Cimec

Definizione di birra artigianale: le audizioni di MoBI, Birrificio Italiano e altri

Per il nostro settore il 2015 si è chiuso con la confortante prospettiva di una ridefinizione della disciplina delle accise a favore dei microbirrifici e di una definizione legale di birra artigianale. Si tratta di due passaggi importantissimi, di cui il mondo politico sta finalmente prendendo atto grazie all’intermediazione di diversi soggetti operanti nell’ambiente. Nell’ottica di una proposta di legge per la semplificazione e la razionalizzazione del settore agroalimentare, a metà dicembre si è tenuta l’audizione di Unionbirrai, Assobirra e CNA presso la Commissione Agricoltura. Questa fase di raccolta di pareri tecnici non si è conclusa in quella sede, ma è andata avanti nelle settimane successive: gli ultimi soggetti ascoltati sono stati MoBI, il Birrificio Italiano e il comune di Apecchio (PU) con i suoi produttori locali. Come ho ribadito più volte in passato, noi abbiamo l’obbligo di seguire e valutare queste audizioni perché fissano i punti di partenza per la futura regolamentazione: una visione errata oggi potrebbe avere pericolose ripercussioni nei prossimi mesi.

Partiamo da MoBI, che per chi non lo sapesse è il Movimento Birrario Italiano, l’ente cioè che tutela gli interessi dei consumatori consapevoli di birra. A rappresentare l’associazione davanti alla Commissione Agricoltura è andato il presidente (fresco di nomina) Gianriccardo Corbo, la cui audizione si è concentrata quasi esclusivamente sulla definizione di “birrificio artigianale”. Questi i punti principali del MoBI pensiero al riguardo:

  • Limite produttivo fissato a 200.000 hl, in linea con la direttiva europea.
  • Assenza di pastorizzazione e microfiltrazione. È invece concessa la semplice filtrazione.
  • Totale indipendenza da qualsiasi industria (anche di altro settore) in termini di proprietà delle quote societarie – anche qui il modello di riferimento è l’Unione Europea.
  • Necessità di non legare la definizione all’uso obbligatorio di ingredienti locali.
  • Nel caso in cui la definizione dovesse vietare l’impiego di additivi, necessità di non utilizzare una formula generale, ma specificare quali di essi non sarebbero ammessi.

Come già accaduto con Unionbirrai, Assobirra e CNA, anche la proposta di MoBI è assolutamente assennata e condivisibile. Ho qualche dubbio sul concetto di indipendenza su come è stato formulato, ma al di là di questo aspetto è un ottimo punto di partenza per una futura definizione.

Più recente è invece l’audizione a cui hanno partecipato, tra gli altri, il Birrificio Italiano (nella persona di Agostino Arioli) e i tre birrifici di Apecchio: Tenute Collesi, Amarcord e Venere. A differenza del passato, in questo caso gli auditi hanno mostrato posizioni anche molto distanti tra loro, che chiaramente possono complicare il percorso per la creazione della definizione di birra artigianale.

Piuttosto allineate e condivisibili sono apparse quelle di Birrificio Italiano e Collesi, poiché per entrambi è importante verificare l’assenza di pastorizzazione e microfiltrazione, oltre che imporre un limite produttivo. Per Collesi ha senso introdurre anche l’assenza di aggiunta di Co2 nella prima fase produttiva, mentre Arioli ha sottolineato la necessità di una semplificazione generale delle regole vigenti nell’ambiente.

Il discorso della semplificazione invece non sembra essere prioritario per il birrificio Venere, che ha introdotto nella sua visione il concetto di birrificio agricolo (fattispecie alla quale appartiene), ma soprattutto ha proposto una definizione di “birra artigianale superiore” per quei microbirrifici un po’ più artigianali degli altri. Di conseguenza i “marchi” sarebbero quattro: “birra artigianale”, “birra artigianale superiore”, “birra agricola” e “birra agricola superiore”. Da segnalare che nell’audizione dello scorso dicembre ogni discorso inerente la birra agricola è stato rapidamente escluso dal dibattito.

