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L’eredità di Michael Jackson: un approccio etnografico alla birra

Nella giornata di ieri la pagina Facebook di Brewing Bad ha rilanciato un interessantissimo articolo pubblicato da Jeff Alworth sul suo blog Beervana. Il post è incentrato sulla figura di Michael Jackson, che, per i pochi che ancora non lo sapessero, è stato uno dei più grandi evangelizzatori di sempre in termini di cultura birraria. I suoi libri e la trasmissione televisiva che lo ha visto protagonista (The Beer Hunter) hanno contribuito in grandissima parte a quella rivoluzione della birra artigianale ancora in atto. Molti dei moderni scrittori, degustatori ed esperti di birra devono a lui praticamente tutto e non è un caso che anche Kuaska, l’esponente più importante del movimento italiano, si consideri “figlio” diretto di Jackson. Il merito del pezzo apparso su Beervana è di aver approfondito un aspetto particolare della sua figura.

Secondo Alworth, infatti, Michael Jackson fu fondamentalmente un etnografo. Il suo più grande contributo al movimento internazionale sarebbe stato quello di concepire ogni birra all’interno della cultura in cui viene prodotta. Avrebbe potuto approcciare la bevanda da un punto di vista squisitamente sensoriale, al pari di tanti scrittori di vino, oppure descrivere l’iter produttivo o raccontare la storia di diversi birrifici, come un normale giornalista. Invece volle concentrarsi su qualcosa di diverso, dipingendo per ogni stile birrario – espressione tra l’altro da lui coniata – il preciso contesto storico e culturale nel quale nacque e si è sviluppato. Così ad esempio racconta il Lambic nel suo Grandi birre del Belgio:

La tradizione è ormai scomparsa nella parte orientale di Bruxelles, sebbene le birre in forma di blend siano ancora servite nei caffè di Jezus-Eik, nella forest di Soignes, la domenica pomeriggio. Oggi la zona di produzione è nella parte occidentale della città, partendo da Anderlecth per arrivare fino Schepdaal, Beersel, Lembeek e oltre.

Bruegel visse in quella parte di Bruxelles, nella città vecchia fiamminga, e visitò i villaggi del Pajottenland. La chiesa presente ne La parabola del cieco è chiaramente Sint-Anna-Pede, tra Itterbeek e Schepdaal. E 400 anni dopo è impossibile non riconoscere che i fiamminghi rappresentati ne La danza dei paesani o ne Le nozze stanno sorseggiando una birra in uno dei tanti caffè della zona, probabilmente mentre ammirano il panorama di Bruxelles. Ne Le nozze, è possibile osservare la mescita di birra di un colore rubino da un recipiente spesso usato ancora oggi per servire Lambic, analogo a quelli presenti ne La danza dei paesani. Ci sono immagini simili nei dipinti di Brouwer (nome molto appropriato), appartenente al secolo successivo, che dimostrano come nessun altro stile birrario come il Lambic fu così legato all’arte popolare, la letteratura e il folklore delle Fiandre (né, a ben vedere, c’è un tema più centrale nella cultura fiamminga della produzione di birra e del suo consumo).

Come si può leggere, in questo estratto Jackson non si sofferma minimamente sulle caratteristiche organolettiche del Lambic, nonostante di cose da dire ce ne sarebbero a bizzeffe! Invece la sua unica preoccupazione è contestualizzare lo stile all’interno dell’evoluzione della società fiamminga, offrendo una serie di documenti e prove utili per calare il lettore in epoche ormai passate. Jackson dimostra che ogni birra nasce ed evolve all’interno di un ambiente preciso, rispondendo spesso alle esigenze e alle usanze dei popoli. Rivela con una forza straordinaria lo stretto legame che esiste tra la birra e l’uomo e come la bevanda sia al centro della vita quotidiana di intere società.

Oggi questo aspetto può sembrare palese e quasi automatico, ma riflettendoci bene non è sempre stato così. L’opera di Michael Jackson prende corpo in un periodo in cui il concetto di cultura birraria praticamente non esisteva e l’omologazione imposta dall’industria stava non solo dominando il mercato, ma aveva spinto al quasi totale oblio tanti stili regionali. La birra all’epoca (parliamo degli anni ’70) era percepita come un bene di consumo e basta, senza alcun legame con le consuetudini di determinate tradizioni.

