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Le parole di Greg Koch come chiave di lettura del caso Birra del Borgo

Da sinistra: Lorenzo Fortini, Greg Koch, Andrea Camaschella, Manuele Colonna e il sottoscritto (Foto: Mondobirra)

Come forse saprete la scorsa settimana si sono tenute le due tappe italiane del tour europeo di Stone Brewing, che il birrificio americano ha organizzato per presentare il suo nuovo polo produttivo di Berlino. Personalmente ho avuto il piacere, insieme ad Andrea Camaschella, Manuele Colonna e Lorenzo Fortini, di “condurre” a Roma la conferenza stampa che ha visto protagonista Greg Koch, il fondatore di Stone. Se seguite Cronache di Birra sapete che non mi limito mai a riportare semplicemente i comunicati trasmessi dalle varie agenzie, ma cerco in ogni situazione di trovare una chiave di lettura interessante e che possa solleticare qualche riflessione. In occasione dell’evento di giovedì scorso avevo pensato a un post positivo e ottimistico, poi l’esplosione del caso Birra del Borgo mi ha costretto a rimandarne la scrittura. Ora, dopo quanto avvenuto nel panorama italiano, le suggestioni sono ben diverse e non posso non citare alcuni passaggi sui quali invece avrei soprasseduto.

Di cosa avrei scritto se Birra del Borgo non avesse venduto le sue quote alla più grande multinazionale birraria del pianeta? Beh, fondamentalmente di quanto siamo fortunati a frequentare questo mondo. Iniziative come quella di giovedì scorso sono sempre occasioni straordinarie per alimentare la propria passione, perché permettono di entrare in contatto diretto con persone che hanno contribuito allo sviluppo del movimento internazionale. Greg Koch è sicuramente tra questi: fondò Stone Brewing nel 1996 e oggi è uno dei dieci birrifici craft più grandi degli Stati Uniti. Partì vent’anni fa con l’idea di creare prodotti di carattere, lontani dal concetto generale di birra, e di dare al luppolo un ruolo di primissimo piano: tutto ciò sapendo che il risultato non avrebbe incontrato il gusto di qualunque consumatore – anzi, all’epoca forse quasi di nessuno. In pratica può essere giustamente considerato uno dei guru del movimento americano, al pari di altri suoi colleghi pionieri.

Di fronte a una simile introduzione uno si aspetterebbe che, in un evento del genere, Koch si presenti come un vip guardando tutti dall’alto in basso. Invece ancora una volta il mondo della birra artigianale da questo punto di vista si rivela straordinario: di persona Koch è umile, cordiale e incredibilmente disponibile. Quando parla della sua creatura lo fa con trasporto e verosimile passione, come se avesse aperto il birrificio solo qualche settimana prima. A confermare questa fondamentale caratteristica del movimento craft internazionale è arrivata, nel medesimo pomeriggio, la comparsata non prevista (almeno da molti) di James Watt di Brewdog. Parliamo di un altro dei miti della birra artigianale mondiale, indipendentemente dal giudizio che potete avere nei confronti del birrificio scozzese. Anche lui è apparso semplice e disponibile: ha scambiato due chiacchiere con i presenti e poi s’è seduto in sala con il resto del pubblico, ascoltando la conferenza di Koch.

“E cosa avrebbero dovuto fare altrimenti?”, potreste chiedermi. Beh vi assicuro che in altri ambienti non è facile trovare tanta umiltà da parte di chi ha una miriade di fan e ha costruito imperi dal nulla, ma per fortuna nel mondo della birra craft è quasi sempre una costante. Quindi in altre condizioni vi avrei parlato di questo e di quanto siamo fortunati, dopo tutto, a frequentare un ambiente dove ci si può confrontare con chiunque, indipendentemente dal proprio “status”. Non è una cosa da poco, credetemi.

Invece oggi mi rimane impossibile non concentrarmi anche su un passaggio importante della conferenza di Greg Koch, che ha coinciso con la visione del secondo dei due filmati proiettati durante l’evento. Il primo – come prevedibile – è stato una sorta di tour nel nuovo impianto di Berlino; il secondo invece si è concentrato su un aspetto che il fondatore di Stone considera fondamentale: la sua indipendenza dall’industria. Eccolo di seguito.

Della netta posizione di Koch contro qualsiasi ipotesi di apertura all’industria scrissi a fine 2015, spiegando come sia Stone che Oskar Blues (altro birrificio craft americano) erano riusciti a crescere negli anni trovando soluzioni alternative a quelle di coloro che hanno ceduto alle lusinghe delle multinazionali. In entrambi i casi si sono affidati a fondi privati di investimento, che hanno contribuito allo sviluppo ottenendo alcune quote societarie. Per Koch (e non solo) c’è una bella differenza tra rivolgersi a interlocutori del genere e cedere il controllo del proprio birrificio al nemico di sempre.