Infine molto lontana dalle altre posizioni è apparsa quella di Amarcord, ma la novità non meraviglierà chi conosce bene il birrificio marchigiano. Nella proposta di questo produttore infatti la pastorizzazione è ammessa al fine di non penalizzare l’export, così come i succedanei del malto d’orzo per poter continuare a produrre stili che prevedono altri cereali – sebbene questo aspetto non sia in pericolo. Unico punto condivisibile è quello che nega l’obbligo di ingredienti italiani. In pratica secondo Amarcord il solo criterio che differenzierebbe un birrificio artigianale da uno industriale è l’ammontare di birra prodotta nel corso dell’anno, con buona pace di tutte le differenze che esistono a livello realizzativo.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

Leggi anche

Intelligenza artificiale e gusto della birra: arriva dal Belgio uno studio innovativo

L’intelligenza artificiale (IA) si sta rapidamente affermando come un potente strumento per l’innovazione in diversi …

Ancora un record per i birrifici italiani al Barcelona Beer Challenge: 77 medaglie tra cui 23 ori

Venerdì scorso si è tenuta la cerimonia di premiazione del Barcelona Beer Challenge, uno dei …

28 Commenti

  1. Amarcord era un po’ l’intruso della situazione…

  2. Comprendo le motivazioni di Amarcord, il loro prodotto non è a livello di quello di tanti altri (Birrificio Italiano in primis) e una regolamentazione dal loro punto di vista troppo rigida, li penalizzerebbe mostrando al mondo la verità.
    Mi trovo parzialmente in accordo con i limiti legati alla capacità produttiva anche se mi spaventano.
    Mi spaventano perché non potendo superare i 200khl c’è il rischio che nel lungo periodo alcuni prodotti soffrano di scarsa reperibilità.

  3. Ma poi…per certi stili di birra magari non troppo luppolo-oriented anche una pastorizzazione prima si un inoculo per la rifermentazione (che quindi avrebbe i giusti e vivissimi ceppi) non sarebbe a mio parere scandaloso…e additivi..correttivi per ph o sali li usano quasi tutti direi e filtrazione quanto (in termini di micron dei filtri) e quando, e poi una volta messi dei paletti chi è come andrebbe a controllare, dato che a livello di prodotto finito è, obiettivamente difficile se si lavora comunque bene…e una birra con mais locale di qualità usato in certe modalità e quantità renderebbe una birra non-artigianale a priori? Sono solo spunti che negli ultimi mesi mi hanno fatto riflettere

  4. Ciao Andrea, non riesco a immaginare quali siano i requisiti di una “birra artigianale superiore”! Di conseguenza qual’è la differenza tra microbirrifici e microbirrifici un po’ più artigianali?…

  5. Voglio dire una cosa un po’ controcorrente.
    Ma è ncessaria una premessa: ad essere “artigianale” è il processo produttivo (e per estensione quindi il birrificio) o il prodotto finale? Molti diranno “vabbé è la stessa cosa”, ma nel momento in cui si affronta la questione da un punto di vista normativo no, non è lo stesso. Non bisogna perdere di vista qual è lo scopo della tanto richiesta legge sulla birra artigianale: alleggerimenti in materia fiscale e burocratica per i piccoli produttori che devono competere cn i grossi gruppi industriali, non una denominazione di qualitá per il consumatore. Da questo punto di vista, non è rilevante che il produttore pastorizzi o filtri la propria birra: si tratterá ancora di una piccola impresa, magari con un birraio e una piccola manciata di dipendenti, che da un punto di vista imprenditoriale continua a non avere quasi nulla a spartire con un gigante industriale. A meno che non si voglia sostenere, romanticamente, che il processo di pastorizzazione abbia una sua “industrialitá” intrinseca maggiore del processo di ammostamento o di bollitura, ma è non-sense.

    Se poi invece si vuole che il senso della normativa sia di dare un premio a chi fa peodotti piú buoni il discorso cambia. Beninteso, se fossi un produttore non pastorizzerei le mie birre, e da consumatore le evito attentamente; ma – ripeto – non mi risulta che a questo (una sorta di garanzia di qualitá superiore) mirasse l’introduzione nella legislazione del “birrificio artigianale”.

