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Come distinguersi da centinaia di altri birrifici: 5 casi di successo

Nell’articolo di ieri vi ho raccontato delle difficoltà che stanno incontrando i birrifici americani di medie dimensioni, costretti a barcamenarsi in un settore dove negli ultimi anni la concorrenza è cresciuta a ritmo impressionante. Una situazione molto simile a quella italiana, dove ci ritroviamo con circa 700 birrifici e qualche centinaia di beer firm a lottare per dividersi quel poco che il segmento artigianale è in grado di garantire. È quindi importante ribadire il concetto con cui abbiamo concluso il pezzo in questione: oggi più che mai è imprescindibile partire con progetti validi, investimenti importanti e idee chiare. Ma può non bastare: in aggiunta è fondamentale sapersi distinguere dalla massa e caratterizzarsi per aspetti unici e peculiari. Ci sono decine e decine di birrifici in Italia che magari realizzano buoni prodotti, ma che poi non sono in grado di raccontare qualcosa di nuovo. Nonostante le loro qualità, rischiano di rimanere impantanati in una zona oscura dominata dal disinteresse del mercato. E allora come ci si può differenziare dai competitor? Per rispondere a questa domanda possiamo fare affidamento a casi concreti.

Negli ultimi anni in Italia abbiamo assistito alla nascita di birrifici che, in un modo o nell’altro, sono stati in grado di intraprendere strade molto personali. Grazie alle loro strategie, sono riusciti a catturare l’attenzione degli operatori del settore e dei consumatori, creando una prima breccia per diffondere il proprio marchio (e la propria filosofia produttiva). È superfluo sottolineare che in tutti questi casi la qualità del prodotto finale è un elemento indispensabile, ma oggi realizzare ottimi prodotti può non essere sufficiente. Ecco allora alcuni casi di produttori nati negli ultimi anni che hanno valorizzato il loro talento con scelte commerciali piuttosto peculiari.

Loverbeer

Il birrificio Loverbeer fu avviato a fine 2009 e fu probabilmente uno dei primi in Italia a imboccare volutamente un percorso molto particolare. Dopo quasi 10 anni passati da semplice homebrewer – tra l’altro molto apprezzato da colleghi ed esperti – Valter Loverier decise di compiere il grande salto per realizzare la sua visione brassicola: produrre birre inusuali nel suo impianto da 10 hl, fornito di tini di legno per la fermentazione. La sua prima birra non fu una semplice “chiara da battaglia”, ma la BeerBera: una fermentazione spontanea brassata con mosto d’uva Barbera, in un periodo dove il concetto di Italian Grape Ale non era minimamente contemplato. Quella produzione d’esordio non fu un caso isolato: seguirono la D’uvaBeer (con uve Freisa), la BeerBrugna (con susine e lieviti non ortodossi), la Dama Brun-a (Oud Bruin), la Marche’l Re (Imperial Stout al caffè) e via dicendo. Né IPA né Lager, ma solo produzioni tendenti all’acido e spesso legate ad antiche tradizioni birrarie.

La strada intrapresa da Valter posizionò il suo birrificio in una nicchia di mercato che all’epoca pochissimi birrifici italiani avevano indagato, almeno con tale decisione. Le sue etichette furono presto percepite come chicche per appassionati, difficili da reperire e dal costo non indifferente – spesso giustificato da iter produttivi molto lunghi. In poco tempo attirarono l’attenzione degli appassionati stranieri e, dopo aver conquistato l’Italia, la reputazione di Loverbeer si diffuse anche all’estero – Valter fu invitato in alcuni importanti eventi internazionali. Chiaramente l’idea di Valter non è stata di facile attuazione: ha richiesto investimenti rischiosi (il prodotto rimane fermo a lungo in cantina), lo ha obbligato a rivolgersi a una clientela molto particolare (e se vogliamo volatile) e difficilmente gli permetterà di ampliare la produzione. Ma ha potuto differenziarsi dagli altri birrifici italiani come pochi avevano fatto prima di lui.

