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Visintin ha torto o ragione? Il suo pezzo analizzato punto per punto

Da qualche giorno la “birra al calzino” è il nuovo tormentone della scena birraria nazionale. Il “merito” è da ascrivere al critico gastronomico Valerio Massimo Visintin, che venerdì scorso ha pubblicato su Vivimilano del Corriere della Sera un editoriale sarcastico e pungente, il cui bersaglio è la birra artigianale italiana. Un pezzo che, inevitabilmente, ha generato polemiche e opinioni contrastanti e che ha spinto diversi commentatori specializzati a esprimere il loro punto di vista (alcuni esempi li trovate qui, qui, qui e qui). Arrivo per ultimo sull’argomento, ma non potevo esimermi dal dedicargli un post per le riflessioni che l’articolo di Visintin ha comunque il pregio di suscitare. Lo farò analizzando passo passo l’articolo in questione.

– Abbiamo soltanto birre artigianali, signore.
Ci sono frasi che, udite al ristorante, mi mettono i brividi.

Dopo due righe il pezzo di Visintin trova subito la sua collocazione: il ristorante. Il contesto è fondamentale perché la riflessione dell’autore parte proprio dalla sua esperienza durante un pranzo (o una cena) accompagnato da birra artigianale. Non è un dettaglio da poco: fino a oggi i prodotti dei microbirrifici italiani hanno faticato ad affermarsi all’interno della ristorazione – sopratutto medio-alta – e il panorama in questo momento è a dir poco deprimente. In questi luoghi troviamo un poutpourri di ciò che il movimento è in grado di regalare al momento: raramente ottime produzioni, più spesso marchi di pessima qualità o che non trovano spazio in canali più selettivi. Il risultato è che non è difficile incappare in improponibili carte delle birre, con prodotti da censura che declassano totalmente l’offerta generale del luogo. Una condizione alla quale si è arrivati per diversi motivi.

– Arti..
– …gianali, signore. Piccole produzioni di ragazzi in gamba. Eccellenze innovative.
Lancio uno sguardo disperato alla mia commensale e balbetto:
– Innovative?
– Certo. La Sarkiapella del Birrificio Casalmonile, la Butagiò del Birrificio Giuvinòtt e una craft ambrata acida, parzialmente scremata al ferrocromo e metal con doppio innesto regolabile, del birrificio Andovai sito in località Tramalone.
Atterrito, scelgo a caso. So per esperienza che dovrei desistere e passare al vino. Ma aver voglia di una birra è un peccato da scontare?
Ebbene, sì. Dopo qualche minuto, infatti, il cameriere mi consegna una pozione torbida e nebbiosa, con un olezzo pungente di antica memoria.
– Com’è?
Mi domanda timidamente l’amica.
– Per amatori. Deve piacere il calzino sudato.

La narrazione prende subito la strada dell’ironia e del sarcasmo. Il racconto strappa qualche sorriso, sebbene si basi su topoi ormai talmente consolidati da aver persino spinto qualcuno a costruirci intorno spettacoli comici a teatro. Ma al netto dell’umorismo, cosa rimane al lettore che incappa in queste righe? L’idea che ordinare birra in un ristorante può essere un’esperienza terribile. Purtroppo è così e la speranza è che l’autore ne spieghi le cause.

Non è la prima volta che capita. Ne seguiranno altre. L’esercito delle birre artigianali italiane ha colonizzato il ceto medio-alto della nostra ristorazione, pizzerie gourmet comprese. Non c’è scampo. E non c’è cognizione di causa. Né da parte dei ristoratori, che tengono in lista qualche birra per onor di firma, lasciandosi fanciullescamente trascinare dal flusso delle mode. Né da parte del consumatore medio, alle prese, tra l’altro, con una infiorescenza iperbolica di etichette nuove nuovissime appena nate e già in via d’estinzione.

