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Small-batch breweries: luci e ombre del nuovo fenomeno della birra anglosassone

In Italia è semplice per un giornalista parlare di birra: è una bevanda tradizionalmente lontana dalle nostre tradizioni, la cui riscoperta in chiave artigianale desta immediatamente interesse e curiosità. È un prodotto facilmente spendibile su giornali e trasmissioni radiofoniche e televisive, fondamentalmente perché rappresenta la novità del momento. Se questo è valido per il nostro paese, non è però scontato in quelle realtà dove la birra è da secoli un elemento onnipresente che scandisce la quotidianità delle persone. Così in tali contesti è più facile che la cronaca si concentri su tendenze di nicchia, capaci tuttavia di richiamare l’attenzione di testate generaliste. È ciò che sta accadendo da qualche tempo nel Regno Unito con il fenomeno delle small-batch breweries: birrifici di dimensioni minuscole, ma in grado di affermarsi nel panorama nazionale della birra artigianale. Un fenomeno con luci e ombre, che vale la pena di analizzare.

Nella nostra scena birraria siamo abituati a confrontarci spesso con produttori dalle dimensioni lillipuziane, ma lo stesso non può dirsi per quelle nazioni in cui la birra ha sempre rappresentato un’industria florida. Il successo dei pico-birrifici è quindi un evento recente, che chiaramente si innesta all’interno della giovane rivoluzione della birra craft ma che – come sottolinea il sito di Borough Market – deriva anche dall’ossessivo entusiasmo del mondo gastronomico per tutto ciò che è piccolo e artigianale. Così la produzione in quantità limitate è sempre più percepita come “un indicatore di orgoglio, integrità e attenzione ai dettagli”.

In un contesto come quello britannico, in cui la birra artigianale è stata riscoperta da almeno mezzo secolo grazie all’opera del Camra, questa tendenza si lega soprattutto alla nuova ondata di moderni microbirrifici, spesso lontani dal concetto di Real Ale e dalla visione un po’ datata della suddetta associazione. Molte sono le città anglosassoni che negli ultimi anni sono state teatro di aperture importanti, compresa Londra, dove il boom delle small-batch breweries è stato talmente impressionante che nel quartiere di Bermondsey è nato il Beer Mile: una clamorosa successione di nano-birrifici (e beershop) concentrati nel raggio di qualche miglio. Il primo fu Kernel nel 2009, ma negli anni i nomi si sono moltiplicati: Brew By Numbers, Southwark, Anspach & Hobday, Partizan, Fourpure, ecc. Tuttavia, come accennato, gli esempi si trovano facilmente anche fuori dalla capitale: possiamo inserire nell’elenco Northern Monk, Verdant, Time and Tide e altri ancora.

L’ascesa di questi birrifici è quasi sempre legata al mondo degli appassionati e dei beer geek e sicuramente influenzata dall’hype che spesso si crea intorno alle loro produzioni. Tuttavia è indubbio che lavorare con dimensioni ridotte permette a queste aziende di rispondere efficacemente alle richieste del proprio mercato: possono cioè gestire più facilmente il controllo qualità dei loro prodotti (anche fuori dal birrificio), differenziare profondamente la loro offerta, costruire una propria identità con la comunità locale e, se non sbaglio, approfittare di alcuni sgravi fiscali. Nonostante la stazza contenuta, la visibilità ottenuta da questi birrifici ha ampiamente superato i confini nazionali, spesso anche grazie a birre di altissimo livello.

È dunque quello delle small-batch breweries il format ideale per lanciarsi nel mondo della birra craft inglese e non solo? Non sempre. Anzi, secondo il Guardian questo approccio espone ad alti rischi e a marginalità molto ridotte, che possono portare al fallimento nel giro di pochi anni. Gli esempi sono diversi, come quello di Rob Lowe, che è stato costretto a chiudere la sua Rebel Brewing dopo sei anni dall’apertura, nonostante la vittoria di alcuni premi internazionali.

Le nostre vendite hanno cominciato a stagnare a causa della concorrenza crescente e alla mancanza di investimenti per lanciare sul mercato nuovi prodotti.

