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God save the beer: il duro colpo dell’industria alla rivoluzione craft anglosassone

Cosa sta succedendo alla birra craft anglosassone? È una domanda che molti osservatori si staranno ponendo in questi giorni, a causa delle frequenti notizie riguardanti accordi tra birrifici artigianali e multinazionali del settore. La risposta più immediata è che non sta accadendo nulla di diverso da ciò a cui ormai siamo abituati: in tutto il mondo, Italia compresa, è in atto una chiara strategia da parte dell’industria, che sta invadendo il segmento craft grazie ad acquisizioni, prodotti ambigui e altre manovre di contorno. Tuttavia quella britannica è una scena decisamente importante, probabilmente senza paragoni a livello europeo e l’unica in grado di competere in hype con i birrifici americani, almeno nel suo complesso.

L’ultima notizia risale a meno di ventiquattrore fa, quando il londinese Fourpure ha annunciato di aver ceduto la totalità delle sue quote alla Lion, gigante australiano del mercato food & beverage di proprietà a sua volta della giapponese Kirin. Fourpure è (era) uno degli esponenti più importanti della Beer Mile londinese, cioè quella ristretta zona della città in cui sorgono alcuni dei birrifici che hanno rilanciato la birra craft nella capitale inglese. Parliamo di aziende come Partizan, Brew By Numbers, Anspach & Hobday e altre.

Probabilmente molti di voi collegheranno questa notizia a quella recentissima riguardante Beavertown. Come se non bastasse la vendita di Fourpure, qualche giorno fa un clamore ancora superiore si è creato intorno all’annuncio dell’accordo raggiunto tra il birrificio di Logan Plant e Heineken, che ha a dir poco sconvolto la comunità internazionale degli appassionati di birra. La partnership è stata raggiunta nell’ottica dell’apertura della futura sede produttiva di Beavertown: un progetto monstre da 450.000 hl annui, sviluppato su una superficie di 125.000 mq all’interno dei confini cittadini.

Le due vicende, per quanto eclatanti, non rappresentano casi isolati. Probabilmente il primo “attacco” alla rivoluzione britannica della birra craft risale a fine 2015, quando, non senza sorprese, il 100% delle quote del birrificio Camden Town furono acquistate da AB Inbev per la bellezza di 85 milioni di sterline. Da quel momento si susseguirono altre situazioni analoghe, come la cessione di Meantime a Sab Miller (per poi passare sotto il controllo di Asahi) o la vendita di Dark Star a Fuller’s. Molto più recente è l’acquisizione di London Fields Brewery da parte di Carlsberg: la multinazionale danese è subentrata alla precedente proprietà, accusata di frode fiscale.

Insomma, il luglio della birra craft inglese ricorda da vicino quello destabilizzante che abbiamo vissuto lo scorso anno in Italia, quando in pochissimi giorni furono resi pubblici gli accordi tra Birrificio del Ducato e Duvel, Birradamare e Molson Coors e Toccalmatto e Caulier. Con la differenza che ovviamente la scena inglese è molto più importante e complessa della nostra. È  infatti interessante rilevare come in questo fenomeno quasi sempre l’industria stia puntando birrifici della new wave birraria, sebbene meno sviluppati rispetto ad altri marchi esistenti da decenni. L’impressione è che la moda influenzi anche certe scelte, ma è anche chiaro che accordi del genere sono per i piccoli produttori la via più semplice per ingrandirsi in pochissimo tempo.

Di fronte a certe tendenze è normale attendersi delle reazioni, che in effetti non sono mancate sia a livello “istituzionale”, sia per quanto riguarda la comunità internazionale. Esattamente un anno fa la SIBA, l’associazione britannica che riunisce i produttori indipendenti, lanciò una campagna per promuovere il bollino AIBCB, con il quale riconoscere i birrifici indipendenti. Una scelta molto simile a quella della Brewers Association, i cui effetti però sono rilevabili solo nel medio-lungo termine e tutti da verificare.

È apparsa allora molto più immediata ed esemplare la risposta che molti birrifici internazionali hanno voluto dare a Beavertown, boicottando in massa il suo evento Extravaganza, in programma a inizio settembre: su un’ottantina di marchi invitati e annunciati, più della metà ha preferito dare forfait nei giorni successivi all’annuncio dell’accordo con Heineken. Un segnale partito da alcuni produttori e poi allargatosi a macchia d’olio, dal valore simbolico sicuramente importante. Ma anche una consolazione di ripiego di fronte a una tendenza sempre più presente nel mercato anglosassone.