Pensate che l’espressione “nemico di sempre” sia esagerata? Ok, però considerate anche che la scena americana si è sviluppata in maniera molto diversa dalla nostra e per anni (se non per decenni) il sentimento di ribellione nei confronti dell’appiattimento del gusto imposto dall’industria è stato assai diffuso. Lo potete verificare dalle stesse parole di Koch, che sono talmente appassionate da avermi spinto giovedì scorso a fargli una domanda diretta: hai mai ricevuto avances concrete da parte delle multinazionali? La sua risposta è stata affermativa, ma solo tramite amici di amici di amici.

Il modo in cui Koch ha ribattuto al mio quesito potrebbe alimentare l’opinione di chi crede che stia semplicemente sfruttando il momento, di chi pensa che di fronte a una proposta concreta cederebbe all’istante, o di chi ritiene che le sue parole siano solo marketing allo stato puro. Molti di noi conoscono le tecniche di vendita, sanno quanto la comunicazione sia importante. Siamo disillusi, nella migliore delle ipotesi crediamo che gli ideali abbiano senso finché non superano determinati confini. Perfetto, avete ragione: probabilmente le parole di Koch sono solo fuffa, destinata a essere spazzata via alla prima seria proposta d’acquisto di una multinazionale. Forse è così, ma non dimenticatevi mai che c’è un “però”.

Il “però” è rappresentato dallo stesso mondo che ho elogiato in apertura. Non voglio ridurre tutto a una visione romantica che non ha alcun legame con la realtà; il discorso che sto cercando di portare avanti è ben diverso. E il discorso è che va tutto bene, il 99% di noi cederebbe a una proposta indecente, ma in questi anni dovremmo anche aver capito che non sempre la logica del denaro è l’unica comprensibile. Non è una considerazione da fricchettone, sia chiaro. Sto solo cercando di spiegare che ci sono alternative imprenditoriali – cioè che prevedono comunque la possibilità di fare business – diverse dall’accettare di vendere tutto all’industria.

La via remunerativamente più immediata non è la sola percorribile. Altrimenti mi chiedo perché circa 20 anni fa alcuni idioti iniziarono ad aprire birrifici invece che discoteche, o perché giovani publican decisero di puntare sulla birra artigianale invece che sul solito Irish Pub del gruppo Harp. Credo che sia lo stesso motivo per il quale Koch (o chi per lui) non abbia mai venduto alle multinazionali: la passione e l’ideale spesso ti spinge a intraprendere viaggi meno lineari e più contorti. Senza per questo rinunciare a fare impresa.

Non sappiamo se le parole di Koch siano sincere o meno, l’unico dato certo è che in vent’anni non ha mai venduto all’industria. E parliamo di un birrificio che produce un milione di ettolitri l’anno, cioè 20 volte i volumi che Birra del Borgo ha in programma di raggiungere tra 5 anni. Evidentemente vendere alle multinazionali non è così indispensabile per crescere, evidentemente la strada economicamente più appetibile non è l’unica possibile. La differenza sostanziale è che il tessuto socio-economico degli Stati Uniti ti permette di raggiungere vette che in Italia possiamo solo sognare, se non – appunto – scendendo a patti con il diavolo. Ma magari c’è anche chi ha obiettivi diversi per la sua azienda.

Concludo precisando che tutta questa riflessione non è una critica alla scelta di Leonardo Di Vincenzo. La rispetto e credo che sarebbe stata la stessa per la stragrande maggioranza di noi (me compreso). Però non vorrei che la cessione di Birra del Borgo sia interpretata come l’unico destino che un imprenditore può auspicare per il suo birrificio. Esistono strade alternative, sicuramente più impervie e faticose, e non è detto che in alcuni casi non portino a un vicolo cieco. Ma cavolo, c’è la possibilità di scegliere. Cedere tutto all’industria non è e non può essere l’unica soluzione in un settore che si è generato dalla passione dei suoi protagonisti.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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10 Commenti

  1. credo che non si possa fare il confronto senza contestualizzare. Lungi da me prendere le difese di BDB, del quale non condivido affatto la scelta, ma dire che si può crescere senza farsi “dare una mano” da una multinazionale in un paese come l’Italia credo sia un po’ pretenzioso.
    Mi piace infatti pensare che la reale motivazione della vendita di del borgo sia legata davvero all’impossibilità di fare altri passi avanti in un paese dove più che imprenditori bisogna essere burocrati o, meglio ancora, malavitosi per crescere. Negli USA un bravo imprenditore trova un pubblico vasto che lo ascolta, la possibilità di accedere a fondi privati (fino a qualche anno fa anche pubblici, senza necessariamente mettere in gioco la casa, l’auto, il cane e la moglie) e soprattutto una struttura sociale (parlo soprattutto di istituzioni pubbliche) che bene o male funziona. Quindi certe similitudini non le farei

