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Le 5 mosse con cui l’industria vuole affossare la birra artigianale

Foto: Time

Quando la scorsa settimana ho riportato la notizia dell’acquisto di SabMiller da parte di AB-Inbev, ho spiegato come questa operazione potrebbe rappresentare una manovra difensiva nei confronti della birra artigianale. Ora non nego che una simile conclusione possa essere il frutto della dietrologia di un vecchio bevitore di birra (cioè il sottoscritto), condizionato nei giudizi dalla sua grande passione. Tuttavia c’è un dettaglio da non sottovalutare e cioè che, come riportato allora, quell’analisi in realtà proveniva da una fonte super partes: il sito della BBC. Se dunque a una simile conclusione arriva un osservatore disinteressato, è forse il caso di dedicargli qualche riflessione. E lo stesso vale per un recente articolo pubblicato sulla sezione economica del Time che elenca addirittura le 5 mosse con le quali l’industria sta tentando di schiacciare la birra craft.

Il pezzo, a firma Brad Tuttle, conferma che in atto ci sarebbe una vera e propria guerra tra multinazionali del settore e microbirrifici. Non che in passato le schermaglie siano mancate: per anni i produttori craft hanno giocato con gli slogan sottolineando giustamente la loro distanza dal modo in cui l’industria intende la birra. Le multinazionali hanno a lungo ignorato queste scaramucce, mostrando però una crescente intolleranza con l’aumentare del successo dei prodotti artigianali: la conferma arrivò con lo spot anti-craft di Budweiser trasmesso durante l’ultimo Super Bowl, che fece uscire allo scoperto l’industria.

In pochi mesi sembrerebbe però che la battaglia si sia inasprita e che le multinazionali stiano mettendo in atto una vera e propria strategia per arginare l’ascesa della birra artigianale. Ascesa che, ricordiamolo, si sta accompagnando a un trend negativo dei grandi marchi birrari, sebbene una diretta correlazione tra i due fenomeni sia tutta da dimostrare.

In particolare, secondo Brad Tuttle, la tattica dell’industria sta cercando di perseguire cinque obiettivi molto precisi, tutti documentati in questi sette anni di post su Cronache di Birra. Vediamoli insieme:

Creare dei brand pseudo-artigianali

Di questo fenomeno ci siamo occupati svariate volte e negli ultimi mesi ha acquistato dimensioni ragguardevoli, complice anche la visibilità ottenuta da alcuni marchi tramite l’Expo di Milano. Il caso della “numerologia luppolata” di Poretti è l’esempio più evidente, ma organoletticamente ben più inquietanti sono le Regionali di Birra Moretti, che già in passato ci aveva provato con la Moretti Grand Cru. In mezzo mettiamoci anche le Porter di Guinness, la Estrella Damm Inedit, le Top Restaurant di Menabrea e tanti altri prodotti sulla stessa falsariga. L’obiettivo? Entrare nei ristoranti e soprattutto confondere le acque, catturando un nuovo tipo di pubblico incuriosito dal concetto di birra di qualità, ma ancora poco esperto per distinguere le etichette davvero artigianali da quelle camuffate come tali.

Acquisire il controllo dei birrifici craft

Altro tema d’attualità, che negli ultimi mesi si sta riproponendo con preoccupante costanza nel nostro ambiente. Il copione è sempre lo stesso: la multinazionale di turno punta un birrificio craft particolarmente redditizio, ne prende il controllo acquisendolo totalmente o in parte e poi lo lascia nelle mani dei suoi fondatori, che però a quel punto devono fare i conti con i desideri dell’industria. Ci sono multinazionali più “rispettose” della storia dei birrifici che acquisiscono e altre che invece ne snaturano completamente l’anima. Al di là dell’aspetto puramente qualitativo, è interessante notare che questa strategia sta divenendo sempre più diffusa e che l’industria sta cominciando a interessarsi anche a realtà più piccole, come dimostra la recente vicenda del birrificio olandese ‘t Ij.

Difendere la birra industriale ironizzando sui consumatori di quella craft

A ben vedere fino a oggi questo punto si è concretizzato solamente con lo spot di Budweiser, al quale abbiamo accennato poco sopra. È stato dunque un caso estemporaneo che nella sua unicità non può definire un trend. Però meraviglia il contesto in cui è stato trasmesso: durante il Super Bowl, cioè il singolo evento sportivo che incolla il maggior numero di americani davanti alla tv. E che è considerato il momento migliore per lanciare delle campagne pubblicitarie sostenute da ingenti investimenti.

