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I diversi livelli di astrazione degli stili birrari

In passato ho affrontato l’argomento “stili birrari”, interrogandomi se e quando il loro impiego è utile e sensato. Traendo ispirazione da un recente post di Alan McLeod, oggi riprendo in mano il tema per approfondirlo sotto un altro punto di vista. L’autore di A Good Beer Blog si chiede se uno stile può essere qualcosa in più di un aiuto generico, partendo dal presupposto che esistono diversi livelli di astrazione nello stabilire una categoria birraria. La sua riflessione nasce da due articoli incentrati su altrettanti stili “contraddittori”: le Sour Ale e le birre d’abbazia. In entrambi i casi si tratta di definizioni piuttosto vaghe, nelle quali possono rientrare produzioni estremamente diverse tra loro. E perciò, come recitava un simpatico tormentone di calcistica memoria, la domanda nasce spontanea: che senso ha utilizzarle? Forse nessuno, se non per chi quelle birre deve venderle.

I due esempi citati sono accomunati dalla capacità di offrire una serie di informazioni, ma in numero non abbastanza dettagliato da stabilire i confini di uno stile birrario. Quella delle Sour Ale è una categoria nata recentemente, nella quale rientrano tutte quelle birre che fanno della loro acidità un aspetto principale. Semplice e chiaro, non c’è che dire, peccato che la definizione sia così vaga da risultare pressoché inutile. Prendiamo il BJCP, lo standard internazionale degli gli stili birrari: si parla in effetti di Sour Ale, ma semplicemente come macrocategoria nella quale sono racchiusi stili ben precisi, come Berliner Weisse, Oud Bruin, Gueuze, ecc. Confondereste una Berliner Weisse con una Oud Bruin? Assolutamente no. Eppure sono entrambe “acide” e dunque etichettabili come Sour Ale secondo la prassi più recente. Inoltre il concetto di Sour Ale, oltre a non offrirci informazioni concrete sulla birra in oggetto, non ci spiega che tipo di acidità incontreremo.

Se pensate che le obiezioni alla definizione di Sour Ale si fondino su basi troppo tecniche, allora passiamo alle birre d’abbazia. Questa categoria indica in modo molto vago delle birre d’ispirazione belga monastica, di tenore alcolico medio o elevato, con una spiccata componente maltata. In altre parole: indizi quantomeno generici, che risultano praticamente inutili per capire veramente le caratteristiche della birra in esame. Parlare di birra d’abbazia ha lo stesso valore dell’utilizzo della definizione “birra trappista”, con la differenza che almeno nel secondo caso si indica l’appartenenza a un disciplinare produttivo ben definito. In entrambi gli esempi, però, sarebbe più giusto parlare di Dubbel, Tripel, Quadrupel o di altri stili.

Possono definizioni come Sour Ale o Abbey Ale risultare utili per il consumatore? In un certo senso sì, almeno finché l’approssimazione di certe categorie non risulta controproducente. Ecco perciò che l’articolo sulle birre d’abbazia citato in apertura arriva alla conclusione che certe etichette si diffondono principalmente per motivi di marketing. Chi è affascinato dai prodotti dei frati trappisti probabilmente si lascerà ammaliare da una birra d’abbazia, qualsiasi cosa essa sia nello specifico. Certe definizioni servono a vendere meglio, con buona pace di chi è in cerca di informazioni chiare ed esaurienti.

Limitare però tutta la questione a pure scelte di marketing è a mio modo di vedere riduttivo. In realtà nella cultura birraria esistono stili che si posizionano a diversi livelli di astrazione – tanto per riprendere il concetto iniziale di McLeod. Pensiamo alle Blanche e a quanto siano vincolanti nella loro definizione: sono birre prodotte con una certa percentuale di frumento, aromatizzate con scorza d’arancio e coriandolo. In più esistono caratteristiche non scritte, ma consolidate: se ordiniamo una Blanche ci aspettiamo una birra chiara, opalescente, con un cappello di schiuma abbondante e un grado alcolico contenuto. Insomma, tutti elementi identificabili con precisione, che limitano al minimo i margini di fluttuazione.

Lo stesso non accade con altri stili. Rimanendo in Belgio, le Saison per definizione sono molto meno vincolanti, al punto che in Italia si è diffusa la (pessima) moda di chiamare Saison qualsiasi birra d’ispirazione belga con aromatizzazioni particolari che non rientra in altre categorie. I Barleywine inglesi sono birre forti e complesse, che si caratterizzano per alcuni aspetti identificativi, ma con un grado di astrattezza piuttosto evidente. Le Doppelbock tedesche sono birre forti e di colore ambrato scuro, ma che raramente possono anche essere chiare. Più spesso invece gli stili risultano ben più puntuali degli esempi fin qui riportati.