Questa forse è la parte più lucida dell’articolo di Visintin. Se rimaniamo confinati nell’ambito della ristorazione di livello medio-alto, c’è davvero poco da obiettare. Non parlerei di vera e propria colonizzazione – i ristoranti con birra artigianale sono ancora la minoranza – ma è vero che spesso la situazione è disarmante. Il problema spesso è a monte e fa bene Visintin ha additare le responsabilità dei ristoratori, che pigramente accettano qualsiasi cosa venga proposta loro dai distributori pur di poter seguire la moda del momento. Non c’è competenza, né la voglia di approfondire le proprie conoscenze. Nessun ristorante si permetterebbe di prendere il primo vino, probabilmente di pessima qualità, proposto con leggerezza da un distributore qualsiasi. La birra invece è figlia di un dio minore, è la bevanda sfigata: l’importante è inserire una o due etichette in menu, magari senza neanche assaggiarle, purché siano artigianali. Che poi già trovarsi di fronte a un prodotto realmente artigianale è un miracolo: grazie all’incompetenza dei ristoratori è più facile imbattersi nella solita crafty agli N luppoli o nella linea “Grand Cru” del marchio industriale ben presente nel frigo del bar limitrofo.

Quello che qui Visintin mette in risalto è il grave problema attuale della birra artigianale in Italia: il moltiplicarsi di marchi ed etichette, unito all’idea comune – di origine non necessariamente brassicola – che artigianale significhi buono a prescindere. Un limite che si amplifica all’interno dei ristoranti, che sono un po’ terra di nessuno: non c’è cultura del prodotto, né la voglia di offrire ai consumatori un’esperienza birraria davvero valida. A proporre birre sono distributori specializzati in segmenti completamente diversi, ad acquistarle da loro ristoratori di una superficialità totale. E a non pretendere un’inversione di rotta sono per primi proprio quei commentatori enogastronomici che in quasi 20 anni non hanno voluto studiare la birra a fondo, trattandola con lo stesso disprezzo e spavalderia tipica di tanti sommelier.

Quindi, benché consideri Visintin parte del problema – del quale, sia ben chiaro, considero responsabili anche noi dell’ambiente – fin qui il suo articolo è tutto sommato accettabile. I limiti emergono successivamente, quando l’autore parte dall’esperienza appena narrata per uscire dai confini della ristorazione e tracciare un bilancio della birra artigianale italiana tout court. E qui cominciano a fioccare i luoghi comuni e le inesattezze, il tutto a detrimento della scena birraria nazionale. Andiamo con ordine…

Diciamoci a voce bassa che la supremazia pregiudiziale delle birre artigianali è un’utopia. Come quando si narrava la leggenda dei vini del contadino.
In questo caso, però, non ci si può nemmeno aggrappare alla retorica della cultura agreste. Perché, salvo casi rari, i microbirrifici italiani non hanno alcun radicamento territoriale. Gli ingredienti sono confezionati in altri lidi. Lo stile al quale si rifanno esplicitamente i birrai de noantri ha natali in altre nazioni. Si sfornano birre alla belga, all’inglese, alla tedesca e così via, secondo codici internazionali che non contemplano alcuna tradizione italiana. Anche quando ci si imbatte in birre di discreta qualità, quindi, il pensiero corre, fatalmente, ai prodotti artigianali di riferimento. Se devo bermi una blond o una tripel, per capirci, tanto vale scegliere un artigiano belga. Berreste volentieri un vino in “barolo style” prodotto in Germania o in Danimarca?