Come sottolineato, Jackson ha voluto indagare questi legami e restituire loro la giustizia che meritavano. Il suo lavoro ha permesso di riscoprire tanti stili locali non per il semplice gusto di farlo, ma perché avevano significato qualcosa di importante per diversi popoli. Il fascino collegato alla renaissance della birra artigianale dipende in gran parte da questo aspetto, perché se Jackson si fosse limitato a spiegare la degustazione della bevanda o il suo processo produttivo, difficilmente avrebbe appassionato i lettori allo stesso modo.

Chiaramente il panorama della birra artigianale è cambiato radicalmente dagli ’70 ad oggi e ha subito profonde trasformazioni anche dopo la morte di Michael Jackson (avvenuta nel 2007). Già solo 10 anni fa era necessario viaggiare per scoprire determinati stili birrari, mentre ora la globalizzazione ha modificato anche l’approccio stesso alla cultura brassicola. Oggi le fonti di informazione si moltiplicano, ma è soprattutto il costante confronto tra birrifici, anche stranieri, che rende molto più “liquido” tutto l’ambiente. Una volta le Gose o le Berliner Weisse potevano essere bevute solo nel loro luogo di diffusione (rispettivamente Lipsia e Berlino), oggi i microbirrifici di praticamente ogni nazione si confrontano con simile tipologie. E lo stesso vale per altri stili regionali: Kölsch, Saison, Keller e via dicendo.

È un male? Certo che no: a mio parere la varietà e il confronto sono sempre sintomi di ricchezza e di crescita. Senz’altro però è molto cambiato l’approccio alla birra artigianale, perché permette un consumo più pigro se vogliamo. Un tempo essere beer hunter era d’obbligo per scoprire determinati stili, oggi li trovi nel beershop e nel pub sotto casa, reinterpretati da birrifici di mezzo mondo. E in questo senso i problemi (se così vogliamo definirli) sono essenzialmente due: difficilmente l’interpretazione “esotica” sarà totalmente fedele all’originale e soprattutto mancherà totalmente il contatto con la cultura specifica di quella birra.

Quindi, come sempre, il mio consiglio è di viaggiare. Se vi intrigano le Altbier non vi limitate ad assaggiare la reinterpretazione di quel birrificio americano, anche se buonissima. Organizzate un vacanza a Dusseldorf e bevetele in loco, osservando come si inseriscono nelle abitudini degli abitanti della città. Se vi piacciono le Rauch, andate a Bamberga e scoprirete anche una cittadina di una bellezza sconvolgente. Di Bitter ne trovate tante in Italia, ma volete mettere col berle direttamente nei pub inglesi? E le Double IPA? Se non avete fatto un giro negli States non potete affermare di averle bevute sul serio.

Michael Jackson è riuscito a trasferire passione ed emozioni perché ha fatto tutto questo e non avrebbe potuto parlare a suo modo di birra senza viaggiare. All’orizzonte c’è il ponte del 2 giugno e mi pare l’occasione perfetta per cercare di seguire le orme del grande Beer Hunter. Datevi da fare, noi ci risentiamo lunedì prossimo.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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2 Commenti

  1. Completamente d’accordo!
    Anche il viaggio però è un arte, non basta andare sui luoghi ed assaggiare ma bisogna calarsi in un gomito a gomito con la gente.
    Nell’ultimo viaggio in Belgio sono ripassato da Kulminator, Cnudde, Cantillon, De Vrede, De Dolle, Cnudde…insomma, chicche a piene mani.
    La serata più antropobirrariamente interessante è stata quella in cui abbiamo visto la finale di Champion’s in un café di paese.
    Al tavolo con fiamminghi che alternavano Stella e Cola senza soluzione di continuità, inframezzate da qualche Duvel.
    Ho rivisto il bere per il bere, senza untappd aperti.

    • Osservazione sacrosanta Schigi, la condivido totalmente.
      Della mia ultima visita al Kulminator, ad esempio, il ricordo migliore è la chiacchierata fatta con un cliente affezionato ultra novantenne insieme a Doug e Guillem. Questo vecchietto era un ex professore di latino che parlava un ottimo italiano e si recava ogni giorno a bere al Kulminator o nel centro di Anversa con la sua bici. Come tu dici viaggiare in questi luoghi permette di allontanarsi dal modo “moderno” di consumare birra e di ritrovare una via più autentica e sincera.

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