Esistono poi casi limite, di “stili non stili”, che però sono considerati come tali. Quando si parla di Rauchbier, ad esempio, si intendono birre di stampo tedesco prodotte con malti affumicati. La caratteristica principale è quindi lo spiccato aroma affumicato, che si poggia su una “base stilistica” preesistente. Quando beviamo una Schlenkerla, ad esempio, quasi sempre abbiamo a che fare con la Marzen affumicata del produttore bavarese. In realtà lo stesso birrificio produce anche Bock, Weizen e altre specialità, tutte affumicate. Ha senso in tutti questi casi parlare semplicemente di Rauchbier, o sarebbe più giusto indicare lo stile di riferimento con la caratteristica aggiuntiva del malto affumicato?

Tempo fa il mio amico birraio Andreas Gaenstraller mi spiegò che le Zwickel, a differenza delle Keller, non sono uno stile prettamente detto, ma una peculiarità di alcune birre. Come per le Rauchbier, anche per le Zwickel esistono diverse declinazioni: Zwickel-Pils, Zwickel-Bock, ecc. L’elemento distintivo sarebbe la mancata filtrazione di queste tipologie di birra, così come per le Rauch lo è l’impiego di malti affumicati.

Parlando dunque di stili, è giusto distinguere definizioni con diverso grado di profondità? Quelle più vaghe sono davvero utili per il consumatore, oppure servono solo a vendere di più?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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19 Commenti

  1. salve, come molti neo-birrofili , un po’ freaky, ho perso pomeriggi interi cercando di crearmi uno schema completo degli stili di birra esistenti, attingendo informazioni un po’ qua un po’ la, ma con più si entra in materia con più la cosa si complica creando notevole confusione; la conclusione finale è che, a parte alcuni stili veramente distintivi e che mantengono un senso storico oltre che organolettico, per il resto c’e’ una enorme confusione, confini poco definiti e definibile, sovrapposizioni etc. in particolar modo per quanto riguarda gli stili inglesi (suggerisco una lettura di alcuni articoli su http://zythophile.wordpress.com). quindi ho perso un po’ l’entusiasmo e sebbene per esigenze pratiche seguo in buona parte le definzioni generalmente accettate, segnalo un articolo che mi ha permesso di vedere le cose in una ottica differente. cosi come lo stesso autore riconosce, anche questo modo di classificare le birre ha i suoi limiti però permette per lo meno di identificare quello che si sta bevendo. poi eventuali contributi storici e geografici possono essere aggiunti a posteriori. che ne pensate? allego il link: http://aleheads.com/2010/09/13/a-new-approach-to-beer-styles/

    • Idea carina e interessante, peccato che al di là dei punti deboli esposti dallo stesso autore, riduce il tutto a una fredda analisi di ciò che c’è nel bicchiere. In particolare si perde tutta la parte “storica” nascosta dietro uno stile… e la birra è soprattutto storia. Un conto è bere una Blanche o una Pils (con tutto ciò che hanno significato per il mondo birrario), diverso è bere una Belgian Wheat Pale Ale o una Bitter Pale Lager.

      • assodata la presenza di punti deboli e concordando con il fatto che si potrebbe migliorare tale “metodo” sotto vari punti di vista, discordo in parte quando dici “riduce il tutto a una fredda analisi di ciò che c’è nel bicchiere”, in quanto è proprio questo il punto dolente della faccenda: cosa abbiamo nel bicchiere o meglio cosa c’e’ nella bottiglia che stiamo per comprare? queste sono le informazioni basilari e necessarie per poter “capire” il prodotto, poi viene la parte storica (non meno importante), che credo non stia dietro tanto allo stile di riferimento, bensì al produttore o al territorio dove quest’ultimo produce. se quando dico PILS ti viene in mente la Boemia, credi che abbia però senso nel caso di una pils prodotta da un micro birrificio sperduto negli USA? o avrebbe più senso parlare di bitter pale lager per dare una chiara idea del prodotto per poi approfondire osservando che una ha origini ceche ( e via discorrendo sulla storia delle Pils) e l’altra ha origini americane, con tutte le conseguenti differenze legate per esempio all’ utilizzo di luppoli tipicamente yankee?

  2. Concordo e aggiungo: è davvero così utile conoscere le differenze anche minime tra gli stili? Personalmente penso sia più interessante conoscere le caratteristiche che la birra che sto bevendo possiede, non quelle che dovrebbe possedere in base allo stile in cui rientra.

    • Sempre che non si sia ad un concorso :°D

      A parte gli scherzi, gli stili sono troppi, qualche volta hanno confini labili, generano confusione, etc etc. Su questo sono perfettamente d’accordo.

