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Per una rivalutazione dei beershop e del loro ruolo nella scena birraria italiana

Come forse avrete letto, sabato scorso sono stato in provincia di Ascoli Piceno per l’inaugurazione del brewpub di Babylon, giovane birrificio partito decisamente col piede giusto. Ho avuto il piacere di condurre una degustazione di tre birre della casa, che d’accordo con Adriano Giulioni, uno dei soci, abbiamo impostato ripercorrendo la storia del movimento birrario italiano. Quando si compie un excursus del genere secondo me è opportuno individuare un momento, successivo a una lunga fase “pionieristica”, che coincide con l’ascesa di Roma come punto di riferimento per l’ambiente. Lo sviluppo birrario della Capitale richiese diverso tempo, ma fu accelerato da due fenomeni quasi simultanei: la moltiplicazione dei beershop e la popolarità delle birre extra luppolate, capaci entrambi di attirare un pubblico molto giovane. Noi bevitori con qualche anno in più sulle spalle abbiamo sempre guardato a quel pubblico, e alle mode che lo hanno caratterizzato, con un misto di supponenza e diffidenza, solo in parte giustificate. Anzi – ammettiamolo pure – probabilmente è il caso di rivalutare totalmente quel fenomeno.

Oggi a Roma nuovi beershop aprono con una frequenza normale, ma fino a qualche anno fa il ritmo era davvero impressionante. Il trend cominciò verso la fine del precedente decennio, quando a Roma c’era un solo negozio specializzato: parliamo ovviamente dell’Off License di John Nolan, tuttora operativo in zona San Giovanni. Dopo qualche tempo iniziarono timidamente ad affacciarsi altri beershop: Gradi Plato (con un paio di punti vendita), Birra + (Pigneto), Fermento (Africano), Hic! (San Lorenzo) e non solo. Attività del genere erano sempre state considerate alla stregua di un’enoteca, ma curiosamente nella Capitale acquisirono un’impostazione diversa. Come animali che si adattano a un nuovo habitat, i beershop romani divennero punti d’incontro per giovani bevitori, che affollavano le strade limitrofe consumando le birre appena acquistate – talvolta anche a “canna”.

Dal 2010 la frequenza di nuove aperture assunse caratteri clamorosi. Nel 2011 qui su Cronache di Birra fui costretto a dividere addirittura in tre parti una panoramica sui nuovi beershop capitolini, pur di restare aggiornato su quanto stava accadendo in città. Ma ben presto persi qualsiasi velleità del genere: le novità si avvicendavano a un ritmo così intenso che era impossibile seguirle con precisione. Marchi come Gradi Plato, Fermento e lo stesso Off License si diffusero in tutta Roma, mentre nuovi nomi comparivano ogni giorno praticamente in ogni quartiere. Qualche anno prima la Capitale poteva vantare la miseria di un solo beershop, ora se ne contavano a decine ovunque. E la clientela era sempre la stessa, per la maggior parte costituita da valanghe di ventenni per lo più interessati a birre molto amare e luppolate.

Non nego che io, come tanti altri bevitori della vecchia guardia, ho sempre guardato a quel fenomeno con un certo grado di sdegno. Per me che avevo imparato a conoscere la birra all’interno dei pub, attendendo minuti per una corretta spillatura e potendomi confrontare con tanti stili classici, quel modo di approcciare la birra artigianale era incomprensibile. Come si può imparare qualcosa tracannando bottiglie su un marciapiede insieme ai propri amici ventenni? Come si possono apprendere i fondamenti della cultura birraria internazionale se si ricercano solo IPA o sue derivazioni? Per me quella era la “AiPiEi generation”, una massa di “pischelletti” imberbi che avrebbe contribuito a corrompere lo splendido mondo della birra artigianale.

Sebbene alcune considerazioni fossero anche giuste, è chiaro che una visione del genere è quella che tipicamente hanno le generazioni più vecchie nei confronti di quelle più giovani. Sì insomma, è l’espressione di un anziano bevitore brontolone, cioè il sottoscritto. È una semplificazione esagerata, né più né meno. Perché a distanza di anni oggi probabilmente alcuni di quei consumatori hanno perso l’occasione di allargare i propri orizzonti brassicoli, ma non è stato così per tutti. Per altri giovani clienti quei beershop sono stati una palestra birraria fondamentale, come lo furono per me i primi pub romani che lavoravano con prodotti artigianali. Da quella generazione oggi sono usciti tanti consumatori appassionati e competenti, che oggi sono persino dei birrai acclamati in tutta Italia.

Rivalutare la stagione dei beershop romani è quindi importante, ma non solo per pure considerazioni soggettive. Come riporta la recensione pubblicata da Brewing Bad del libro Man walks into a pub di Pete Brown, negli anni ’70 le nuove generazioni furono quelle su cui puntò l’industria per diffondere i suoi prodotti in Gran Bretagna. In fatto di birra il Regno Unito è sempre stato un paese molto conservatore e nonostante oggi sia difficile crederlo, per tanto tempo le Lager faticarono a fare breccia nel cuore dei consumatori. Ci riuscirono solo negli anni ’70, quando capirono che per emergere dovevano rivolgersi a un pubblico più giovane, che funse da cavallo di Troia per l’intero mercato. A Roma è invece accaduto l’esatto contrario: il fenomeno dei beershop ha permesso che bevitori ventenni si appassionassero – seppur a modo loro – alla birra artigianale, realizzando una sorta di contrappasso con quanto accaduto nel Regno Unito quarant’anni prima.

Come spiegato, oggi a Roma la situazione si è tranquillizzata: diversi beershop hanno chiuso e le nuove aperture sono meno frequenti rispetto al passato. Forse la loro età dell’oro si è in parte conclusa, ma il fermento e l’entusiasmo che hanno alimentato in questi anni resterà come un marchio indelebile in tanti bevitori di quel periodo. Hanno senza dubbio rappresentato un fenomeno con potenzialità enormi, che forse in pochi hanno davvero compreso. Quell’impostazione alla romana, infatti, difficilmente si è sviluppata in altre realtà italiane, ma quando ci è riuscita ha portato notevoli vantaggi in termini di diffusione del prodotto. Non è un caso che a mio parere sia proprio un beershop, in questo momento, a contribuire alla crescita della cultura birraria di Milano: parlo ovviamente del Bere Buona Birra, che dimostra come luoghi del genere possono essere delle risorse di valore inestimabile, pur mantenendo un approccio “giovane”.

Qualsiasi approccio che intercetti un pubblico nuovo è un buon fenomeno – ammesso che, in un modo o nell’altro, faccia cultura birraria. Di questo dobbiamo prenderne atto, anche se le dinamiche che attiva sono lontane dal nostro modo di intendere la birra. Birra che, mettiamocelo bene in testa, esisteva da prima che cominciassimo a bere. Un discorso che vale per tutti, nessuno escluso.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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Un commento

  1. Allora posso ritenermi fortunato pur abitando in provincia (Biella), il proprietario del beershop che frequento è assolutamente svincolato dalle mode e molto preparato, mi ha aiutato a conoscere le buone birre senza preconcetti.

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