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Di arance, mais, pubblicità e nastri azzurri

Recentemente mi sono documentato a lungo sul succo d’arancia. Non vi preoccupate: non sono impazzito e non sono diventato fruttariano, e men che meno astemio (che forse è anche peggio). Ora, a meno che le mie ricerche non siano sbagliate, dovete sapere che in Italia vige una disciplina abbastanza precisa in materia di succhi a base di arancia, che prevede tutta una classificazione dei vari prodotti appartenenti a questa famiglia. Se su una confezione trovate scritto succo o spremuta d’arancia, allora potete essere sicuri che il contenuto sarà composto al 100% di succo d’arancia, senza la minima aggiunta di acqua. Potrà essere ottenuto naturalmente dal frutto oppure “ricostituito” da succo concentrato, ma in quest’ultimo caso ci sarà la relativa dicitura in etichetta. Lo zucchero non può superare i 100 grammi per litro. Se già vi siete annoiati e state per abbandonare la lettura per stapparvi una birra, pazientate ancora un attimo.

Esistono poi i nettari di arancia, che occupano la posizione subito successiva in un’immaginaria scala qualitativa. Sono prodotti con almeno il 50% di succo d’arancia, mentre il resto è acqua, zucchero (può arrivare fino a 200 grammi per litro) o miele. Ancora più sotto ci sono le bevande a base di succo d’arancia, nelle quali la percentuale minima di succo di frutta richiesta è pari al 12%. Il resto è acqua, zucchero e spesso aromi, coloranti e altri additivi. Infine esistono le cosiddette bevande di fantasia, dove la percentuale di succo di frutta è inferiore al 12%: in questi casi l’etichetta non può riportare come dicitura “aranciata” o “bibita all’arancia”, ma più giustamente “bibita al gusto d’arancia”.

Poiché ogni prodotto presenta in etichetta le informazioni che ne evidenziano l’appartenenza alla relativa tipologia, il consumatore – almeno quello interessato – può valutare che tipo di succo sta comprando. Può scegliere l’eccellenza, acquistando un vero e proprio succo d’arancia (100%) oppure sacrificare la qualità a favore di un prezzo presumibilmente più basso: in questo caso sceglierà un nettare (almeno il 50%) o una bevanda a base di succo d’arancia (almeno il 12%). Se ha orientamenti masochistici, infine, prediligerà una bibita di fantasia. È una classificazione abbastanza complessa e articolata, ma offre al consumatore un certo margine di garanzia sul tipo di prodotto che sta acquistando.

Ora poniamo che un’ipotetica azienda che produce succhi a base d’arancia (12%) decida di pubblicizzare la sua bevanda. Per semplicità la chiameremo Succhi Tibie SpA. Quello realizzato da Succhi Tibie è ovviamente un prodotto che per definizione non punta certo alla qualità, essendo per scelte produttive ben distante dall’eccellenza. Quindi piuttosto che decantare le lodi delle sue materie prime – cosa che apparirebbe quantomeno grottesca – può decidere di associare la bevanda ad altri concetti più astratti: al piacere di bere quella bibita tra amici, oppure a quanto sia rinfrescante nelle calde giornate estive. Ed è ciò che Succhi Tibie effettivamente attua per anni.

Poi un bel giorno gli esperti di marketing di Succhi Tibie decidono che è il momento di cambiare registro e di virare sul concetto di qualità. Quasi si autoconvincono dell’eccellenza della loro bibita mentre preparano la campagna comunicativa del nuovo anno. Ma non è facile: la gente ha imparato a percepire come eccelsi i veri succhi d’arancia di piccole aziende che lavorano con ingredienti di prima qualità e con tecniche rispettose del risultato finale. Non potendo competere su questi piani, quale può essere la soluzione per assecondare la nuova filosofia comunicativa? Bisognerebbe decantare le lodi di qualcosa che tutti quei piccoli produttori non possiedono.

E qui arriva il colpo di genio: parliamo dell’acqua! Cioè proprio di quell’ingrediente che non permette alla bevanda di Succhi Tibie di essere definita un succo d’arancia, e nemmeno un nettare d’arancia. Un ingrediente che cioè contribuisce ad abbassare la qualità del loro prodotto, perché lo diluisce. Tempo un mese e la campagna è pronta: in tv e sui giornali Succhi Tibie comincia a raccontare che i loro succhi a base di arancia sono prodotti con acqua italiana di primissima scelta:

Ingrediente unico dei prodotti di Succhi Tibie è l’Acqua Nostrana, un’espressione dell’eccellenza del made in Italy. Si tratta di una varietà autoctona, recuperata grazie all’esperienza dell’Istituto sperimentale per l’Acquicultura di Bergamo, sotto il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. L’alta qualità e le caratteristiche organolettiche dell’Acqua Nostrana conferiscono ai Succhi Tibie un gusto particolare apprezzato in tutto il mondo.

