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Artigianali contro pseudo artigianali: negli USA scoppia la polemica

Mentre il 2012 birrario in Italia si concludeva con l’inquietante ingresso di Peroni in Eataly, una polemica dalle tinte simili infiammava la scena brassicola americana. L’analogia deriva dal coinvolgimento nella questione dei birrifici non artigianali, scagliatisi improvvisamente contro l’approccio della Brewers Association nei confronti del concetto di “craft beer” (birra artigianale). La scintilla è stata un articolo redatto da alcuni esponenti dell’associazione (tra cui Charlie Papazian), nel quale si sottolinea il diritto per il consumatore di distinguere le birre genuinamente artigianali da quelle pseudo artigianali – negli USA si utilizza il termine “crafty”. Queste ultime sono birre prodotte da birrifici industriali, ma camuffate da artigianali per aggredire un segmento di mercato al momento molto redditizio. Facendo un parallelo col mercato italiano, ad esempio potremmo considerare crafty la Moretti Grand Cru.

L’esempio della Moretti è molto eloquente, ma permette di comprendere solo in parte la filosofia della Brewers Association. Poiché negli Stati Uniti esiste una definizione molto precisa di birra artigianale, è abbastanza facile delineare una linea tra quali birrifici sono definibili craft e quali no. Sulla base di questo principio, dopo qualche giorno dall’articolo incriminato l’associazione ha pubblicato uno schema intitolato “Elenco dei birrifici nazionali non artigianali” (qui in pdf). La lista espone quasi una quarantina di aziende brassicole che non rispettano uno o più dei tre principi necessari per essere craft: produzione (relativamente) contenuta, indipendenza, rispetto delle tradizioni produttive. A margine di ogni birrificio è anche riportato il motivo per cui uno dei tre criteri è violato.

Ora capirete che questo elenco è molto variegato, poiché comprende sì grandi multinazionali del settore (Anheuser-Busch, MillerCoors), ma anche birrifici dalle dimensioni molto più piccole che, per un motivo o per l’altro, non possono fregiarsi del titolo di craft. E sono stati soprattutto questi ultimi a far sentire la propria voce nei confronti della Brewers Association, piccati a mio avviso più dallo schema in questione che dall’articolo citato in apertura. Gli interventi che ne sono conseguiti sono stati tantissimi e hanno visto scendere in campo birrai anche molto importanti. Insomma, la discussione che ne è conseguita credo sia stata senza precedenti nel settore artigianale americano.

Uno degli interventi più accorati è stato quello del birrificio August Schell, inserito nella “black list” perché utilizza surrogati del malto d’orzo (violazione del principio della tradizione). Di seguito alcuni passaggi interessanti:

La loro definizione (della Brewers Association ndr) postula che un birrificio artigianale è piccolo, indipendente e tradizionale. Tre aspetti che si suppone non appartengano all’industria. Il problema è che queste linee guida finiscono con l’escludere alcuni dei membri più importanti dell’associazione, così vengono regolarmente modificati e create eccezioni per mantenerli nella definizione. Evidentemente noi non siamo abbastanza importanti e non siamo più considerati un birrificio craft perché, secondo i loro criteri, non saremmo tradizionali. Per un birrificio esistente da 152 anni e il secondo birrificio a conduzione familiare più antico d’America, essere considerato “non tradizionale” è offensivo.

I birrifici industriali spesso usano surrogati in quantità ingenti per ridurre i costi di produzione e per alleggerire le loro birre – concetti completamente opposti a quelli su cui si basa il movimento artigianale. Nonostante questo sia vero per l’industria, si tratta di una visione riduttiva della storia brassicola in America e in nessun caso ha a che fare con la nostra azienda.

Quando August Schell emigrò dalla Germania e fondò il suo birrificio nel 1860, l’unica possibilità di produrre birra era di utilizzare gli ingredienti disponibili in loco, poiché era impossibile farsi spedire materie prime in grande quantità dall’Europa. […] Per aggirare il problema, impiegò un piccola percentuale di un altro ingrediente locale, chiamato mais […] Non utilizzò mais per risparmiare o alleggerire la sua birra. Lo fece perché al tempo era l’unico modo per realizzare una birra di qualità in America […] Noi abbiamo continuato a brassare le nostre birre utilizzando quella percentuale di mais perché era il nostro modo tradizionale di farlo.