    • E infatti uno degli aspetti che è emerso dal dibattito è che un marchio “birra artigianale” non è sinonimo di qualità, ma semplicemente di birra prodotta in un certo modo. Secondo il tuo pensiero qualsiasi soluzione adottata nel processo produttivo è trascurabile ai fini della definizione di birra artigianale, ma non stiamo parlando semplicemente di bontà del prodotto finale (anzi per niente), bensì della “filosofia” di certi interventi. Quando la scelta produttiva sacrifica la qualità finale (in maniera ragionevolmente obiettiva) per il solo fine di ottenere margini superiori, allora quel birrificio sicuramente non sta producendo una birra “artigianale” (o “buona”, o “migliore”, o “vera”, insomma come preferisci chiamarla)

  6. Mi permetto alcune precisazioni su Amarcord, visto che il discorso l’ho fatto personalmente.
    La posizione di Amarcord è ben più ampia della chiosa finale dell’articolo “In pratica secondo Amarcord il solo criterio che differenzierebbe un birrificio artigianale da uno industriale è l’ammontare di birra prodotta nel corso dell’anno, con buona pace di tutte le differenze che esistono a livello realizzativo”.
    Niente di più falso, ed il video è lì a testimoniarlo.

    1) Si è parlato di HIGH GRAVITY come tecnica che fondamentalmente distingue in maniera netta le filosofie produttive artigianali da quelle industriali.

    2) Si è parlato di uso di materie prime di qualità (leggi malto d’orzo) vs. succedanei a basso prezzo, con dei distinguo. Se voglio realizzare una blanche o una american lager, dove lo stile prevede l’uso di cereali meno costosi, non è birra artigianale? Ovvio che l’uso di materie prime di costo inferiore deve essere permesso in questi casi, per fini tecnologici, ma questo presterebbe il fianco a speculazioni da parte dell’industria. Ovviamente lungi da noi usare riso e mais e altri cereali meno nobili per abbattere i costi, ma ripeto, inserire questo parametro nella definizione sarebbe molto facilmente raggirabile.

    3) si è parlato di pastrorizzazione e microfiltrazione. Noi alcuni prodotti li pastorizziamo per necessità commerciali, altri no. E qui ovviamente si apre lo scenario del birrificio artigianale vs. birra artigianale. A questo punto un birrificio artigianale che sceglie di pastorizzare una parte della sua produzione ma tutto il resto del ciclo produttivo, materie prime, etc restano invariate, diventa automaticamente un produttore industriale?. Per noi pastorizzare o meno è una scelta di opportunità, ma se si regolamentasse la birra artigianale attraverso la non pastorizzazione e non filtrazione saremmo assolutamente pronti e preparati, perché ripeto, facciamo diverse birre non pastorizzate. Quindi nessuna verità da mostrare al mondo.
    4) si è parlato di indipendenza

    In sintesi, l’intervento di Amarcord è stato più un monito al legislatore nel mettere troppi paletti alla definizione di birra artigianale, perché più paletti ci sono più è difficile il controllo degli stessi, e l’unico che ne verrebbe penalizzato è il consumatore. Fatta la legge, trovato l’inganno insomma.
    La ratio della legge vuole essere quella di tutelare ed informare il consumatore per permettergli di fare scelte consapevoli e quindi ci vuole semplicità nella definizione per agevolare i controlli. Una lista di birrifici artigianali sarebbe auspicabile, che devono rispettare:

    – 200.000 hL max, ricalcando il limite delle accise
    – materie prime di qualità e non succedanei per abbassare i costi (ma di difficile controllo, perché certi stili prevedono l’uso di cereali più economici, ma a questo punto bisognerebbe normare anche gli stili, cosa ovviamente impossibile). No estratti di luppolo
    – no high gravity
    – no vincoli su pastorizzazione e microfiltrazione. Non siamo il primo paese nel mondo ad aver inventato la birra artigianale, ma saremmo il primo a “permetterci” di inserire questo vincolo. Ispiriamoci ai paesi che prima di noi sono arrivati su questo magnifico mondo (leggi usa, uk, belgio)

    In generale credo che, viste le numerosissime anime e necessità dell’ormai migliaio di birrifici, un confronto ampio sia doveroso e costruttivo.

    • Ciao Andrea, grazie delle precisazioni. Mi permetto semplicemente di evidenziare questa frase, che se non ricordo male è stata espressa anche durante l’audizione:

      “Noi alcuni prodotti li pastorizziamo per necessità commerciali, altri no.”