Simili reazioni però sembrano suggerire che certe scelte da parte dei birrifici producono risposte sempre più nette. Dunque non deve sorprendere se alcuni passaggi del comunicato stampa di Fourpure appaiono meno ipocriti di quanto avvenuto in passato in circostanze analoghe:

Se siete arrivati qui è perché probabilmente siete a conoscenza che siamo stati acquistati da Lion, mediante un’operazione che prevede il trasferimento del 100% della proprietà ai nostri nuovi amici australiani. Probabilmente vi aspetterete anche frasi del tipo “tutto come sempre”, “nulla cambierà”, “rimarremo gli stessi”. Sebbene la birra, la cultura e le persone resteranno le stesse […] ci auguriamo davvero che ci saranno dei cambiamenti, altrimenti perché avremmo venduto?

Un’ammissione di “colpevolezza” quasi inaspettata – per la verità il comunicato poi diventa molto più politically correct – che evidenzia come ormai certe operazioni non possono passare sotto traccia e necessitano di una comunicazione più sincera, almeno in apparenza. Ma al di là di questi dettagli, la verità è che il contrasto tra movimento craft e industria si sta acuendo ogni giorno di più. C’è chi vorrebbe creare delle barricate e chi si sta unendo a questa idea, ma anche chi segue semplicemente la corrente del momento e chi non si preoccupa (giustamente o meno) di ciò che sta avvenendo. La situazione è in continuo divenire.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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21 Commenti

  1. Andrea, conosci nel dettaglio i termini dell’accordo concluso da Caulier e Toccalmatto? Quando se ne parlò, mi sembrò molto diverso dagli altri, ma poi non ho più approfondito.

    • Non credo che i dettagli siano mai usciti ufficialmente, comunque se non ricordo male Caulier ha acquistato il 100% di Toccalmatto, garantendo a Bruno un posto nel suo CdA. L’operazione è molto diversa nella sostanza: Caulier non è un birrificio industriale, quindi Toccalmatto rimane un marchio artigianale.

      • Ah vedi, non credevo che Carilli avesse ceduto l’intero pacchetto azionario. Grazie.

      • Ma se la legge dice “che sia legalmente ed economicamente indipendente da qualsiasi altro birrificio”, non basta essere controllati da un altro birrificio, grande o piccolo, artigianale o indistriale che sia, per perdere il concetto di indipendenza e quindi di “birra artigianale”?

        • Se non ricordo male si intende indipendenza da altro birrificio non artigianale. Su questo si era espressa Unionbirrai analizzando il caso Toccalmatto, ma non ritrovo più il comunicato

        • Penso che il punto sia che Caulier non è un birrificio ma una Beer Firm e non essendo proprietari di altri impianti diventano semplicemente un birrificio che vendono più marchi

  2. Per quanto riguarda Dark Star io credo sia diverso, Fullers é un birrificio grande ma definirlo “industriale” (qualunque cosa significhi) mi sembra esagerato, basta visitarlo per capire che fanno tutto acora in maniera pressoché invariata. Hanno bollitori piú grandi e piú fermentatori ma niente alchimie industriali.
    Ma poi perché non parliamo mai di piccoli birrifici che si vendono invece di grandi birrifici che comprano?

    • Sì beh quella di Dark Star è una situazione molto diversa per i motivi che sottolinei. Comunque la perdita di indipendenza all’epoca qualche clamore l’ha sollevato…

      • Si é vero, fece clamore, specialmente nel mondo craft. Peró davvero io credo che il problema sia visto in diversa maniera dagli appassionati craft, e giustamente per caritá. I birrifici artigianali nascono, poi cominciano a crescere ed espandersi fino ad arrivare a dimensioni tali da fare gola ai pesci piú grossi, succede in tutti gli ambiti produttivi, purtoppo aggiungerei io. Il problema é che i fedelissimi dell’artigianale sono solo quelli che la birra la bevono (come te Andrea) perché i birrai non si fanno scrupoli e non ci pensano su un minuto prima di vendere!
        Voglio dire nessuno gli punta la pistola alla tempia, prendetevela con loro non con l’industria !

        • Beh Giancarlo non ne faccio un discorso etico. Le multinazionali mettono in atto certe manovre perché è il loro business, così come gli artigiani vendono perché vorrei vedere te con un assegno a 7 zeri 🙂 . Come appassionato però non posso che preoccuparmi per quello che accade.