Brewfist

Come molti altri birrifici, in confronto a quella di Loverbeer la produzione di Brewfist è assolutamente “normale”: la gamma standard dell’azienda lombarda si basa su stili molto diffusi, che strizzano l’occhio alla cultura brassicola anglo-americana. Tuttavia, come vi raccontai lo scorso ottobre, Brewfist fece qualcosa che pochi altri concorrenti avevano fatto prima in Italia: aggredì il mercato con un’identità visiva curata, chiara e decisa, con un concetto di birra lontano dai estremismi pretenziosi e, soprattutto, con il ricorso esclusivo alle bottiglie da 33 cl. In un periodo in cui quasi tutti i birrifici italiani uscivano con birre da 75 cl e si rivolgevano a consumatori maturi, con un’immagine quasi aristocratica, Brewfist utilizzò un linguaggio più asciutto e diretto, rivolgendosi a un consumo completamente diverso. E non fu un caso che intercettò un pubblico giovane e una generazione a cui pochi si erano rivolti, sfruttando al massimo il fenomeno (romano e non solo) dei beershop di nuova concezione. La loro Spaceman diventò la birra con cui crebbe un’intera leva di nuovi bevitori, decretando così il successo dell’azienda nel nostro settore.

Alle basi dell’idea di Brewfist ci fu quindi una visione molto pragmatica (e leggermente visionaria) dello stato della birra in Italia. Era un momento in cui era ancora possibile accodarsi alle idee di altri e progredire con relativa tranquillità, ma a differenza di molti Andrea Maiocchi e Pietro Di Pilato vollero creare qualcosa di deflagrante. Ci riuscirono grazie anche a investimenti non indifferenti, che tuttavia mai come in questo caso risultarono mirati ed efficaci. Non è scontato: basta sbagliare strategia per sperperare incalcolabili somme di denaro, soprattutto in un settore come quello della birra artigianale.

Vento Forte

Per chi è amante della birra vivere a Roma è un sogno da almeno una decina d’anni e forse è proprio ora che la Capitale sta sperimentando il suo momento più felice: accanto ai tanti ottimi locali che puntellano la città, negli ultimi anni sono sorti molti produttori di qualità eccelsa. Vento Forte, birrificio alle porte di Bracciano, è uno di quelli che ha contribuito a questa rinascita di Roma dal punto di vista produttivo. Merito di Andrea Dell’Olmo, birraio di straordinario talento e sempre sul pezzo, che infonde nel suo lavoro passione e dedizione ad altissimi livelli. Le sue creazioni hanno conquistato gli appassionati della città sapendo riproporre nel modo migliore i moderni stili americani, in un periodo in cui gran parte delle IPA italiane erano ancora – diciamo così – di vecchio stampo. Per riuscire nel suo intento e valorizzare al massimo la resa dei luppoli, Andrea ha puntato tutto sulla “freschezza” dei suoi prodotti, anticipando un concetto che solo ora in Italia sta assumendo le dimensioni di un vero e proprio tormentone. Chiariamo cosa si intende per freschezza: un lasso di tempo ragionevolmente breve tra l’uscita della birra dal birrificio e il suo arrivo alle spine del pub, così da permettere ai luppoli di esprimere al meglio le proprie caratteristiche aromatiche.

Quella della freschezza è stata la chiave con cui Vento Forte è riuscito ad affermarsi nel mercato, ma per riuscirci ha dovuto compiere delle scelte. Per garantire che le sue birre siano disponibili ai consumatori in tempi stretti, Andrea ha dovuto limitare le proprie vendite a un’area geografica molto circoscritta: è il motivo per cui, nonostante sia ampiamente apprezzato in tutta Italia, è quasi impossibile trovare Vento Forte molto oltre il Grande Raccordo Anulare. Ma questo limite gli ha permesso di lavorare eccezionalmente bene sul territorio, di crearsi una fedelissima comunità di “locals” e di curare il proprio lavoro in ogni aspetto, anche fuori dalle mura del birrificio. Restare piccoli per essere grandi, questo potrebbe essere il motto di Vento Forte.

