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Quando la frutta sposa la birra: l’ascesa internazionale delle Grapefruit Ipa

Nel mio resoconto della scorsa settimana su Fermentazioni 2016 ho evidenziato una delle tendenze dell’edizione appena conclusa: la presenza cioè di diverse Grapefruit Ipa, tutte chiaramente made in Italy. Con questa definizione si indicano India Pale Ale (o derivate) che nella ricetta prevedono l’aggiunta di frutta, secondo una moda in ascesa proprio in questo momento e proveniente – neanche a dirlo – dagli Stati Uniti. Ma che si sta rapidamente diffondendo anche in Europa: i movimenti scandinavi la stanno assorbendo in maniera piuttosto naturale e, come verificato, ora sta cominciando a fare breccia anche tra i birrifici italiani. Sarà uno dei tanti trend destinati a durare una stagione o un fenomeno capace di stabilirsi solidamente nel futuro della birra artigianale internazionale?

L’apparizione della prima Grapefruit Ipa sul mercato americano risale al 2013, quando Ballast Point (all’epoca ancora indipendente) lanciò sul mercato la sua Grapefruit Sculpin. Era (ed è tuttora) un’evoluzione della sua celeberrima Sculpin Ipa, nella cui ricetta è prevista l’aggiunta di pompelmo. L’obiettivo fu chiaro sin da subito: esaltare al massimo il profilo agrumato della birra, che nella versione base deriva esclusivamente dal contributo del luppolo. Un astuto escamotage, che rese immediatamente popolare la Grapefruit Sculpin spingendo tanti birrifici a seguire le orme di Ballast Point.

Oggi negli Stati Uniti si contano innumerevoli “imitazioni”. L’Electric Peel di Magic Hat utilizza buccia di pompelmo e aroma di pompelmo rosa, la Grapefruit Daydreamin’ di Manayunk ricorre a scorza e succo di pompelmo, la Space Fruit di Coalition prevede scorza e succo di arancia, pompelmo, limone, lime e mandarino, la Tropical Fruit Salad di Breakside arriva persino a impiegare mango, ananas, frutto della passione, guava, mandarino e litchi. Ma anche le interpretazioni europee non mancano: la Lucky Jack Grapefruit Edition di Lervig, ad esempio, prevede l’aggiunta di buccia e succo di pompelmo rosa alla ricetta della flagship beer della casa.

Nonostante il nome di questo sottostile faccia esplicito riferimento al pompelmo, in realtà può estendersi ad altre tipologie di agrumi e talvolta a frutta completamente diversa. È il caso dell’italiana Miss Molly di Toccalmatto, brassata con frutto della passione e protagonista nel laboratorio di Fermentazioni dedicato al produttore emiliano. Proprio in quella sede chiesi a Bruno Carilli il motivo di questo ritorno di fiamma per la frutta, tale da “contaminare” anche uno stile molto distante come quello delle India Pale Ale. La sua risposta fu solo apparentemente scherzosa:

Perché in giro è sempre più complicato trovare determinati luppoli.

Quella che può sembrare una semplice boutade nasconde invece una verità profonda, causa probabilmente dell’ascesa delle Grapefruit Ipa. Il successo dell’interpretazione americana delle Ipa nasce infatti dall’uso (spesso generoso) di luppoli aromatici locali, che colpiscono il consumatore per nette note agrumate. Il tipico pompelmo del Cascade è sicuramente l’esempio più lampante, ma di varietà del genere se ne contano a bizzeffe. La crescente richiesta per questi luppoli (ormai proveniente anche dall’industria) ne ha reso l’accaparramento sempre più difficile, tanto da mandare in crisi diversi birrifici incapaci di mantenere la continuità delle loro ricette. Così ecco la soluzione: invece di utilizzare materie prime che ricordano certa frutta, utilizziamo direttamente la frutta. E magari riusciamo anche a contenere i costi di produzione.

Questa però è solo una congettura e sicuramente non l’unico motivo per comprendere l’ascesa delle Grapefruit Ipa. Una spiegazione è anche nel già citato rinnovato interesse per l’impiego di frutta nella fabbricazione della birra, usanza che non solo è propria di alcuni antichi stili birrari (Kriek, Blanche, ecc.), ma che praticamente risale alla nascita stessa della bevanda. A questo si aggiunge la continua necessità di proporre novità e la forza rinfrescante di queste Ipa “fruttate”, che si propongono quindi come ottimo antidoto al caldo estivo.