      Al di là della pastorizzazione in sé, giustificare delle scelte (produttive o meno) esclusivamente per necessità commerciali secondo me non si distanzia molto da ciò che fa l’industria. Anche le multinazionali possono affermare di aggiungere conservanti per necessità commerciali, così come i microbirrifici che vendono quote all’industria dicono che lo fanno per necessità commerciali.
      Ci sono birrifici che vendono in tutto il mondo e che non sentono la necessità di pastorizzare.

      • Ma infatti il mio appunto era relativo alla tua affermazione in cui riducevi l’intervento di Amarcord al solo aspetto delle dimensioni, perrmettendo qualsiasi cosa a livello produttivo, cosa lontanissima da quanto detto in sede di audizione.

        Per la pastorizzazione e filtrazione il discorso è più complesso.
        I conservanti sono una sostanza chimica addizionata al prodotto (ricordiamo l’enorme battaglia del settore vino per evitare il “contiene solfiti”) la pastorizzazione è un processo termico che nel LUNGO periodo deprime gli aromi del prodotto. C’è una bella differenza tra pastorizzare e usare conservanti.
        Tutte le scelte di un birrificio sono scelte commerciali, altrimenti uno fa l’home brewer e basta! Uno vuole romanticamente imbottigliare a mano tutte le bottiglie e tapparle con la tappatrice del nonno perché così avrà un appeal più artigianale? Benissimo! Trattasi comunque di scelta commerciale!
        E’ vero che ci sono birrifici in tutto il mondo che non sentono la necessità di pastorizzare, ma è vero anche il contrario! E solo in Italia ci vogliamo impuntare su questo concetto!

        Insomma il problema è complesso e ridurre tutta la discussione alla pastorizzazione o meno è sbagliato, le differenze più evidenti sono altrove (high gravity in primis e poi materie prime!)

        Queste cose, che avevo detto durante l’intervento, non le hai minimamente citate nell’articolo, e questo, onestamente l’ho trovato molto superficiale e fuorviante.

        • Sì concordo con te che la frase finale è riduttiva e mi scuso per questo. Il punto è che la posizione si inserisce in un dibattito che non comincia e finisce con la visione di Amarcord. È chiaro che l’high gravity, l’uso di conservanti e altre soluzioni dello stesso tipo devono essere escluse. Su questo non c’è dubbio da parte di nessuno. Ma a me (e credo alla commissione) interessa capire quali sono i criteri per definire la birra (anzi il birrificio) artigianale e Amarcord, da quello che ho ascoltato fino a oggi, è l’unica che accetta la pastorizzazione. Non è un discorso di religione sulla pastorizzazione, ma quanto questa visione sia in linea con quella degli altri auditi.

          Chiaramente ogni azienda compie scelte commerciali e i birrifici sono aziende, io sono il primo a sottolinearlo. Ma dipende cosa si vuole fare. Anche un fast food e un ristorante stellato compiono scelte commerciali nello stesso settore, ma ovviamente guidate da filosofie diverse. E sono queste filosofie (e quindi le scelte) che poi definiscono il prodotto finale. È un discorso generale e non strettamente collegato alla pastorizzazione.

          • Certo che non comincia e non finisce con la posizione di Amarcord, siamo uno dei tanti birrifici italiani e nessuno di noi ha la pretesa di pontificare.
            Il punto invece è che sul nostro conto hai scritto una cosa inesatta e riduttiva (faziosamente o meno non mi interessa) e ti sei scusato, ma dal punto di vista giornalistico la scusa migliore è correggere il testo dell’articolo.

          • Secondo me invece la cosa migliore è accettare le scuse e non sollevare dubbi sulla faziosità (lol) del prossimo.

  7. Birra artigianale, per il consumatore, viene percepito come prodotto di qualità.
    Se nella legge – che ha altre finalità – si stabilisse che il prodotto “artigianale” non deve essere pastorizzato, si creerebbe nell’utenza il potenziale rischio di ritenere “buona” la sola birra non pastorizzata. Il che comporterebbe una inesatta percezione della realtà, dato che esistono prodotti industriali e pastorizzati (prevalentemente esteri) assolutamente validi, e birre non pastorizzate prodotte da microbirrifici che meriterebbero di essere utilizzate al più per spurgare il lavandino. Credo quindi che la pastorizzazione non dovrebbe essere considerata tra i parametri.