Crak

Il birrificio Crak nacque a inizio 2015 dalle ceneri della beer firm Olmo, facendo coincidere questa fase di rottura con un cambio radicale in termini di immagine e filosofia produttiva. Come linguaggio e scelte commerciali l’azienda attaccò con forza un canale super specializzato del mercato: quello costituito dagli appassionati di birra artigianale e in particolare dei beer geek. La gamma si riempì velocemente di IPA e sue variazioni, chiaramente quasi sempre ispirate ai modelli americani. Penetrò i giusti canali e cominciò una serie di importanti collaborazioni italiane e internazionali (l’ultima con Hammer), seguendo una strategia che già qualche anno prima aveva permesso a Toccalmatto di accreditarsi tra gli osservatori stranieri. La produzione di Crak è totalmente guidata dalle moderne evoluzioni del mercato: non si contano le NE IPA messe in commercio negli ultimi tempi, così come non mancano le sperimentazioni con i Cryo Hops o con qualunque altra innovazione che proponga il settore. A giorni dovrebbero uscire le prime lattine di Crak e non escluso che l’intera gamma sia convertita in alluminio.

Anche Crak ha puntato a una nicchia di mercato, compiendo una scelta che si è rivelata vincente. È una tattica che porta evidenti vantaggi, ma che nasconde anche diverse insidie. Seguire gli umori di un certo tipo di pubblico è infatti complesso e pericoloso, soprattutto in un momento il settore sta diventando sempre più enigmatico ed esposto a rapidi cambi di direzione. L’idea che Crak ha deciso di seguire è da “all in”, o la va o la spacca. Possiamo dire che è andata, eccome se è andata, ma non provate a imitarla se non avete il pelo sullo stomaco. “Don’t try this at home”, come dicono in America.

Mister B

Tra gli ultimi birrifici capaci di caratterizzare il proprio progetto in maniera peculiare non possiamo non citare Mister B, che si sta affacciando ora sul mercato con birre disponibili esclusivamente in lattina (oltre che in fusto). È ancora presto per capire se è stata una decisione vincente, tuttavia è indubbio che Mauro Bertoletti ha sfruttato il momento di grande ascesa di questo contenitore, che finalmente sta penetrando anche nel settore italiano. Come sempre, per anticipare la concorrenza ed emergere dalla massa occorre giocare d’anticipo e compiere scelte coraggiose, col rischio di confrontarsi con un mercato ancora non sufficientemente maturo. Restando alle lattine, ad esempio, in passato anche Bad Attitude si affidò totalmente a questo contenitore, ma probabilmente quell’idea all’epoca aveva precorso fin troppo i tempi.

La panoramica chiaramente non è esaustiva ed esistono tanti altri esempi di birrifici che hanno trovato la loro strada distinguendosi dalla massa. Spero che questi casi di studio siano illuminanti e fonte d’ispirazione. Esistono tante soluzioni al problema della saturazione del mercato, e nessuna perfetta a priori. L’importante secondo me è avere chiaro in mente che se oggi fai birra in Italia, e magari la fai anche da dio, non sei l’unico. Ci sono altre decine di birrifici al tuo livello, arrivati prima di te, e devi fornire un motivo al mercato per convincerlo che sei meglio di loro. Buon divertimento.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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9 Commenti

  1. Sembra quasi una risposta al mio commento di ieri. Ho capito che esistono 3 capisaldi per aprire un birrificio:
    1) Birra buona
    2) Progetto solido
    3) Distinzione & costante innovazione

    • Sicuramente sì. Per carità, ci sono tanti birrifici che negli ultimi anni hanno aperto senza intraprendere strade particolarmente peculiari, riuscendo tuttavia ad affermarsi e a crescere. Fare birra buona è indispensabile, avere alle spalle un progetto solido è imprescindibile. Trovare percorsi innovativi non è necessario, ma aiuta. Se poi vogliamo intendere questo aspetto come una conoscenza aggiornata dell’ambiente e uno studio costante, allora diventa anch’esso una conditio sine qua non.

  2. Per amore della precisione.
    Il primo birrificio in Italia a fare solo bottiglie da 33 cl è stato Extraomnes. 😉
    E’ un primato di cui vado orgoglioso e voglio rivendicare…

  3. In effetti le bottiglie da 33 cl. non s’erano mai viste al mondo prima. Le potenzialità e le novità che si potrebbero introdurre come birrificio, sono solo state sfiorate fino a ora.

