contraddistinguono sono tutte creazioni americane. Detto questo non sò cosa intendessero questi di Godog con quella frase…io l’ho interpretata così…

  6. …. Ma non scimmiottano un po troppo brewdog??

  7. Le IPA che producono i birrifici Italiani, generalizzando, sono in realtà APA, ma le IPA originali, cioè quelle Inglesi, cioè le uniche vere IPA, ci sono ancora, eccome. Ora purtroppo per IPA s’intendono quelle con luppoli americani. Comunque se uno stile nasce in una nazione, la paternità rimane, anche se poi lo stile viene travisato.

    • Non è un discorso solamente italiano. Tutti i birrifici che scrivono “IPA” (a partire dagli americani stessi ma anche inglesi (gran bretagna in generale): Kernel, Moor, Brewdog per citare solo i più famosi. O europei: Lervig, le varie beerfirm di Deproef come Mikkeller, Tool e giù di li) non si sognerebbero mai di farle con luppoli inglesi. Le fanno tutti, in tutto il mondo, con luppoli americani. E’ uno stile americano dai…come dici tu “Ora purtroppo per IPA s’intendono quelle con luppoli americani”. Ti cito Jerry Lewis: “la realtà è quello che è, non quello che dovrebbe essere.”

  8. Vero non è un problema solo Italiano. Vero anche che se un errore è generalizzato, non smette d’essere un errore. Non è che se domani la maggior parte dei produttori di weizen iniziassero ad usare luppoli americani, per produrre questa tipologia, le weizen diventerebbero una tipologia americana.

    Io lo so cos’è una IPA e lo so cos’è una weizen, se tu produttore impieghi quello che vuoi tu e non quello che prevede lo stile, sull’etichetta puoi mettermi ciò che vuoi farmi credere, ma io consumatore consapevole, nonché appassionato, non ci casco.

    Ora con la riconversione artigianale della produzione di birra, le IPA sono state stravolte e snaturate, non per questo smettono di essere ciò che sono sempre state e diventano un’altra cosa. Possono cascarci gli inesperti ed eventualmente i babbei, ma io no ci casco e quelle non sono IPA. Dire che le IPA sono uno stile americano, è una bugia, non la realtà.

  9. Non ci sono miei esempi o tuoi esempi di uno stile. Le tipologie sono regole ben precise, che descrivono caratteristiche definite e chi le conosce le può ritrovare nei prodotti dei birrai che si attengono a queste regole. Nel caso delle IPA ritrovo queste caratteristiche nell’interpretazione di Meantime. Invece nella maggior parte dei produttori artigianali, trovi caratteristiche molto diverse, perché questi non si sono attenuti alle regole dello stile, ma invece lo hanno stravolto, producendo qualcosa di diverso, non riconducibile allo stile originale. Ieri ho bevuto una Belgian Ale con luppoli americani, la birra non era male, ma non è una Belgian Ale, a meno che non si scopra dopo qualche secolo, che anche le Belgian Ale sono uno stile americano.

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