    • Giambattista ho scritto esattamente la stessa cosa: “La differenza sostanziale è che il tessuto socio-economico degli Stati Uniti ti permette di raggiungere vette che in Italia possiamo solo sognare, se non – appunto – scendendo a patti con il diavolo.”

    • ma anche in italia si può fare: negli ultimi anni sono nati un buon numero di nuovi birrifici che sono partiti con impianti già grossini (per la media italiana) che hanno attinto da capitali esterni al birraio, in molti casi da imprenditori di industrie (OK non multinazionali, ma industrie comunque) che hanno voluto diversificare, questo è tutta un’altra cosa non trarrebbero nessun vantaggio ipotetico dalla chiusura, a differenza del tuo concorrente

      • Simo per i progetti di cui parli io aspetterei di vedere come evolvono nei prossimi anni. Adesso, a magari neanche un anno dal primo investimento, qualsiasi valutazione non ha senso. Di suo c’è da dire che Birra del Borgo è sul mercato da più di 10 anni e Leonardo ha potuto valutare ogni situazione con un’esperienza (imprenditoriale e personale) di lungo raggio

  2. Leonardo Finch

    Noto, nei commenti degli appassionati e nella mia cerchia di amici bevitori, uno strano sdoppiamento di personalità che si è manifestato subito dopo la vicenda del BdB.

    C’è un prima, quando tutti eravamo compatti a recitare il mantra (giusto e sacrosanto) delle nefandezze compiute dalle multinazionali della birra sventolando la bandiera del “mai una birra industriale”.
    Però, appunto, era prima. Prima che BdB (si) vendesse.
    Adesso in molti serpeggia il dubbio, appena uno dei birrifici storici cede il passo all’industria, si cominciano a fare i distinguo: “vorrei vedere tu cosa avresti fatto!”, “eh ma tanto rimarranno indipendenti”, “era l’unico modo per tirare avanti” etc. Dubbi espressi a mezza voce che suonano più come tentativi di autoconvincersi (così come il mesto video realizzato da BdB che sembrava più una seduta psicanalitica, alla ricerca di una assoluzione che, per quanto mi riguarda, mai potranno ricevere).
    Il succo di quello che voglio dire, e mi scuso per la lunghezza, è stato ben espresso nell’articolo: “Evidentemente vendere alle multinazionali non è così indispensabile per crescere, evidentemente la strada economicamente più appetibile non è l’unica possibile”, ed è veramente così, nonostante tutto, nonostante la burocrazia, nonostante le accise e nonostante l’Italia. E’ necessario e fondamentale crederci ed è necessario e fondamentale che ci credano i birrai.
    Mettere il movimento della birra artigianale italiana nella mani delle multinazionali per favorirne la crescita è un suicidio, di questo ne sono convinto.

  3. Sono frastornato, non ho ben assimilato la cosa. Quello che mi lascia perplesso è la schizofrenia di alcuni gestori. ” non la terrò più perché è industriale ” ( delirio assoluto ) ” non la terrò più perché è in mano alle multinazionali ( e intanto vende le lattine di coca cola ) “produceva già troppo!!! ( i craft USA hanno ben altre produzioni) . Per me è un premio perché un birrificio italiano è stato ritenuto molto di valore e solo il tempo e le birre che verranno ci daranno risposte.. La realtà è che allora dovremmo chiederci
    Ma un birrificio USA come stone è giusto che produca in Germania? se lui non è qui chi produce per lui?
    Si può far di ogni! Basta essere indipendenti insomma. Quindi non si parla di qualità, quantità o metodi di produzione.
    Infine vedo anche la malizia di chi cerca di acquisire nuove quote di mercato visto che rispetto agli USA dove il rapporto è di 1 bicchiere su 5 è craft in Italia si inizia a stare stretti tante sono le realtà nate di recente. E non tutti hanno alle spalle industriali o distributori che foraggiano in attesa che si concretizzi qualcosa. Cordiali

  4. L’operazione è per me deprecabile; confesso però che una grande cusriosità di verificare come e se si rifletterà sulla politica dei prezzi di BdB.

  5. …E intanto Palm (Rodenbach e Boon) è finito tra le braccia di Bavaria…

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