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Le birre americane sono troppo estreme?

Extreme BrewingEra da un po’ di tempo che stavo aspettando l’occasione per approfondire il discorso della moda delle birre estreme, affrontato qualche settimana fa dal sito SignOnSanDiego, versione on-line dell’importante quotidiano statunitense San Diego Union-Tribune. L’articolo, a firma Peter Rowe, partiva dai temi della Craft Brewers Conference, tenutasi in concomitanza col recente World Beer Cup, per fornire una panoramica delle due filosofie in antitesi tra i produttori e gli appassionati di birra artigianale americana: da una parte i sostenitori delle tipiche birre estreme del mercato statunitense, dall’altra chi invece propende per produzioni più bilanciate.

L’articolo affronta la questione inizialmente in maniera piuttosto superficiale, riducendo tra l’altro la caratterizzazione delle birre estreme quasi esclusivamente all’uso di luppolo e all’alto grado alcolico, salvo correggere la mira in modo esplicito nei capoversi finali. Al di là di questi limiti, il pezzo di Rowe nel complesso è utile per introdurre la questione cui fa riferimento il titolo di questo post.

Le birre americane da noi sono percepite quasi sempre come produzioni estreme, particolari, al limite della sperimentazione. Fino a qualche anno fa, quando i prodotti del mercato americano arrivavano col contagocce, ricordo che erano giustamente visti come rare parle brassicole, come esperienze degustative uniche. Ma in poco tempo la reperibilità è aumentata vertiginosamente, prima in bottiglia e poi alla spina, mentre diversi birrifici europei hanno iniziato a seguire la moda delle birre americane.

Attualmente è piuttosto facile entrare in contatto con i frutti della filosofia brassicola americana. Oltre ai birrifici statunitensi ormai presenti tra le spine e le bottiglie di pub e beershop, troviamo anche il contributo dei prodotti danesi (molto american-style) e della nuova generazione di birre belghe, che in un modo o nell’altro si rifanno a quelle dei colleghi di oltre oceano. Risultato: l’invasione di birre estreme ha ormai raggiunto una fase avanzata, con la possibilità di provare tante Imperial Stout, Imperial Porter, Double IPA, Triple APA, Double Imperial Porter e via di questo passo.

E’ vero, l’affresco che ho fatto dell’attuale situazione rischia di apparire come un evitabile luogo comune, visto che ci sono tanti produttori statunitensi che invece brassano seguendo criteri del tutto diversi. Tuttavia è innegabile che fino a qualche anno fa, parlando di scena americana, gli argomenti che si toccavano quasi sempre erano il record di amarezza della 120 Minutes IPA o di grado alcolico della Utopia (Samuel Adams). Così come è innegabile che l’idea di creare birre extra-luppolate, alcolicissime e super impegnative è tipica della cultura birraria d’oltre oceano.

E se fino a qualche anno fa anch’io ero assolutamente affascinato da queste produzioni, oggi mi capita talvolta di rimanere perplesso di fronte all’ennesima amarissima APA o alla solita complessissima Imperial Porter. Va bene il tentativo di meravigliare il bevitore, ma se tutto si riduce, ad esempio, a una sterile rincorsa agli IBU, è evidente che la meraviglia lascia presto spazio alla noia. Soprattutto se oltre i virtuosismi produttivi rimane ben poco.

Sam Calagione, proprietario della Dogfish Head, è uno strenuo difensore delle birre estreme: “Prodotti più forti, più complessi, più ricchi nell’aroma, permettono alla birra di competere realmente col vino”. E l’impressionante successo dell’azienda dimostrebbe la legittimità delle sue idee. Ma, come sappiamo, i consumatori americani sono molto diversi da quelli europei, non solo in ambito birrario. Senza considerare che le sole vendite non sono un indicatore di qualità del proprio lavoro – anche se nel caso specifico la Dogfish Head sforna delle birre spesso eccellenti.

In Europa siamo forse più influenzati da altri parametri nella creazione e nella scelta di una birra. Non ricerchiamo necessariamente l’elemento spettacolare, l’effetto a tutti i costi. Sicuramente diamo un valore elevato a concetti quali “eleganza” ed “equilibrio”, tradizionalmente non proprio riconducibili alle produzioni statunitensi. Per questo ritengo che finito l’entusiasmo per queste “nuove birre”, torneremo a gusti più classici.

L’effetto provocato da queste birre è spesso di lasciare spiazzato il bevitore. Ma ciò avviene quando non si conosce ciò che si ha di fronte. Ecco perché, ad esempio, sono rimasto positivamente colpito dalla Ruinator la prima votla che l’ho assaggiata. Però già so che se vorrò bermi una birra per il puro piacere di farlo, difficilmente tornerò ad ordinarla: sarà molto più facile che mi trovi piuttosto a chiedere l’ennesimo bicchiere di Blanche de Namur.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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8 Commenti

  1. Argomento molto esplosivo. Ci tengo solo a precisare che una birra estrema può essere sia elegante che equilibrata.
    Un esempio la citata “120 Minute IPA” ha si 120 IBUs ma con 18-20 %Alc. e 45 gradi plato risulta una bomba equilibrata.
    A mio parere va benissimo l’elastico esagerare e ritornare ai sacrosanti punti di riferimento.

