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Fermentazioni barbariche e cucina ricercata: la proposta di Klanbarrique

Quello delle cantine brassicole è uno dei fenomeni birrari più interessanti degli ultimi anni, con potenzialità che probabilmente sono state indagate solo in minima parte. In pochi ad esempio hanno approfondito l’accostamento con la cucina ricercata, incontro che può avvantaggiarsi dalla natura ibrida di certi prodotti: birre certamente, la cui anima però si arricchisce di aromi provenienti dall’affinamento in legno e dal ricorso a tecniche produttive talvolta originali. E proprio questo percorso è stato al centro della serata organizzata presso il locale del Birrificio Italiano a Milano, dove sono andate in scena quattro produzioni del progetto Klanbarrique – costola proprio del Birrificio Italiano – abbinate ad altrettanti piatti dello chef Vittorio Tarantola del Ristorante Tarantola di Appiano Gentile (CO). A presenziare l’evento c’erano Agostino Arioli, fondatore del birrificio, e Matteo Marzari (Cantine de Terczal), uno dei due enologi che hanno contribuito alla nascita del marchio Klanbarrique. A moderare la serata il giornalista Raffaele Foglia.

La linea Klanbarrique fu presentata ufficialmente al pubblico a inizio 2016, sebbene all’epoca il nome fosse differente: si chiamava Barbarrique, prima che i fondatori decisero di ribattezzarla a causa delle (opinabili) pretese di Lefebvre (quelli della birra Barbar). La filosofia negli anni però non è mai cambiata, esprimendo l’intenzione di “sondare i punti di contatto tra il mondo della birra e quello del vino, in uno scambio di idee, ingredienti e tecniche che dà origine a una generazione di bevande ibrida e del tutto nuova”. Un obiettivo sicuramente ambizioso, che a detta di Arioli si può perseguire solo se esiste uno scambio di vedute a mente aperta tra il mondo del vino e quello della birra. Questo dialogo costante permette di spingersi oltre i limiti imposti dalle consuetudini produttive, arrivando ad adottare soluzioni insolite e sperimentali.

La Inclusio Ultima (7%), birra con cui si è aperta la degustazione, può essere considerata l’emblema di questa filosofia. È una bassa fermentazione che subisce un processo assimilabile al metodo classico, a cui si aggiunge un dry hopping effettuato direttamente in bottiglia. La fase della sboccatura in questo caso serve per eliminare i residui di luppolo e successivamente il rabbocco viene effettuato con l’aggiunta di Tipopils (che dunque funge come una sorta di liquer d’expedition). Il lievito per la fermentazione primaria è sostanzialmente neutro, mentre per la seconda viene utilizzato un lievito di stampo belga che contribuisce a caratterizzare la birra soprattutto a livello olfattivo. La Inclusio Ultima è stata felicemente accostata a zucca gialla cotta al forno, cotechino, scarola, nuvola di patate bianche e lenticchie chips.

Per certi versi meno complesso è l’iter produttivo della Wildekind (7,7%), una Farmhouse Ale ispirata alle antiche birre delle campagne del Belgio e maturata in botti di vino rosso con aggiunta di Brettanomiceti. Proprio il Brett è grande protagonista a livello aromatico: il naso della Wildekind ricorda le note più suadenti del tradizionale Lambic. Non a caso il tipo di Brett utilizzato è il Bruxellensis, che viene “aggiunto” alla birra senza inoculo, ma utilizzando direttamente le botti più adatte allo scopo. Agostino ha sottolineato questo passaggio, cioè il ricorso a una “contaminazione” naturale, aspetto che magari approfondiremo in un articolo dedicato al tema. La Wildekind è stata abbinata a un risotto con Blu del Moncenisio ed essenza di barbabietola, sfumato con la stessa birra.

Il metodo classico torna con la Padosé (7,7%), che possiamo considerare un “upgrade” della Cassissona, una delle prime birre con frutta del Birrificio Italiano. La Padosé è infatti prodotta con un 10% di ribes nero in bacche, innestato su un’alta fermentazione che rifermenta a lungo in bottiglia (nel nostro caso 8 mesi dopo la sboccatura). L’ho trovata davvero straordinaria, con un carattere incisivo ma anche elegante e l’apporto della frutta davvero ben bilanciato. Fantastico anche l’abbinamento con cervo al pepe nero, salsa ai mirtilli speziata e cipolla arrosto: un piatto che sembrava nato apposta per la birra, e viceversa.

Anche la Moonshare (10,1%), ultimo assaggio di ieri, è l’evoluzione di una birra stabilmente prodotta dal Birrificio Italiano. La base è infatti rappresentata dalla Sparrow Pit, Barley Wine originariamente realizzato in collaborazione con il birrificio inglese Thornbridge, che in questo caso subisce un lungo invecchiamento in botti di grappa Riserva 18 Lune della distilleria Marzadro. L’idea è di aggiungere la dolcezza della grappa al profilo aromatico della birra, già di per sé molto complesso, creando un prodotto forte e arrogante, ma anche secco e morbido. L’abbinamento non poteva che essere con un dessert: mela caramellata alle noci, gelato al formaggio fresco di capra, nota di 18 Lune Marzadro e Panettone Tarantola.

Degna conclusione di una serata molto interessante, che ha permesso di indagare la predisposizione di certe birre col mondo della ristorazione. In effetti simili prodotti sono solitamente appannaggio esclusivo della nicchia dei super appassionati e obiettivamente è difficile che incontrino un pubblico più ampio in un contesto di consumo “normale”. La cucina può allora essere lo strumento col quale affermarsi nei confronti di consumatori meno smaliziati e, perché no, per incuriosire finalmente chef e sommelier, che continuano ad avere nei confronti della nostra bevanda un approccio quasi sempre superficiale e dilettantesco.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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