È fantastico che così tanti nuovi birrifici stiano emergendo, ma sfortunatamente molti sono gestiti da totali novizi. Se chiunque ha intenzione di aprire un birrificio passasse sei mesi in sala cottura, scoprirebbe che il lavoro è duro e impegnativo, i margini irrisori e la competizione accesissima.

Si ricollegano alle parole di Lowe quelle di Justin Hawke, che invece ha visto crescere continuamente il suo birrificio Moor:

Quello del Regno Unito mi sembra il mercato brassicolo meno regolamentato al mondo. Il costo di entrata è virtualmente nullo. Puoi registrarti, ottenere il modulo dall’HMRC (il dipartimento corrispondente alla nostra Agenzia delle Entrate ndr)… nessuno all’inizio ti controlla per verificare se stai facendo tutto nel giusto modo. È grandioso perché offre a ciascuno un’opportunità, ma d’altro canto permette alla gente di entrare sul mercato senza possedere abilità o un talento imprenditoriale per emergere.

Vi ricorda niente? È esattamente quella cieca caccia alla gallina dalle uova d’oro che abbiamo spesso rilevato anche in Italia. La birra artigianale è la moda di questi anni e la percezione che può dare all’esterno è di un mondo fatato, in cui gli affari sono facili e a buon mercato. In tutto ciò la “saga” delle small-batch breweries aggiunge alla narrazione ulteriori elementi di fascino: in particolare il mito del birraio che parte dal cortile domestico e che dopo pochi anni vende all’industria per cifre milionarie. Situazioni realmente accadute in qualche caso (Camden Town ad esempio), ma che non devono trarre in inganno. Anche Bill Gates e Steve Jobs sono partiti dal garage di casa e hanno fondato sconfinati imperi economici, ma ciò che le cronache non raccontano è la storia di quanti hanno fallito lungo lo stesso percorso.

Basta prendere le statistiche di crescita del mercato craft anglosassone per capire che i numeri sono impietosi: in 7 anni i birrifici sono aumentati del 65%, passando da 1.026 a 1.700. Cifre da capogiro, che spiegano perché i progetti fragili sono destinati a fallire nel giro di qualche anno. Ma la narrazione e il senso di appartenenza possono essere così forti da spingere ad andare avanti comunque, come nel caso di Daniel Tapper:

Può suonare romantico, ma gestire un nano-birrificio non è un viaggio di piacere. Fidatevi. Attratto dall’affascinante scena britannica delle small-batch breweries, nel 2014 fondai nelle Yorkshire Dales il mio piccolissimo birrificio, The Beak. […] Nei successivi due anni testai, sviluppai, produssi, imbottigliati, etichettai e distribuii personalmente circa 3.000 bottiglie, generando praticamente zero profitti e sottraendo tempo prezioso al mio lavoro quotidiano.

Stavo per abbandonare tutto in un giorno di pioggia, quando mi vidi costretto a consegnare le mie birre in giro per Leeds con un carrello della spesa recuperato da un vicino supermercato. Eppure, nonostante la timida prospettiva di un successo commerciale, quella follia che si chiama The Beak va avanti ancora oggi. Per quale ragione? Perché, come felicemente confermerà qualunque esponente del crescente fenomeno dei nano-birrifici, la buona birra può non coincidere con i buoni profitti e certamente non ha nulla a che fare con le dimensioni.

Questo fenomeno, che non è circoscritto al solo Regno Unito, può dunque avere diverse evoluzioni. Può cominciare come un gioco e restare pressoché tale, come nel caso appena visto. Può offrire una rapida visibilità, destinata a diventare controproducente di fronte a progetti mal sviluppati. Può offrire prospettive di crescita inaspettate e trasformare velocemente un piccolo birrificio in un’impresa importante. Può attirare le attenzioni delle multinazionali e portare ad accordi con cifre da sei o sette zeri. Tutto dipende da come ci si affaccia in questo settore e quali scelte si compiono durante il viaggio.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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