Tutti hanno sottolineato l’incongruenza di questo passaggio, che forza il concetto di terroir del vino pur di incastrarlo nel mondo della birra. Un esercizio debole e senza alcun senso, poiché parliamo di contesti completamente diversi. Da secoli gli stili birrari si influenzano a vicenda, oltrepassando i confini delle singole culture brassicole. L’esempio più lampante è quello delle IPA: se non fossero state reinterpretate dai birrifici americani, probabilmente sarebbero scomparse. E oggi non possiamo dire che le (American) IPA provenienti da oltreoceano siano scarse solo perché non prodotte nella nazione di origine. Perché invece questo dovrebbe valere per i birrifici italiani? Ma chi l’ha detto che una Blond o una Tripel belga a caso sia migliore di un’analoga produzione italiana? Ma Visintin ha presente la scena birraria del Belgio? Una scena costellata sì da tante perle brassicole, ma anche da una miriade di prodotti scadenti, che infatti in Italia neanche arrivano. Se siete mai stati allo Zythos Bier Festival, ad esempio, converrete con me.

E poi? Può darsi che persino la miglior produzione industriale, come dicono, svilisca l’offerta, standardizzandone i sapori. Ma, rispetto alle grandi marche, la maggioranza delle nostre realtà artigianali manca della forza tecnologica ed economica necessaria per controllare analiticamente la qualità delle materie prime e persino per garantirne la conservazione ideale. Passaggi che nelle dimensioni industriali sono, invece, la routine. Inoltre, nei microbirrifici latita spesso l’esperienza necessaria per lavorare un prodotto sensibile e umorale come la birra. Ci si improvvisa mastri birrai con la facilità con la quale ci si inventa giornalisti gastronomici. Non so se sia più numerosa, a questo punto, la schiera delle fuffblogger o quella dei fuffbirrai.

Sottolineare i limiti dei birrifici artigianali paragonandoli solo ad alcuni aspetti dell’industria non mi sembra molto corretto. In questo passaggio troviamo alcune verità, altrettante inesattezze e molte cose taciute. Partiamo dalla tecnologia. È vero, i microbirrifici latitano da questo punto di vista. Parliamo di controlli prima, durante e dopo il processo produttivo, di protocolli che servirebbero per garantire la qualità finale e che tantissimi birrai semplicemente ignorano. Spesso l’essere artigianali viene confuso col concetto di pressappochismo: da questo punto di vista bisogna ammettere che la schiera dei fuffbirrai è sempre più numerosa. Ma Visintin si concentra su due aspetti: qualità delle materie prime e conservazione. Sul primo prende un grosso granchio, poiché se c’è una certezza nella vita è che i microbirrifici in media utilizzano ingredienti di qualità decisamente superiore all’industria. Per quanto riguarda la conservazione, invece, è vero che i birrifici artigianali lasciano spesso a desiderare in questo campo – molti se ne preoccupano solo finché la birra non lascia il magazzino – ma contrapporre tale limite alle scelte dell’industria è errato: sono proprio le soluzioni tecnologiche scelte dalle multinazionali per allungare la conservazione dei suoi prodotti a creare una delle più importanti differenze tra birra artigianale e industriale.

Per tutte queste ragioni, trovare un prodotto artigianale italiano buono, privo di difetti, stabile, equilibrato, digeribile, a un prezzo congruo è un terno al Lotto. Esiste qualche sana eccezione. Ma è percentualmente minoritaria. Anche a causa dell’estremizzazione culturale maturata nel mondo introverso dei birricoli, per i quali non c’è gusto se non si supera un nuovo limite.

La conclusione del ragionamento di Visintin ha un fondo di verità, ma come abbiamo visto parte da presupposti fallaci. La conseguenza è che il consumatore occasionale, il quale probabilmente ha sperimentato qualcosa di molto simile in un ristorante, pensa che la birra artigianale italiana sia tutta da buttare. Un fenomeno esclusivamente modaiolo, privo di dignità culturale, portato avanti da fricchettoni senza il minimo senso imprenditoriale. E oltre alle cause già elencate, Visintin ci aggiunge l’autoreferenzialità della comunità degli appassionati, i quali riescono ad appassionarsi solo alla prossima strampalata novità birraria.