  8. la pastorizzazione sicuramente non migliora la qualitá ma la conservazione. che serve a chi produce tanto e spedisce lontano e in fretta prodotti fragili. Niente di più lontano dal concetto di artigianale, che ha e deve avere logiche di variabilitá, cura nel tempo (maturazione) e localitá. Se Amarcord vuole esportare in Sudafrica e per stare tranquillo vuole pastorizzare, lo faccia e non si riempia la bocca di artigianalitá per tenere i piedi in due scarpe.
    La differenza tra artigianale e non, è decisamente evidente nei prodotti.

  9. ciao Andrea potreste spiegarmi meglio perche’ no high gravity?
    Josif di Birra Elvo

  10. Ebbene sì, le (ottime) birre di Elvo sono fatte in high gravity (correggimi se sbaglio Josif) e adesso come la mettiamo ;)??

  11. Quindi secondo voi è meglio effettuare un taglio con acqua carbonatata di un mosto fermentato ad un plato più elevato piuttosto che pastorizzare? Il processo di high gravity è un caposaldo dell’industria atto a massimizzare la resa per cotta/produzione! Se un piccolo birrificio attua questo processo e ne risultano ottime birre, si può allora dire che i grandi produttori che lo effettuano sono artigianali in quanto viene dimostrato che non è la pastorizzazione o l’high gravity ciò che influenza il prodotto! Trovo che tutto questo gran vociare attorno all’essere o meno artigianale possa trovare analogia nelle rane che gracidano nello stagno.
    Vorrei inoltre far presente che ascoltare singoli produttori non porta da nessuna parte, ognuno tira l’acqua al proprio mulino…candido esempio ne è il birrificio venere ; un’associazione di categoria rappresenterebbe meglio gli interessi di tutti!

  12. Sì, per me è meglio l’high gravity che la pastorizzazione

    • per quale motivo di grazia?
      entrambi i processi sono praticati dall’industria…quindi non vedo dove sia la differenza.
      Mi sembra, in sostanza, che si badi di più alla forma che alla sostanza nel senso che non ci si può aggrappare alle scelte di processo che uno fa; per assurdo si potrebbe allora definire industriale chi ha un’imbottigliatrice isobarica e artigianale chi non la possiede…sono sofismi inutili!
      Comunque, entrambi i processi sono invasivi per il prodotto; però in un caso resta tal quale nell’altro abbiamo una diluizione della soluzione!

  13. Per Davide: Dopo la pastorizzazione la birra non rimane “tal quale” in quanto non è un processo “invasivo”, come dici tu, ma privativo.

    • allora, se avessi letto il mio commento, capiresti che “tal quale” si riferisce alla composizione della soluzione; quindi se aggiungo acqua carbonatata ad una soluzione con una determinata densità, diluendola, non si parla più di soluzione tal quale ma di diluizione (https://it.wikipedia.org/wiki/Diluizione). Detto ciò, un prodotto che viene pastorizzato non è addizionato di nessuna cosa, ergo si può dire che la birra sia tal quale a quella non ancora pastorizzata.
      Il termine privativo, contestualmente alla pastorizzazione (https://it.wikipedia.org/wiki/Pastorizzazione), non lo trovo corretto e coerente; l’unica cosa di cui priviamo il prodotto è la possibilità di poter avere un’infezione lattica o acetica.
      Se definiamo la pastorizzazione come un processo termico atto ad abbatere la carica microbica in un determinato alimento, i cambiamenti che possono avvenire all’interno di una bottiglia, o se parliamo di flash-pastorizzazione all’interno di uno scambiatore di calore a piastre, è dovuta a quei processi messi in atto dalla reazione di maillard e conseguente sintesi di strecker che possono portare ad un leggero cambiamento nel colore e nella percezione dei sentori legati al biscotto e al tostato; entrambi i processi sono invasivi quindi se vanno in una qualche maniera ad alterare, anche minimamente il prodotto.
      dopo essermi speso in tutta questa pappardella però, mi vien da dire una cosa…non mi hai ancora spiegato perchè uno dovrebbe essere meglio dell’altro.

  14. Scusate la mia ignoranza, ma prodotti come Sierra Nevada ecc. sono pastorizzati? Se no come fanno i produttori a mantenere la qualità?

  15. P.S. non sono il davide di sopra sono un altro

Rispondi a Andrea Turco Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *