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Cresce il numero di locali americani con sola birra indipendente. E in Italia?

Da quando le multinazionali del settore hanno iniziato ad acquisire di birrifici craft di mezzo mondo (l’ultimo qualche ora fa), è diventato chiaro che la “battaglia” non è più tra birra artigianale e birra industriale, ma tra produttori indipendenti e non indipendenti. In passato era facile tracciare una linea di demarcazione tra i due mondi, ma negli ultimi anni questo esercizio è diventato molto più complicato. Lo ha capito la Brewers Association, che recentemente ha prima elaborato un marchio dedicato, poi investito non poche risorse per lanciare un’ingegnosa campagna sull’argomento. L’opera di sensibilizzazione sta cominciando a dare i suoi frutti, se è vero, come riportato dal Washington Post, che sono sempre di più i locali americani che stanno interrompendo i rapporti con i birrifici passati in mano all’industria per lavorare solo con quelli realmente indipendenti. Una reazione comprensibile, ma che merita attenzione per almeno due aspetti: perché alla base di una simile decisione ci sono considerazioni imprenditoriali e non solo ideologiche e perché coinvolge soggetti diversi tra loro oltre agli scontati pub “illuminati”.

Il caso su cui si concentra inizialmente Fritz Hahn nel suddetto articolo è quello di Pizzeria Paradiso, brand che vanta quattro ristoranti tutti situati nella zona di Washington. Il mese scorso il management ha deciso di cessare la vendita di birre prodotte da aziende che non rientrano nella definizione craft della Brewers Association, escludendo quindi clienti come Founders e Wicked Weed, finiti entrambi sotto il controllo delle multinazionali. Una scelta che segue quella di molte altre realtà che negli ultimi tempi hanno scelto di non trattare più marchi come Lagunitas (Heineken), Ballast Point (Constellation Brands) e Devils Backbone (AB Inbev). Un’ondata di ribellione, insomma, nei confronti dell’evoluzione più recente del mercato artigianale.

Dalle dichiarazioni della responsabile “birra” di Pizzeria Paradiso si comprende che la decisione non è dettata da semplici valori morali, ma da precisi calcoli imprenditoriali:

È una decisione commerciale. Nel senso più ampio, è una conseguenza dall’etica di Pizzeria Paradiso: acquistare prodotti da artigiani locali, riceverli tramite distributori locali e provare quando possibile a supportare le piccole e indipendenti realtà del territorio. [Le questioni relative a indipendenza e proprietà] stanno diventando sempre più oscure e confuse, anche dal nostro punto di vista.

Se hai costruito un’attività commerciale su determinati criteri, non puoi improvvisamente tradirli. Questo assunto a volte viene confuso con l’arida ideologia, ma spesso il discorso riguarda piuttosto il posizionamento di un marchio sul mercato. Se decidi di comunicare qualcosa ai tuoi clienti, tutte le tue azioni devono essere coerenti con quel punto di partenza, altrimenti finirai per perdere la loro affezione. Posizionare un prodotto talvolta è il risultato di convinzioni personali, ma nel momento in cui queste si concretizzano in qualcosa da vendere, ogni considerazione vira su temi inevitabilmente imprenditoriali.

Cosa intendo con ciò? Intendo che spesso la “guerra” tra birra craft e industria viene compresa nel modo sbagliato. O viene ignorata, per i motivi più disparati, oppure caricata di intenzioni ideologiche (nel senso più stretto del termine) che invece non sono altro che calcoli commerciali. Ma se possiedi un’attività – qualsiasi tipo di attività – che si dichiara in modo più o meno esplicito attenta a lavorare con produttori piccoli, indipendenti e locali, non puoi ignorare certe questioni. Non puoi non riflettere su ciò che sta accadendo nel mondo della birra artigianale e prendere una posizione al riguardo. Né pensare che sia tutto un discorso ideologico e quindi poco attinente alla scelte commerciali. È esattamente il contrario, purché il tuo lavoro sia dichiaratamente ispirato da determinati principi – in altre parole se ti sei posizionato in modo diverso chi se ne frega, puoi tranquillamente continuare a trattare birrifici indipendenti e industriali contemporaneamente.

L’altro aspetto interessante del pezzo del Washington Post è che come primo esempio non viene preso un pub o una birreria, ma un ristorante. Un’attività, cioè, da cui non ci aspetteremmo immediatamente una simile decisione. Capiamoci, i Pizzeria Paradiso di Washington sono luoghi dove la birra gioca un ruolo da protagonista, con spine che raggiungono la doppia cifra. Però come tipologia di esercizio non corrispondono esattamente alla meta che si considererebbe primaria per un appassionato di birra. E infatti è plausibile ritenere che il target dei Pizzeria Paradiso sia piuttosto generico: bevitori con esperienza, ma anche famiglie e profani della birra artigianale. Cioè una tipologia di attività in cui i prodotti crafty delle multinazionali hanno più facilità a inserirsi e che, di base, sono meno raggiungibili dal “grido di allarme” che sta arrivando dal comparto craft.

È facile capire che i due elementi che emergono dall’articolo – necessità di una valutazione imprenditoriale della situazione e natura dell’attività coinvolta – vanno strettamente a braccetto. Fino a oggi in Italia la questione sull’indipendenza dei birrifici è rimasta confinata quasi esclusivamente nella comunità degli appassionati. Publican e distributori (per la verità neanche molti) si sono posti il problema di come porsi di fronte ai cambiamenti del mercato, ma sono casi isolati. È fuori dal nostro ambiente che si decide gran parte dei destini della birra artigianale e purtroppo lì il dibattito non solo non è arrivato, ma è proprio ignorato. Così esiste tutto un tessuto commerciale, composto da ristoranti, enoteche, pub generalisti e via dicendo, che rimane alla mercé (spesso inconsapevole) delle multinazionali camuffate da artigianali.

La questione invece dovrebbe riguardare tutti i soggetti che, come spiegato prima, nella loro attività si basano su determinati criteri. Invece esistono bistrot che si vantano di lavorare solo con piccoli fornitori indipendenti e poi ti piazzano in menu crafty indutriali, oppure manifestazioni enologiche che propongono solo i vini di apprezzati vignaioli naturali e poi nell’angolo birra trovi un marchio di AB Inbev, o ancora chef rinomati per la loro ricerca sulle materie prime che non si preoccupano di stringere accordi con le multinazionali. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito e il problema è sempre lo stesso: la birra non è considerata un prodotto meritevole di certe riflessioni, se non da noi appassionati. In passato decidevi di inserire in offerta una birra artigianale e potevi essere sicuro che fosse realizzata da un piccolo birrificio indipendente. Ma oggi questa regola non vale più ed è il caso che tutti ne prendano atto.

C’è un misto di ignoranza e disinteresse in tutto ciò per questo le campagne di sensibilizzazione sono fondamentali. Perciò riallacciandoci alla parte introduttiva del post, non è un caso che le scelte di tanti locali americani e la pubblicazione di articoli come quello del Washington Post seguano le mosse compiute dalla Brewers Association nei confronti dell’opinione pubblica. Sperare che in Italia avvenga qualcosa del genere è però pura utopia, almeno nel breve termine.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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4 Commenti

  1. Ciao Andrea!
    Non seguo la scena brassicola da un po’ (shame on me 🙁 ) per questioni di lavoro e studio. Dove posso trovare un articolo che fa un riepilogo di tutti i birrifici artigianali acquisiti da birrifici industriali?
    E, perdonami la domanda ignorante, all’atto pratico cos’è che comporta un’acquisizione da parte di una di queste Big?
    Grazie mille!

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