Sull’autoreferenzialità Visintin colpisce nel segno: in questi 20 anni pochissimi di noi sono riusciti a guardare l’ambiente con occhi esterni ed obiettivi, pensando che la visione dell’appassionato sia quella del consumatore occasionale. Chi ci ha provato è stato tacciato di essere eretico e infedele, col risultato che ce la siamo sempre cantata e suonata da soli, incapaci di afferrare ciò che veramente stava arrivando alla massa. Da questo lato ci siamo mostrati incapaci di uscire dai confini del fanatismo, dall’altro però nessun commentatore gastronomico ha provato a ingoiare la sua spavalderia e approfondire seriamente l’argomento birra, andandolo a studiare nei suoi veri luoghi di appartenenza: le birrerie, i pub, i birrifici e – perché no – i festival a tema.

I birricoli? Certo. Una categoria umana che assorbe ogni piega di questa deriva artigianale.
Birricoli, uomini delle taverne. Sorrisi larghi nel fragor dei brindisi. Rustici e rupestri, indossano scarpe ginniche e maniche di felpa. Ma cambiano muta con la bella stagione, sfoggiando camicie a quadrotti da taglialegna. Gongolano nelle foto di gruppo. Calvi o scarmigliati, adolescenti cronici dalla barba sfatta. Nessuno sa, in loro, dove finisca l’essere umano e dove cominci il boccale. Alcuni producono, altri giudicano. Tutti s’azzuffano al penultimo sangue nei forum di settore, ma si riconoscono nel vangelo secondo Kuaska, profeta dal nome misterico, narratore di birre e, più che altro, cantastorie di se stesso. Birricoli, tipi tosti. Manichei, pugnaci, vocati alla rivoluzione. Clava e maltello. Lotta di classe, guerra all’industria. E pazienza, se in cameretta, di fianco al saio trappista, brilla in cornice ambrata il santino di Teo Musso, Farinetti del luppolo, imprenditore operaio dal ricciolo malandrino.

La parte finale del precedente passaggio fa da trampolino per la successiva caricatura dell’appassionato di birra artigianale. In questa parte, che torna a mostrare discreti lampi di genio e che dimostra una certa conoscenza dell’ambiente da parte di Visintin, vi entra un po’ tutto: Kuaska (con i suoi pro e i suoi contro), l’immancabile Teo Musso, i forum di settore, lo stereotipo ormai inflazionato del beer geek hipster. C’è chi non ha gradito questa parte, io invece la trovo estremamente godibile: nel modo in cui l’autore racconta i “birricoli” scorgo una punta di invidia nei confronti di un mondo più naturale e meno ingessato di quello enogastronomico. Sull’utilità e il senso di questo passaggio, invece, nutro forti dubbi.

Gente impagabile, perduta in una magnifica ossessione. Li osservo con invidia per le certezze incrollabili che si portano appresso. E so bene che la colpa non è loro se i ristoranti sono imbottiti di birre scadenti, presentate come fossero prodigi dell’umano ingegno. Anzi, non ditegli di questo mio sfogo. Lasciamoli ai loro giochi. Evitiamo sommosse popolari.
In confidenza, però, possiamo parlarne; dire basta a questa coercizione artigianale.

Oppure, no. Possiamo seguitare a far finta di niente e unirci al gruppo, per sfruttare l’onda e iscriverci al ramo “birre al calzino”. Basterà un’oretta di palestra?

Invidia che Visintin conferma nella chiusura del suo pezzo e nella quale leggo più sincerità che sarcasmo. Le ultime righe invece vogliono essere un monito, affinché si eviti che la birra artigianale italiana evolva come ha fatto fino a oggi, poiché l’alternativa sarebbe ignorarla per sempre. Il punto è che dopo i presupposti superficiali e pieni di scherno dello stesso Visintin, quale scelta volete che compia il lettore?

