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La minaccia delle multinazionali alla birra craft, spiegata da chi ha lavorato nell’industria

Perché l’industria sta rafforzando il suo controllo nel mondo della birra artigianale? Perché le multinazionali sembrano interessate a confondere le acque? Qual è il fine ultimo delle loro strategie commerciali? Queste e altre domande sono ormai all’ordine del giorno e comuni a un numero sempre maggiore di consumatori. L’invasione delle industria nel segmento della birra craft sta creando molta confusione nell’ambiente e non è sempre semplice capire ciò che sta succedendo. Come appassionati e operatori del settore è però nostro compito informarci e fare chiarezza, evitando da un lato di comportarci come se non stesse accadendo nulla, dall’altro di lasciarci andare a semplificazioni o conclusioni infondate. A tal proposito negli scorsi giorni Brewing Bad ha condiviso un articolo molto interessante, che affronta il problema in maniera “scientifica”. È molto lungo, perciò ho pensato di riassumerlo in questa sede riportando i passaggi principali. Spero che sia utile a tutti.

L’autore del pezzo, apparso su Good Beer Hunting, è Chris Herron, fondatore del microbirrificio Creature Comforts. Nel suo curriculum ha però una lunga militanza nell’industria del beverage: ha lavorato in totale dodici anni in totale per Miller (3) e Diageo (9), ricoprendo ruoli manageriali nei reparti vendite e finanze. Si trova dunque nella privilegiata posizione di conoscere entrambe le realtà, quella della birra craft e ancor meglio quella dell’industria. La sua analisi perciò è molto preziosa e spiega perché – al di là di tutte le considerazioni soggettive – quando un microbirrificio viene acquisito da una multinazionale non è mai una bella notizia per l’ambiente.

Herron parte definendo tre concetti, fondamentali per capire alcune dinamiche:

  • Valore del marchio (brand equity): è una risorsa immateriale d’impresa che si fonda sulla conoscenza di una marca da parte dei consumatori. Esiste una correlazione tra questo parametro e il prezzo al quale può essere venduto il rispettivo bene.
  • Valore di avviamento (goodwill): è un valore intangibile di un’impresa che riflette la sua posizione sul mercato, la sua reputazione presso i consumatori, la rete di clienti e fornitori, ecc. È quel parametro che giustifica il prezzo superiore al “valore di libro” di un’azienda (cioè dei suoi assets materiali) che viene pagato quando un’altra azienda la acquisisce. Per capirci se un microbirrificio viene acquisito per 20 milioni di euro e il valore dei suoi assets materiali (impianto, locali, ecc.) è di 5 milioni di euro, significa che l’acquirente sta sborsando 15 milioni per il valore di avviamento, che chiaramente sarà messo a bilancio come tale.
  • Onere di svalutazione: se il valore di un marchio si svaluta nel tempo, chiaramente ci sono ripercussioni pesanti sul bilancio di un’azienda. Se ad esempio non riesco a confermare il valore di avviamento messo a bilancio, incorrerò in una perdita che influenzerà il valore stesso dell’impresa. È una situazione che le multinazionali cercano di evitare in tutti i modi.

Il marchio Budweiser, di proprietà di AB Inbev, occupa le venticinquesima posizione tra quelli più ricchi del mondo, ma sta perdendo valore di anno in anno. Uno dei motivi risiede nel posizionamento di alcuni dei suoi prodotti, come Bud Light. Bud Light venne lanciata nel 1982 nella categoria di vendita definita “premium” perché posizionata all’estremo dello spettro di prezzo per il mercato. Esiste una correlazione tra prezzo praticato e percezione dei consumatori: di base se un prodotto costa più degli altri, è considerato di qualità superiore. E il suo valore di marchio è elevato.

Con l’ascesa della birra artigianali un nuovo attore entrò nel mercato, rivoluzionando lo status quo in vigore fino a quel momento. Come avrete capito i prodotti dei microbirrifici occuparono una posizione superiore a quello delle birre premium, alimentando nei consumatori un concetto diverso di birra di qualità. Il prezzo di vendita della Bud Light e di altre birre premium si allontanò dall’estremo dello spettro di prezzo (a quel punto occupato dalle birre craft) e la percezione dei bevitori cambiò: Bud Light e le sue concorrenti erano ora birre economiche, se non addirittura da discount. Attenzione, perché il discorso non coinvolge le caratteristiche organolettiche del prodotto, ma solo il suo prezzo di vendita.

Questa traslazione comportò grosse perdite in termini di valore del marchio. In situazioni del genere non basta aumentare il prezzo del proprio prodotto per riacquistare considerazione, perché i consumatori sono molto attenti a variazioni del genere e si corre il serio rischio di incappare in una sanguinosa contrazione dei volumi di vendita. D’altro canto un’azienda non può neanche vedere ridursi il valore dei propri marchi senza cercare delle soluzioni. Ma è chiaro che simili situazioni provocano uno stallo completo, dal quale è possibile uscire solo adottando strategie alternative.