      Più che altro bisogna fare attenzione a non includere negli stili anche le nomenclature varie: “birra d’abbazia” è chiaramente un marchio commerciale (rappresenta anche un consorzio) inventato per spingere birre “trappiste” che trappiste non sono. E anche volendo, non rappresenta un singolo stile ma un “contenitore” di stili (come si dice nell’articolo).

      Per quanto riguarda la macrocategoria sour ale del BJCP sembra corretta, almeno concettualmente, nel racchiudere quegli stili. Più che altro mancano proprio le wild/sour ale vere a proprie.

      secondo me è importante incrociare le fonti e soprattutto capire perché una birra può o meno rientrare in uno stile piuttosto che in un altro.
      Le liste enciclopediche lasciano il tempo che trovano…

  3. Io sono già felice se trovo un’etichetta che mi permette di capire cosa mi posso aspettare dal contenuto della bottiglia che ho in mano, specie quando si tratta di produttori che non conosco e trovo come unica informazione “birra rossa” o “birra chiara” in etichetta in 9 casi su 10 preferisco lasciar stare.
    Se trovo almeno l’indicazione dello stile alla quale la birra in questione si ispira una minima idea ce l’ho, anche se sempre ben lontano da una garanzia di qualità e se trovo una birra free-style dovrebbe essere nell’interesse del birraio comunicare al potenziale acquirente cosa ha creato.

  4. Le definizioni come queste, più vaghe, cercherei di usarle solo come “accessorie” ad uno stile, non come identificazione dello stile in sè. Come se fossero aggettivi rispetto al sostantivo.

    E riguardo alle Schlenkerla spesso mi è venuto il tuo stesso interrogativo!

  5. Concordo con Nico…a volte sono i produttori dai quali ti aspetteresti l’aiuto piu grosso a sviarti.
    Ancora continuo a leggere sulle etichette di micro italiani, nella descrizione del prodotto, attacchi come “birra chiara doppio malto prodotta con…ecc.” invece che magari “ale d’ispirazione anglosassone che fonde una classica porter con le complessità aromatiche dei lieviti belgi…ecc”

    Detto questo vorrei fare un parallelismo con il mercato musicale underground: le etichette di genere (es. dark goth rock) spesso servono piu alle case discografiche per far ritagliare ad una band la fetta di mercato più appetibile, cercando di attrarre l’appassionato con alcune parole chiavi…cosi’ come abbey ale non mi dice nulla ma almeno l’interessato alle complessità lievitose tipiche del belgio puo’ sentirsi chiamato in causa per un potenziale acquisto azzeccato.

    Nel caso delle Sour Ale beh…qui non parliamo di stile secondo me ma di tipologie caratteriali e come tali vanno prese con le pinze.

  6. Sull’argomento segnalo anche un interessante articolo di Joris Pattyn (http://www.ratebeer.com/Beer-News/Article-758.htm), dove tra l’altro sostiene che non si dovrebbe assolutamente parlare di Quadrupel come stile..

  7. Una birra è per sempre una birra !

  8. Penso che il primo punto da chiarire sarebbe dare una definizione di “stile”. Cosa e’ uno stile? Vuole indicare la ricetta di una birra? Un ingrediente caratterizzante? Indica la sua resa organolettica? O ancora la storia legata ad un luogo?

    A farci caso il dibattito sugli stili ha preso piede quando la birra s’e’ diffusa nei paesi con minor tradizione birraria (globalizzata?), dove il birraio ha a sua disposizione un mondo da esplorare e di conseguenza deve (o dovrebbe) cercare di spiegarlo al consumatore. Viceversa il dibattito sugli stili e’ quasi inesistente proprio nei luoghi di produzione delle sopracitate birre affumicate o sour ale; in sostanza laddove la birra e’ tradizione, e si bevono (e si conoscono) quasi esclusivamente i prodotti locali. Esempio banale: io che sono di Bologna mi aspetto di bere del Sangiovese, quando ordino all’osteria una caraffa di “rosso”, ma non e’ cosi’ per tutta Italia, dove ogni zona ha la sua tradizione. Al contrario in paesi in cui il vino e’ meno tradizionale sara’ molto piu’ complesso spiegare che tipo di “rosso” e’ quello che la casa vi sta offrendo, o quantomeno a quale tradizione si rifa’ (tralasciamo il dato oggettivo del vitigno, l’importante e’ il succo del discorso).