In più mi piace pensare che da parte dei birrai ci sia la voglia di percorrere nuove strade aromatiche trovando interessanti punti d’incontro tra la resa dei luppoli e quella della frutta. Così si spiega anche la nascita di Grapefruit Ipa che non prevedono agrumi, come la già citata Miss Molly di Toccalmatto o la novità di MC-77 (anch’essa presente a Fermentazioni) con pesche e albicocche. L’impiego di frutta si inserisce quindi come un parametro creativo di impatto notevole, permettendo ai produttori di confrontarsi con una sfida del tutto nuova, almeno restando nel contesto delle India Pale Ale.

Apprezzabile è anche scoprire le differenze nell’uso della frutta. Nel laboratorio di Fermentazioni sulle nuove birre italiane abbiamo cominciato con due birre simili nella filosofia di partenza e nella resa finale, ma prodotte con variazioni piuttosto importanti. La Molesta del Piccolo Birrificio Clandestino è una Grapefruit Ipa abbastanza classica, che prevede l’aggiunta di pompelmo rosa in buccia e succo; per la sua Taronja Pale Ale, invece, Alessio “Allo” Gatti di Canediguerra (con i colleghi di Guineu) ha optato per un approccio più “morbido”, utilizzando scorze di arancio essiccate. Il risultato è stato comunque eccellente in entrambi i casi.

Se volete approfondire il discorso e rimanere all’interno dei confini italiani, vi segnalo anche la Grapefruit Spaceman di Brewfist, che se non sbaglio è stata la prima Grapefruit Ipa prodotta nel nostro paese, nonché una delle novità più apprezzate in assoluto dal birrificio di Codogno. E poi inserirei anche la Sixheaven di Eastside, prodotta con cocco e definita dalla stesso produttore di Latina un’American Coconut Ipa. Segno che forse è già arrivato il momento di abbandonare l’espressione Grapefruit Ipa per una più vaga Fruit Ipa.

Questo nuovo sottostile è dunque un fenomeno da tenere d’occhio, perché potrebbe evolvere con la stessa velocità con la quale è apparso nella scena internazionale. Presenta molti aspetti positivi, ma nasconde anche diverse insidie, in primis quella di trasformare una Ipa in uno stucchevole succo di frutta. Un problema secondario è quello di creare varianti senza senso di una birra base, come sta accadendo a Ballast Point da quando è stata acquistata dall’industria. Ma a questo punto speriamo di non dover mai arrivare, almeno in Italia.

E voi che ne pensate delle Grapefruit Ipa? Vi intrigano o vi sembrano la solita moda di un ambiente alla ricerca ossessiva di continue novità?

P.S. Come mi si è fatto giustamente notare il birrificio ligure Scarampola produce da circa 10 anni una Ipa con pompelmo e luppolo Cascade, che si può a diritto considerare l’antesignana delle Grapefruit Ipa italiane, e non solo.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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8 Commenti

  1. Ciao,
    sarebbe interessante un articolo di Frank riguardo l’aspetto tecnico dell’utilizzo di succhi.
    Quando vengono inseriti, in bollitura?
    Rendono la birra meno longeva?
    Aumenta il rischio di infezione?

    Per quanto riguarda questo tipo di birre credo di non averne ancora assaggiate.
    Provvederò al più presto a metterci una toppa 🙂

    Ciao

    Carlo

    • Grazie Carlo, bella idea. Giro a Frank la proposta!

    • Ciao Carlo,

      l’argomento che proponi è interessante ma un po’ tecnico, forse sarebbe più un tema da trattare su Brewing Bad. 🙂 Purtroppo ho ben poca esperienza sulle birre alla frutta, per ora ho letto solo qualcosa qui e là. Magari tra un po’, quando avrò fatto qualche esperimento concreto.

  2. Ciao per completezza segnalo che il Birrificio San Paolo produce la Grapefrua dal maggio 2015 con aggiunta di pompelmo alla tradizionale Frua, double ipa molto apprezzata in entrambe le versioni con ricetta ispirata proprio da Ballast Point durante un viaggio a San Diego

  3. Credo siano correlati al discorso “fruit IPA” anche l’invasione delle crafty “Radler & co.” e la tendenza del mondo birrario ad intercettare i consumatori di “alcolpop”.
    Che ne pensi, Andrea?

    • Da quando Ballast Point è stata acquistata dall’industria, l’idea delle Fruit Ipa sembra proprio seguire quella tua idea.
      Mi piace pensare però che sia una prerogativa delle multinazionali e che la moda craft di queste birre si spieghi con una spontanea ricerca della sperimentazione, cosa che sarebbe molto meno triste. Secondo me la spiegazione di Bruno è tutt’altro che campata per aria: non molto confrontante, ma tant’è.

  4. Ciao Andrea,
    quando nel 2009 davo una mano in birrificio a Maurizio di Scarampola, ricordo che facevamo la sua IPA che stava per Italia Pompelm Ale.
    Non so esattamente quando sia tata prodotta per la prima volta ma parliamo di parecchi anni fa!

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