E la strategia alternativa adottata da AB Inbev e da altre multinazionali è stata di acquisire birrifici craft in giro per il mondo. Prima di procedere è importante capire che in questi casi l’obiettivo ultimo dell’industria è difendere i propri marchi principali, perché sono quelli più diffusi in assoluto. Controllare i marchi craft comporta allora diversi vantaggi, solo alcuni dei quali sono evidenti a una prima analisi. Nello specifico permette all’industria di appropriarsi di parte del fenomeno craft, di rallentarne la crescita e di riacquistare il valore dei marchi come Bud Light e analoghi. L’industria ha interesse che i suoi marchi crescano, con che cresca il movimento della birra artigianale. Quest’ultimo, anzi, è un nemico: la causa principale dei problemi delle birre premium.

Le multinazionali possono in un colpo solo:

  • Bilanciare la perdita di valore del marchio craft appena acquisito riducendo il prezzo delle sue birre più importanti. Questo obbliga altri birrifici artigianali a confrontarsi con prezzi più competitivi e in ultima analisi riavvicina il prezzo delle birre premium a quelle craft.
  • Aumentare il prezzo di alcuni prodotti di nicchia o rari, destinati a un pubblico decisamente ristretto, posizionandoli a un estremo assai remoto e allontanandoli dalle birre premium.
  • Rallentare l’ascesa del movimento craft, rendendo più difficile il reperimento di determinate materie prime (soprattutto luppolo) e la distribuzione in canali in cui l’industria può contare su accordi vantaggiosi (e non sempre leciti).

La chiave è dunque nel ridurre il prezzo della birra craft affinché la differenza con i prodotti premium non sia più così evidente. A quel punto i consumatori sarebbero molto meno sensibili a una variazione di costo e AB Inbev potrebbe alzare il prezzo della sua Bud Light senza il rischio gravi ripercussioni, generando valore aggiuntivo. Le multinazionali non acquistano microbirrifici con l’obiettivo di farli crescere. O almeno questo non è l’obiettivo primario e si realizza fintanto che è strumentale a una rivalorizzazione dei marchi premium. Ecco un estratto dell’articolo che spiega alla perfezione il concetto:

Mentre tutti pensano che AB Inbev sia realmente interessata a entrare nel mondo craft e a sviluppare i marchi acquisiti (che è, nelle migliori delle ipotesi, un obiettivo secondario), dico che forse acquisire microbirrifici è solo uno strumento per svalutare la categoria craft e aumentare il valore del marchio delle loro birre principali.

E una delle frasi di chiusura del pezzo può essere letta come un monito per tutti i birrifici artigianali:

Per questa ragione, da una prospettiva imprenditoriale, è una pessima notizia quando un birrificio indipendente vende ad AB Inbev. Per noi che operiamo nell’ambiente, significa perdere un partner a favore di un concorrente. E sinceramente non credo ai ripetitivi comunicati stampa che dicono che l’accordo è la migliore opzione per l’azienda e per i suoi dipendenti. […]

Avendo lavorato per delle multinazionali, sono convinto che la loro attenzione rimane focalizzata su come proteggere i propri marchi principali. E rimango convinto che possiamo costruire il migliore futuro per il nostro birrificio e per i nostri lavoratori restando indipendenti dall’industria. Comunque dobbiamo cominciare a pensare in maniera diversa, diventare più tattici ed essere consapevoli delle nostre decisioni e delle nostre azioni.

Ammetto che non capisco l’analisi di Herron fino in fondo, ma trovo importante che arrivi da parte di qualcuno che ha lavorato per tanti anni dall’altra parte della barricata. In effetti i più preoccupati per lo stato delle cose sono spesso coloro che in precedenza hanno avuto a che fare con le multinazionali, perché sanno come questi giganti ragionano. Bisognerebbe cominciare a prenderne atto e a difendere ciò che abbiamo costruito in tanti anni, altrimenti il rischio è di farsi sballottare dalla corrente. E la corrente è cambiata, amici miei: non ci sono più facili onde da cavalcare. Se volete continuare a guidare un birrificio è il momento di cominciate a ragionare come imprenditori e non solo come birrai.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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2 Commenti

  1. Emanuele Zuccon

    Grazie infinite per la sintesi del pezzo pubblicato da Francesco, non sempre si ha il tempo di leggere e tradurre un articolo del genere.
    Lo trovo veramente un ragionamento lucido ed è, parlo per me, evidente il fatto che viene da chi ha lavorato dall’altra parte.
    Offre alcuni spunti sulla quale io non ci sarei mai arrivato, come abbassare il prezzo per mettere in risalto i propri prodotti, se ci penso bene fino a qualche anno fà, le birre belghe che normalmente non hanno un prezzo così elevato rispetto alle industriali, non danno l’idea di essere qualcosa di artigianale, vedi per esempio i birrifici Trappisti.
    Invece vorrei capire, se ne hai voglia di esporlo, dove questo ragionamento non fila secondo te, così magari posso allargare il mio punto di vista.

    Grazie ancora.
    Emanuele

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