In definitiva il pezzo di Visintin è una grande occasione sprecata. Il suo peccato originale è di estendere l’esperienza nella ristorazione a tutto il movimento della birra artigianale, peraltro muovendosi tra luoghi comuni e inesattezze. Ricapitolando, quali sono i concetti espressi correttamente? Che la birra artigianale nei ristoranti è un fenomeno dai risvolti inquietanti, che la moda ha provocato una moltiplicazione di progetti scadenti, che gli appassionati formano un mondo chiuso in sé stesso. Perfetto, niente di nuovo mi verrebbe da aggiungere. Nel nostro ambiente lo diciamo da anni, ma tanti ora salutano questo articolo come la verità rivelata – e sono gli stessi che magari storcono il naso se vedono una birra artigianale fuori dai soliti canali di vendita.

Mi direte che però non devo commettere lo stesso errore di autoreferenzialità, che se certi concetti sono consolidati nell’ambiente non è detto che abbiano raggiunto anche i consumatori occasionali. D’accordo, è vero. Ma cosa offre il pezzo di Visintin a loro e a tutto il movimento? Non vengono spiegate le cause del fenomeno, né offerte delle soluzioni. Nella migliore delle ipotesi qualche birrificio italiano se ne uscirà con un birra con un paio di calzini in etichetta, che sarà capita solo dalla stretta cerchia degli appassionati. Agli altri, ai bevitori casuali, rimarrà solo la conferma che quella pessima esperienza avuta l’ultima volta al ristorante è colpa della birra artigianale in quanto tale, non dell’ignoranza del ristoratore. O magari proprio della superficialità dei critici gastronomici.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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18 Commenti

  1. “Se devo bermi una blond o una tripel, per capirci, tanto vale scegliere un artigiano belga. Berreste volentieri un vino in “barolo style” prodotto in Germania o in Danimarca?”
    Probabilmente la cazzata più grossa scritta da Visintin.

  2. Ed il bello è che ha perfettamente ragione, per non essere d’accordo bisogna entusiarmarsi per l’ultima uscita della birra al muco, fatta su ricetta degli antichi Ittiti e non rendersi conto di cosa sia diventato questo settore.

  3. Ciao Andrea,
    l’articolo mi ha fatto tornare in mente esattamente quello che avevo commentato qui: http://www.cronachedibirra.it/altro/16952/quelle-serate-di-degustazione-che-hanno-segnato-una-carriera-birraria/

    Inutile storcere il naso… se quello della birra di qualità rimane un “movimento” senza riuscire a prendere forma in qualcosa di concreto ed autorevole agli occhi del grande pubblico e della critica (come si può considerare l’AIS nel mondo del vino) articoli come questo ne sono le conseguenze.

    Ciao

    Carlo

    • Sicuramente… ma vogliamo parlare di come, ad esempio, AIS o altri soggetti del mondo del vino hanno provato a trattare la birra in questi anni?

      • Neanche cosí male… l’idea del sommelier AIS “ingessato” e col naso perennemente arricciato è uno stereotipo ormai un po’ inadeguato: attualmente nei corsi di formazione e anche in certi numeri della rivista ufficiale si cerca timidamente di dare una minima visione (per quanto, naturalmente, introduttiva) della varietá e ricchezza del mondo delle birre. Resta chiaro però che non è da parte loro che ci si debba aspettare una lotta incallita per la valorizzazione della birra, e non credo abbia senso recriminare al mondo del vino grandi colpe… Nel senso che, alla fine, è abbastanza normale che in cima alla lista delle loro prioritá ci sia altro (anche il mondo enologico ha le sua “grandi questioni” aperte).