  4. Buonasera, scusate l’intervento. Io proprio non comprendo il senso di questo articolo, che mi pare più di stampo “marchettaro” che altro. Non voglio offendere il lavoro di nessuno ma, questi nomi di birrifici citati, insomma sono noti i bilanci e precise analisi contabili di cassa e patrimoniali per decretare l’indubbio successo e la necessaria assoluta certezza di essere modelli di riferimento?
    Come fa un birrificio che lavora solo “intra GRA” ad essere apprezzato in tutto lo stivale e oltralpe?
    800 birrifici in italia di stampo non industriale, non sarebbe opportuno parlare in maniera più prospettica da nord a sud?
    Alla fine i birrifici sono come una qualsisi azienda di trasformazione e produzione alimentare, con un prodotto che può piacere o meno al pubblico/cliente a cui si rivolge.
    Davvero non comprendo il senso dell’articolo.
    Si vuol forse dire che ci sono birrifici (centinaia) sull’orlo del fallimento?
    Insomma sarei davvero lieto di leggere articoli più precisi e dettagliati, e ripeto non voglio assolutamente offendere il lavoro di nessuno, e se l’ho fatto porgo anticipatamente le mie scuse.
    Francesco.

    • Insinuare l’esistenza di marchette e contemporaneamente chiosare con “non voglio assolutamente offendere il lavoro di nessuno” è bellissimo, complimenti

      • Ciao Andrea e davvero scusi se l’ho offesa nella dignità del suo lavoro. Mi permetta di sostituire marchettaro con superficiale. Il concetto che vorrei far emergere è che qui in Italia siamo veramente fuori fuoco sulla birra, a mio avviso. Ad iniziare dal prezzo assurdo a cui viene proposta la birra, passando per i conti economici dei birrifici (leggo sul 90% delle descrizioni delle aziende brassicole la parola “passione” come segno distintivo della propria azienda) e finendo al gran vociare su webzine e blog di “sto movimento” che ancora oggi dopo 10 anni di un mio curioso approccio, ancora non ho capito che cosa c’è dietro. Mi sono permesso di scriverle perché lei è uno dei pionieri della comunicazione brassicola diciamo artigianale ma, alcune cose nob mi sono chiare. Ok ci siamo inventanti un bel lavoro, va bene, ma a me molti conti non tornano ed è per questo che la mia mente e formazione sbottano come nel precedente commento. A prescindere che qui si è iniziati quasi tutti con le pentoline a casa, vorrei solo meglio comprendere il taglio di determinati articoli, tutto qui. Sarà forse meglio tacere? Ho partecipato per la mia seconda volta da cuorioso, dopo pianeta birra, al circo attraction del we scorso. 1,60 € a gettone per 10cl di birra se non due gettoni per alcune altre…facciamo insieme i conti su quanto al litro? Ho 43 anni, da piccolo le fiere erano posti dove strappare un qualcosa a un buon prezzo, un prezzo fiera appunto….e qui qualcosa davvero non mi torna…A parte i ragazzini a bere birra negli stand, a parte le qualità bevute e anche premiate, di cui ho le mie perplessità e non solo le mie, dov’è il senso di tutto questo? Per non parlare dei produttori di impianti, belle chiacchierate ho scambiato, e belle realtà sono emerse, nel bene e nel male. Posso appofondire tutto, ovviamente sono personali valutazioni. Ma resto sempre più convinto che qualcosa non quadra. Ed è la cosa più semplice, la sempre meno diffusa onestà tra le persone.
        E non la sto accusando di disonestà ma la cronaca è per me verità assoluta.
        Un saluto sincero e la seguo, dove in molti articoli trovo informazioni puntuali e ottimi spunti di approfondimento.
        Francesco

        • Ciao Francesco, nel tuo commento hai buttato tutto nel calderone (in maniera molto pessimista, diciamo così) e ancora non ho capito qual è il punto del contendere. Rimanendo circoscritto a Cronache di Birra, puoi dire chiaramente cos’è che non ti aggrada?

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