    Tot ziens

    Valter

  2. Sull’equilibrio sono d’accordo con te, sull’eleganza un po’ meno… nel senso che faccio un po’ fatica a definire la 120 Minute “elegante”. Ma il problema ovviamente non è su un prodotto nello specifico, quanto sulle caratteristiche in generale delle birre americane o di quelle che si ispirano ad esse.

    Sì credo tu abbia ragione sull’elastico: è fisiologico dapprima farsi affascinare dalla novità, così come lo è tornare su gusti “classici” una volta terminato l’effetto “sorpresa”.

  3. Non ritengo che l’uso di luppoli americani in dose sostenuta omologhi le birre. Esterificazioni, corpi più o meno sostenuti, equilibri gustativi etc… si sentono lo stesso.
    Trovo alcune birre americane assolutamente squilibrate, ed altre, nonostante estreme,
    molto ben fatte. Anzi questa voglia di sperimentare e di stravolgere è fondamentale per tutto il settore e spesso , a mia opinione, gli americani sono davanti a tutti.
    Senz’altro queste estremizzazioni e questi luppoli hanno molto arricchito il panorama birrario mondiale e non penso torneremo indietro.
    Il problema è sempre liberarsi dagli imitatori ignoranti e dai falsi professori, e ce ne sono tanti, proprio tanti……

  4. Non è un discorso meramente qualitativo. Anzi, sicuramente mi è capitato di bere più prodotti buoni che il contrario. Però i caratteri fondamentali tendono a tornare sempre in modalità simili tra loro: uso massiccio di luppoli, alto grado alcolico, complessità del risultato finale. Che so, io in questo periodo (la bella stagione non c’entra) mi berrei con più piacere una blanche, una pils, una bitter o una saison… insomma, birre che si possono mandar giù con più semplicità e che si caratterizzano per altri aspetti.

  5. Non sono alternative le cose , anzi, la cultura birrraria europea è fuori discussione, quella americana però non è una moda, secondo me si aggiunge, innova e migliora. Poi d’estate magari si preferisce una birra con buona bevibilità e di inverno qualcosa di corpo maggiore, ma è abbastanza normale ; quando avevo l’enoteca vendevo molti vini da ottobre a maggio, con picchi nei mesi più freddi, e meno, ed anche sensibilmente, e più bianchi, nei mesi estivi; anche la cultura del vino segue le stagioni….

  6. Non è certo la cultura birraria d’oltre oceano ad essere una moda, quanto piuttosto il nostro interesse verso certi prodotti. Che a me ormai non affascinano più come prima, indipendentemente dalla stagione.

  7. All’inizio guardavo con molta perplessità all’America come produttrice di birra in generale… anche per i motivi che avete elencato voi. Insomma riducevo tutte le birre americane alle “solite” IPA esagerate.
    Poi ho assaggiato birre molto buone (come quelle della left hand) e un po la mia idea iniziò a cambiare. Da qualche anno a questa parte la mia passione per l’homebrewing è esplosa (prima era una cosa che facevo un po’ così come mi veniva..) ed è in quell’istate che ho cominciato ad apprezzare davvero gli americani!
    sull’homebrewing sono avanti a noi almeno 30 anni! Avete provato a dare un’occhiata ai loro cataloghi? a quanti siti, blog, podcast in lingua inglese esistono? a quanti negozi attrezzatissimi e competizioni/raduni su tutto il territorio hanno?
    noi li siamo ancora alla preistoria…

    a mio parere per capire una irra americana occorre capire prima la loro mentalità verso la birra. Noi siamo sempre un po’ sofisticati.. come ne sappiamo un po di birra vogliamo assolutamente ricercare la bottiglia pregiata e rimaniamo schifati di fronte a un prodotto buono ma non all’altezza… loro invece sono + semplici!
    e non è detto sia sempre un male… il loro atteggiamento favorisce molto lo scambio di idee e lo sviluppo di una cultura sulla birra che non è (come la intendiamo noi) la conoscenza storica e scientifica del prodotto birra… è una cultura di aggregazione e sviluppo di un movimento che parte dall’homebrewing e dilaga poi in tutte le sue forme..

    abbiamo solo da imparare dagli americani…

  8. Più che la loro mentalità verso la birra bisogna capire la loro mentalità in genere: in america fanno tutto in grande, tutto è esagerato se non esasperato (non solo macchine, moto, città, film parlo anche di rapporti umani) ergo il discorso vale anche per le loro birre: giù pesantissimi col luppolo, gradazioni alcoliche da paura etc.

    Qua in Europa la prendiamo un po’ più bassa….. comunque sul fatto dei cataloghi, negozi, raduni, blog etc tanto di cappello, fa sempre parte del fatto di fare le cose in grande e qualcosa da imparare è innegabile che ci sia.

    Ma, a mio parere, prenderli a modello al 100% è un’altro discorso.

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