Controllare la distribuzione

I birrifici industriali non stanno solo acquistando produttori craft, ma anche piccoli distributori indipendenti che in molti stati americani giocano un ruolo fondamentale. Queste operazioni sono molto meno appariscenti di quelle relative ai microbirrifici, ma forse più redditizie e importanti. E meno monitorate dall’opinione pubblica: sarà anche per questo che alcune recenti mosse delle multinazionali sono diventate oggetto di un’inchiesta del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. L’accusa sarebbe di concorrenza sleale, attuata facendo pressioni nei confronti di piccoli distributori affinché penalizzino i marchi dei birrifici craft.

Fondersi per controllare il mercato

Le multinazionali hanno ormai capito che il calo di vendite dei loro marchi tradizionali è irreversibile. Per correre ai ripari una soluzione è la fusione, come quella appena avvenuta tra i due giganti AB-Inbev e SabMiller. Un’operazione del genere piace agli azionisti e apparentemente è considerata sinonimo di crescita e consolidamento. Ci sono poi altri vantaggi: poter aggredire con più forza mercati con ancora ampi margini di crescita (Asia, Africa), risparmiare in termini di spese pubblicitarie (in mancanza di concorrenza), ecc. In altre parole rafforzarsi laddove i birrifici craft non possono semplicemente arrivare.

Insomma, la partita è aperta. Sono ancora convinto che tutte queste mosse non sono una diretta dichiarazione di guerra nei confronti della birra artigianale, ma solo la conseguenza di scelte economiche e di marketing. Però è pacifico che l’industria della birra, per decenni ancorata su dinamiche praticamente immutate, si trova ora a dover reagire nei confronti di un panorama profondamente cambiato e nel quale il gusto in evoluzione dei consumatori sta avendo un peso decisivo.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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6 Commenti

  1. Ciao,

    secondo me solo il punto 1 può realmente essere valido.

    il punto 2 non rappresenta una difesa ma una diversificazione quando in presenza di effettive acquisizioni, e di scelte infelici quando “ne snaturano completamente” l’anima (dei birrifici acquisiti)

    il punto 3 non credo serva a nulla, chi beve craft per moda tra un po di tempo berrà altro indipendentemente.

    il punto 4 andrebbe analizzato: per il momento rimango scettico

    il punto 5: fondersi per essere più forti di chi? se con la concorrenza la guerra non è sui prezzi (e quindi sui costi di produzione) non credo possa portare un vantaggio diretto una mossa del genere.

    Ciao

    Carlo

  2. antonio frezza

    l’analisi è svolta quasi totalmente su i mocro americani ,ma in Italia oltre le pseudo art come si evolve?

    • A parte l’invasione di pseudo artigianali, gli altri fenomeni non sono presenti o, se lo sono, ancora in forma decisamente embrionale.

  3. Trovo naturale che un concorrente (Birrifici industriali in genere) cerchi di eliminare con modi a volte anche discutibili delle realtà che di fatto gli tolgono una piccola (?) parte di mercato.
    Detto questo a mio parere, come per il discorso delle beerfirm sta praticamente tutto nelle mani dei birrifici e delle varie associazioni di categoria. Per quanto riguarda il primo e il terzo punto trovo che il mondo degli appassionati della birra artigianale sia stato spesso in grado di spiegare differenze, lati positivi e lati negativi (cosa che con altri prodotti risulta essere molto più difficile perchè c’è molto meno interesse). Si tratta di continuare e approfondire questo lavoro, svolto spesso con grande competenza e dedizione.
    Riguardo il secondo e il quarto punto siamo sempre lì: non si vuole (a mio parere giustamente) che il mercato sia in mano a poche e grandi società/birrifici industriali… che non ci si venda a loro. Non è che queste società stringono accordi e contratti alle spalle di altri. Allo stesso modo, ammesso e non concesso che sia giusto così, se le beerfirm non piacciono, basta che non si accetti di far loro le relative birre.
    Per il quinto punto non c’è molto da fare invece. Anche se, ne sono convinto, “bloccando” gli altri 4 punti, questa strategia non porterà da nessuna parte.
    A latere poi, i birrifici artigianali – questa macrocategoria informe – , non sono assolutamente esenti da critiche (nessuno lo è), anzi, ma almeno possono vantare molti pregi, alcuni dei quali sono già stati accennati durante questo piccolo contributo.
    Questa la mia personalissima opinione… un egregissimo signor nessuno 🙂

  4. Caro Andrea, tutto possibile, ma il vero punto sarà sull’approvvigionamento delle materie prime…. guardatevi i prezzi dell’ultimo raccolto di luppolo che sta portando a zero il volume sul mercato spot…

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