Mettiamo lo stesso orgoglio e la stessa fatica nella produzione delle nostre American Lager così come facciamo per le nostre birre speciali 100% malto, nonostante non possiamo considerarle craft. Sappiamo che la stessa considerazione è stata riservata ai nostri amici dei birrifici Yuengling e Straub. Affermare che i tre birrifici familiari più antichi d’America non sono tradizionali è assolutamente irrispettoso, rude e, francamente, imbarazzante. Se volete tenerci nella vostra lista nera, fatelo pure. È una vostra decisione. Continueremo a infondere passione e amore in ogni singola goccia di birra che produrremo in questo piccolo, indipendente e tradizionale birrificio. Esattamente come fa qualsiasi altro birrificio artigianale, e come abbiamo fatto per più di un secolo e mezzo. Vergognatevi.

Scusate se mi sono dilungato nel riportare l’intervento del birrificio August Schell, ma mi sembra molto utile per spiegare un punto di vista diverso da quello della Brewers Association. E che dimostra la presenza di una crepa evidente nella definizione dell’associazione: l’impiego di surrogati è una delle strategie più deplorevoli dell’industria, ma non necessariamente un male a priori. Se distinguere un birrificio craft da uno non craft ha senso, probabilmente è il caso di rivedere il vincolo in questione, magari adattandolo per non compromettere situazioni del genere.

A ben vedere, la polemica negli USA si è innestata per la pubblicazione della lista nera e non  sulla validità della battaglia “craft vs crafty”. Sebbene entrambe nel concreto siano un’emanazione della definizione di birra artigianale in America, la seconda ha un’importanza a prescindere, che secondo me vale la pena sostenere. Ma che apre anche orizzonti velati, dove è difficile distinguere in modo netto ciò che è buono da ciò che è cattivo.

Birra artigianale non significa birra buona, su questo siamo tutti d’accordo. Ma da un punto di vista concettuale, artigianale è sempre meglio di industriale? È giusto considerare buone birre realizzate con tutti i crismi del caso, anche se prodotte da multinazionali? Ha senso distinguere una birra artigianale da una non artigianale, o anche soltanto parlare di birra artigianale? E se ha senso, quali devono essere i confini di una definizione?

Tutte queste domande sono sacrosante e probabilmente rimarranno senza risposta. Si potrebbe pensare allora di resettare ogni concetto che abbia a che fare con “birra artigianale”. Ma il problema è che questo tipo di birra l’abbiamo conosciuta proprio perché diversa da quella che l’industria ci ha spacciato per anni. E non possiamo fare finta di niente.

Per un approfondimento dell’argomento vi segnalo questo post di Erik Lars Myers su Top Fermented, con collegamenti ad altri interessanti interventi.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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13 Commenti

  1. il caso più clamoroso è la goose island. La sua situazione mette in crisi qualsiasi concetto di craft o crafty…

  2. Sui criteri della BA, le eccezioni, i salvati ed i salvabili ci sarebbero le solite storie che tutti sappiamo.
    Però devo dire che apprezzo la presa di posizione, il coraggio e l’audacia nel mettere la pulce nell’orecchio ai consumatori. Magari sarebbe stato meno deflagrante nominare i soli craft e far risalire ai crafty per esclusione.

  3. Ogni tanto penso che sarebbe il caso, e magari dico una bestemmia, di soffermarsi sulla validità di una birra senza pensare al fatto che sia o meno artigianale. Ok, lo so già. Ci sono numeri, mezzi e possibilità di investimenti totalmente diversi, ma io da consumatore non mi preoccupo molto, quando bevo una birra, se chi la produce fa 100 o 1.000.000 di litri, mi concentro su quello che è, che mi dà. Se non è buona non la comprerò più, molto semplicemente, se lo è cerco di interessarmi maggiormente.
    A volte mi sembra che ci si perda nei cavilli, perdendo anche la direzione di base.
    Non so, ci sono tanti birrai seri in questo blog, dico eresie? Mi piacerebbe sentire un’opinione da chi è dentro il problema.