          • Ti capisco perfettamente, io aspetterei e se la qualitá delle birre non é la stessa bye bye. Oppure si puó boicottare per principio, alla fine il mercato decide sempre!

          • Ma sì ognuno decide come comportarsi. Secondo me boicottare ha poco senso. Preferisco bere certi birrifici, ma non per questo rinuncio a priori ad acquistare Birra del Borgo (o un altro ex artigianale) se non trovo alternative allo stesso livello

  3. Io lavoro come birraio a Camden Town Brewery da 5 anni, da quando siamo diventati parte di ABI non e’ cambiato assolutamente niente dal punto di vista della produzione (materie prime, ricette, ecc), anzi ci sono piu’ soldi per fare ricerca e sviluppo. Non penso che quando ti vendi a un gigante del settore la birra non sia piu’ artigianale, perche’ come ho detto nulla e’ cambiato nel metodo di produzione, non siamo piu’ indipendenti ma quello e’ un discorso diverso secondo me. Da birraio posso dire che ovviamente preferirei essere indipente ma purtroppo il livello della scena in Inghilterra e’ ancora anni luce indietro, di birrifici che fanno le cose bene, che hanno Kit di qualita’ ce ne sono veramente pochi e Camden town brewery ti da l’opportunita’ di crescere professionalmente.

    • Complimenti per l’onestà Michele. È chiaro nel breve e magari anche medio termine nulla cambia, ma ad esempio in Italia esiste una legge che pone l’indipendenza come uno dei tre criteri che definiscono un birrificio artigianale. Se Camden fosse italiano, non sarebbe più artigianale anche se nulla è cambiato a livello produttivo.

      • Capisco cosa vuoi dire, pero’ stai letteralmente parlando di un’etichetta che dice se sei artigianale o no giusto? La birra in se non cambia. Per esempio, sono andato al pub di Birra del borgo a Roma e ho assaggiato delle birre meravigliose, tipo un’acida all’anguria, piu’ craft di cosi. Per me, lasciando stare l’etichette, una birra artigianale vuol dire 100% malto, niente riso o mais, niente estratti di luppolo o prodotti vari e ovviamente non pastorizzata.
        Almeno cosi la vedo io

        • Se cominciamo a dibattere su cosa significa birra artigianale per ognuno di noi entriamo in un ginepraio, per quanto a grandi linee io sia d’accordo con te.
          Comunque tutto il discorso non riguarda la qualità, che chiaramente non cambia da un giorno all’altro dopo un’acquisizione da parte della multinazionale di turno. Anzi tendo sempre a sottolineare che la qualità nel breve e medio termine può addirittura migliorare. Però se guardo al concetto di birra artigianale in generale (oltre a quello definito dalla legge) penso ad altro. E questo per quanto anche io recentemente sia ripassato all’Osteria bevendo bene (e mangiando divinamente)

    • Sono felice che confermi qualcosa che immaginavo succedesse(ho visitato il tuo birrificio un paio di volte quando studiavo per il diploma IBD), non credo che chi ha comprato Camden abbia alcun interesse a cambiare in peggio. Il discorso di Andrea poi é legittimo e, come detto in precedenza, ognuno agisce in base al suo giudizio.

      • Ok, Non concordo con qualcosa che hai detto in precedenza, ti quoto: ‘ i fedelissimi dell’artigianale sono solo quelli che la birra la bevono (come te Andrea) perché i birrai non si fanno scrupoli e non ci pensano su un minuto prima di vendere’.
        Non Capisco cosa intendi qui, I birrai non sono fedeli alla birra artigianale ma solo quelli che la bevono sono fedeli? Per birrai intendi i propetari, quelli che ci lavorano, o chi? Perche’ scusa se te lo dico ma mi sembra una sciocchezza quello che hai detto.

        • Cerco di spiegarmi meglio (non vorrei mi considerassi uno sciocco solo perché non ci siamo capiti) : voglio dire che se tutti gli operatori del settore artigianale la pensassero come Andrea non ci sarebbero acquisizioni da parte dell’industria. Cercavo di dire che, da bevitori e appassionati, si vede il problema in maniera diversa e magari superficiale. Della passione della gente io non dibatto perché ognuno lo sa per se, io lavoro per un birrificio che molti considerano “industriale” (la realtá é diverrsa} ma non per questo ho meno passione di un birraio craft!

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