Per fortuna questa è una storia fittizia, altrimenti la reazione dei consumatori di fronte a una scelta del genere sarebbe disastrosa. Cioè, risparmi sull’88% di arance e poi mi decanti le lodi della materia prima che usi per diluire la tua bevanda? Parli di eccellenza e intanto aggiungi additivi ai tuoi prodotti? In definitiva, mi stai forse prendendo per i fondelli?

E così si conclude la mia parentesi di oggi sui succhi d’arancia.

Prima di chiudere però vi invito a riflettere su alcuni punti. In Italia per la birra non esiste una suddivisione analoga a quella dei succhi d’arancia: l’importante è che ci sia un 60% di malto d’orzo (o di frumento), il resto può essere rappresentato da altri cereali più redditizi, come riso, mais, ecc. Nessuno ti vieta di produrre un cotta concentrata e di ottenere varie birre diluendo in modo diverso il mosto. Non esiste una classificazione che distingue una “birra 100% malto d’orzo” da una “birra a base di malto d’orzo”. Le uniche diciture sono quelle “commerciali” basate sui gradi plato, che naturalmente non offrono alcuna informazione sulla qualità del prodotto finale.

E ora, se vi interessa, vi rimando a questo comunicato apparso qualche giorno fa sul sito di Birra Peroni, in cui si annunciano i festeggiamenti per la raccolta del mais utilizzato nella loro Nastro Azzurro. Ma se recentemente avete guardato il relativo spot in tv saprete già di cosa stiamo parlando.

Buon mais a tutti.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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7 Commenti

  1. Buon sangue non mente ! Della campagna “malto 100% italiano” ti ricordi ?
    Nota di colore. Ho passato 2 estati in Giappone e mi sono accorto che lì tema della percentuale di succedanei contenuta è più “pompato”.
    Su molte birre (industriali), infatti, sulla confezione segnalavano la percentuale di malto contenuta (a volte solo vallorizzando “all malt”).
    Allego qualche esempio:

    http://www.suntory.com/news/2007/9705.html

    http://www.ratebeer.com/beer/sapporo-yebisu/221/

    http://www.ebay.com/itm/Japan-SUNTORY-RICH-MALT-75-off-WHITE-2015-NEW-BEER-can-pair-350-500-COLLECT-/161576006165

    http://www.drinkbigapple.com/2014/03/23/asahi-honnama-aqua-blue-beer-review/

    Non credo dipendesse da leggi particolari (su molte birre non c’erano indicazioni). Probabilmente si trattava solo di un sistema per meglio guidare nell’acquisto il consumatore (alla fine stiamo parlando di gente abituata a bere fermentati di riso e per cui, anche nella birra, l’astringenza non rappresenta necessariamente un difetto e può quindi essere utile indicare quanto riso è stato utilizzato).
    P.S. una 50% malt giapponese è una delle cose peggiori che abbia mai bevuto

    • Grazie del contributo Enrico, molto interessante.

      • in giappone indicano il malto poichè è in base ad esso che viene calcolata l’accisa; al di sotto di una certa percentuale di malto non si può chiamare neppure birra; grosso modo quel che accade con il grado plato in Italia e nella maggior parte dei paesi europei.

  2. Al di là di tutto, complimenti perchè questo è un articolo scritto veramente, ma veramente bene. Io non guardo la televisione, ti posso chiedere di linkarmi lo spot di cui parli alla fine? O se non esiste, di descrivermelo? M’hai messo la curiosità

  3. Alla fine il problema è proprio la mancanza di leggi che impongano adeguate diciture in etichetta.
    Tutto il resto è libertà di consumo, e libertà di scelta. Non vorremo mica dire che uno può bere artigianale tutti i giorni? (a meno di essere pieno di soldi o di essere un home brewer)
    Esattamente come uno non beve Amarone tutti i giorni, o mangia ostriche …

    Semplicemente non c’è ancora abbastanza interesse politico/economico .. ma prima o poi ci sarà, se l’interesse dei consumatori verso la birra di qualità aumenterà, e di conseguenza il giro d’affari che c’è dietro.

    • Attenzione perché non ho proposto di adottare la stessa classificazione dei succhi d’arancia, d’altra parte non avrebbe senso. Questo non impedirebbe all’industria di adottare strategie di comunicazione come quella della Nastro Azzurro (l’ho dimostrato proprio con i succhi di frutta). Come tu dici ognuno è libero di bere (così come di produrre) ciò che preferisce, l’importante è che sappia cosa sta bevendo.

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