  4. Ciao Andrea,
    mi piacerebbe ma non sono così addentrato a tali argomenti (come è giusto che sia);
    quello che mi viene da pensare è che se lo hanno fatto in modo improprio e superficiale è perchè c’era e c’è (ancora) un vuoto che ad oggi non è stato colmato.
    Ciao
    Carlo

  5. Mi viene da aggiungere:
    non so a che tipo di ristorazione faccia riferimento l’articolo, si parla di medio-alto livello ma in che senso?
    Lo chiedo perchè se vogliamo fare un paragone sempre con il vino… sai quanti locali nell’ambiente della ristorazione propongono elenchi (nel menu generale) o addirittura carte (a parte) dei vini senza neanche scritto la casa di produzione?
    Esempio “Chianti”, “Aglianico”… prendi una bottiglia ed è più o meno quella che prendi al discount.
    Questo è un problema per tutto il mondo del vino?
    Non credo… chi ne mastica un minimo (ma un minimo) capisce già dal menù che chi lo propone non ne sa nulla, ordina una bottiglia senza grosse pretese e buonanotte; per il resto del “grande pubblico” che succede?
    Non berranno più vino perchè ogni volta gli propongono bottiglie che non sono un gran che?
    Non penso… la differenza è che chi pensa “mi paicerebbe saperne di più, capirci qualcosa” si informa e scopre che esiste un’associazione di lunga data (ed altre più recenti) autorevole dove poterlo fare.

    Se si pensa che per la birra questo non servirebbe o non sarebbe possibile, va bene…

    Ma allora non si storca il naso davanti ad articoli del genere… macchissenefrega!
    Il pub sotto casa è ancora aperto? Ha le spine cariche di buona birra? Scendiamo a bere e vaffanculo! :.)

    Carlo

    • Il punto è che la tua chiosa, che condivido, è quella di noi appassionati. Il vino è già radicato: se trovo un ristorante con una carta risibile, penso che il problema sia del ristoratore, non del vino in quanto tale. La birra è percepita ancora come una moda e il processo mentale che si innesta nel consumatore occasionale è ben diverso.

  6. Al di là del povero Kuaska, chissà perchè additato ad autoreferenziale sedicente guru, poco o nulla si è fatto per allargare la conoscenza in chi la birra la deve vendere. E non basta la serata caciotte e birra per fare radicare una carta delle birre: serve una mobilitazione di categoria che continua colpevolmente a mancare. ma visti i numeri delle crafty e delle belgian industriali proposte come artigianali (Leffe su tutte) mi sa che la battaglia è persa

  7. “… Ci si improvvisa mastri birrai con la facilità con la quale ci si inventa giornalisti gastronomici. Non so se sia più numerosa, a questo punto, la schiera delle fuffblogger o quella dei fuffbirrai… ”

    Sono d’accordo; da homebrewer e giornalista, non posso che notare quanti “addetti ai lavori” scrivano, non approfondendo sufficientemente le proprie conoscenze in merito all’argomento trattato.

    Visintin: autogol di tacco direi!

  8. Ci sta che tra gli appassionati di birra si guardi con occhio più placido chi è appassionato di vino. sono due cose diverse e non confrontabili, l’articolo è segnato anch’esso da evidenti pregiudizi, che fanno male a tutti e sempre. Anche agli appassionati di birra che guardano con preconcetti gli amanti del vino. E sbagliano

  9. Mi sono fermato qui:

    >Diciamoci a voce bassa che la supremazia pregiudiziale delle birre artigianali è un’utopia. Come quando si
    >narrava la leggenda dei vini del contadino.

    Poi hanno iniziato a lacrimarmi di sangue gli occhi.

    Sinceramente posso capire che parte del settore si sia fin tropo “infighettato” e se non fai la tal birra al gusto esotico e particolare non sei nessuno, ma a parte quello non esistono solo le birre ultra-particolari.
    C’è tutto un mondo dietro e visintin semplicemente non lo conosce o volontariamente tira acqua ad altri mulini.

    Poi sulla questione degli ingredienti a questo punto tanto vale andare a mangiare patatine al mac donald dato che ingredienti e procedimenti non fanno la differenza.

  10. ps. il link al blog di visintin avrei preferito vederlo con il servizio https://donotlink.it/

    😉

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