    Personalmente considero STILI principalmente accezioni che si rifacciano a ricette piuttosto precise e/o legate eventualmente ad una tradizione storica: vedi per esempio Blanche, Berliner Weisse, di cui si e’ parlato. In qualche caso anche la sola “indicazione geografica tipica” puo’ risultare utile, sebbene piu’ generica: Rauchenbier (birre in stile tedesco prodotte a Bamberga…) o Koelsch (pale lager prodotta a Colonia…). E’ ad ogni modo chiarissima per gli abitanti di Bamberga, di Colonia, di Dusseldorf etc…Da questo discorso rimane esclusa ogni fuorviante definizione (ne spuntano come funghi, e quelle si’ che sono marketing!) create da birrai che tentano in ogni modo di inventarsi l’incrocio piu’ strano.

    Paesi con grande tradizione birraria possono affrontare il problema allo stesso modo? Per quel che mi riguarda: No, i paesi con tradizione affronteranno il problema partendo da un punto di vista diametralmente opposto dal nostro o da quello di qualsiasi avanguardia birraria. Che ne pensate?

    • Mah Jacopo non sono proprio d’accordo con te. Innanzitutto perché il moderno concetto di stile birrario non è poi così arbitrario come si crede: è stato teorizzato di Michael Jackson e si definisce come una categoria di birre accomunate dal condividere ingredienti, storia, processi produttivi ed elementi organolettici comuni. Che poi possa apparire vaga come definizione, quello è un altro discorso…
      Di conseguenza, non credo che le origini del dibattito siano da ricercare in un motivo geografico, bensì storico. E’ con la riscoperta della birra artigianale che si è cominciato a parlare di stili birrari e di tutto ciò che vi ruota attorno. Nel momento in cui si è sentita necessità di fare divulgazione, è stato importante suddividere le birre in modo analitico. Secondo me per questa ragione ti sembra che nei paesi con maggiori tradizioni ci sia meno interesse in questo senso. Invece spesso è proprio tra gli appassionati di questi movimenti che il dibattito è più acceso.

      • appunto, gli stili esistevano ancor prima che fossero organizzati o riconosciuti.

        Casomai si puà parlare di “deriva” degli stili.

  9. Koelsch (pale lager prodotta a Colonia…)

    Vedi perché esistono gli stili?

  10. Forse sono stato frainteso [@schigi ma ti riferisci a me? perche’ non mi sembra di aver scritto che gli stili non abbiano motivo di esistere]

    Sintetizzo (fosse vero!): il problema di differenziare una golden ale inglese da una belga ce lo poniamo noi (Italia), ma vi posso assicurare non e’ ovunque cosi’
    Vivo da qualche tempo in UK e i soci del CAMRA (al 99%) neanche si pongono il problema di conoscere gli stili al di fuori dell’Inghilterra, inoltre quando parlano di bitter, generalmente ne sottolineano le differenze che le distinguono dalle altre ale inglesi, ma NON in assoluto! (Con eccezione della zona di Londra e pochi altri centri)
    Ovviamente chiunque abbia vissuto in UK e abbia avuto esperienze con i soci locali del CAMRA potrebbe comunque avere convinzioni differenti dalle mie…

    Di conseguenza credo che l’appartenenza geografica abbia il suo enorme peso, di certo assieme a mille altri fattori (come dici te @andrea)

    Cio’ di cui sono convinto (per esperienza vissuta fuori dall’Italia ripeto, non perche’ mi piace tirare ad indovinare) e’ che questo sia un problema legato piu’ ai paesi “avanguardia” che a quelli tradizionali (UK e Germ, discorso a parte per il Belgio)
    Detto cio’, vorrei solo che si provasse a dare una definizione piu’ precisa del termine “stile”

    @Indastria: mi sembra giusto, anche io esistevo prima che decidessero di chiamarmi Jacopo. Poi sono cresciuto e son sempre rimasto Jacopo, e continuero’ ad esserlo pur continuando a mutare. Idem per gli stili: i nomi durano piu’ delle ricette…se interessati all’argomento consiglio la lettura di “Amber, Gold & Black”

    • ma indubbiamente gli stili (e la vita) evolvono. Infatti volevo aggiungere che l’appartenenza ad uno stile non deve certe appiattire gli esempi dello stesso.

      sottolineavo però come la tendenza ad aggregare le produzioni secondo canoni precisi sia stata sempre presente, consapevolmente o meno.
      Geniale MJ nel capirlo, forse, prima di altri.

    • Cioè, la Koelsch è una lager?

  11. Interessante sia l’articolo che la discussione.
    Penso che più di astrazione sia il caso di parlare di “contaminazione” cioè parametri di classificazione validi ma che dovrebbero appartenere ad altri contesti (categoria commerciale, categoria legale, etc.) usati al posto dello stile birrario.
    Tu proponi esempi “di confine” ma pensa al classico(!?) estremo “che hai di doppio malto?”.

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