  4. Personalmente ritengo che il primo problema della definizione di artigiale e’ che la stessa non e’ coerente con la percezione che il consumatore ha del termine: non ha forse piu’ senso definire “artigianali” i birrifici che utilizzano impianti manuali o semi-automatizzati (definendo un grado massimo di automatizzazione) ed eventualmente creare dei disciplinari o territoriali o per corrente di pensiero? Questo permetterebbe di dare un piu’ ampio respiro alle scelte personali di ciascun birrificio, permettere lo sviluppo di nuove idee e dare maggior protagonismo al prodotto, togliendo adito a quei giudizi espressi piu’ per ideali o opinioni di moda che per reale conoscenza delle brewing technologies o della storia del prodotto.

  5. Tanto è la stessa identica bevanda (cit.)
    Io penso che ci si perda nel nulla, ognuno di noi dovrebbe distinguere in: la birra che fa per me e la birra che non fa per me, indipendentemente se industriale, artigianale o pseudo. Anche perché ci sono birre buone e cattive in entrambi gli schieramenti.

    Fregacazzi, se poi gli impianti sono automatici, semiautomatici, se esportano nel mondo o nella loro provincia e se il birraio è il birraio dell’anno in corso o di quello passato e di disciplinare tracciati da chissà chi.

    Il disciplinare definitivo e corretto sta nella bocca e nell’esperienza d’ognuno. Stai a vedere che adesso una birra mi piace o meno, perché me lo dice un disciplinare.

    La prossima volta che mi propongono una birra, risponderò, aspetta che butto un’occhio al disciplinare. Sembra un discorso da ufficio complicazioni cose semplici….

  6. Sono daccordo con Appassionato.
    Il mondo delle birre “artigianali” ha suscitato sempre maggiore interesse e mosso sempre più capitali, cosa che non poteva sfuggire alle grandi compagnìe che in qualche modo cercano di “attaccare” tale settore.
    Il mondo delle artigianali cerca giustamente di difendersi, e lo fa nell’unico modo che può: discriminando in base a delle “regole”.
    Questo però anzichè fare chiarezza, crea altra confusione e situazioni come quella descritta.
    Al consumatore finale non resta altro che fare come dire Appassionato: ma sticaxx, la birra l’assaggio, e se mi piace o no dipende solo dai miei gusti.

  7. Difendo la posizione di Charlie, non si tratta di buono o cattivo, mi piace o non mi piace. A me può piacere McDonalds , ma quando voglio SCEGLIERE fuori dal criterio del gusto e allargare l’esperienza, uso le guide e le classificazioni e mi faccio una mia idea. E MCDonalds è fast food, mentre il Montebore (che può non piacere) è SlowFood.

    Giusto quindi separare chi mette “3 luppoli” in etichetta per arruffianarsi certa clientela cui facciamo una fatica dell’ostrega a convincere a selezionare la birra artigianale da quella industriale. Anche con le classifiche e le denunce. A quando una definizione di birra artigianale italiana?

  8. non capisco tanto il fatto di dimensioni del birricio e del volume di produzione. l’importante è salvaguardare la qualità secondo me. non so voi cosa ne pensate.
    a me personalmente l’aggettivo artigianale non piace tanto, non penso abbia tanto senso per appunto un campo dove si usano impianti semi/totalmente automatici. la differenza la deve fare il processo di produzione e la qualità delle materie usate. quindi ovviamente già il pastorizzare o meno cambia tutto.
    la cosa giusta è però salvaguardare il consumatore da finte artigianali. va benissimo che ci siano industriali e artigianali, ci mancherebbe il mercato nn lo vieta, però che mi si venda brodaglia per un prodotto di qualità nn lo trovo giusto.

  9. secondo me la birra craft è piú apprexzabile ma non è detto che debba essere per forza più o meno buona di altre prendi sierra nevada o la tedesca schneider che produce 800.000 ettolitri di birra l anno.. eppure è un prodotto valido.

  10. Matthias Müller

    Come birraio vorrei rispondere che l’artigianalitá si può solo esprimere nel rinuncio della filtrazione e della pastorizzazione, anche quella “flash”. Chi filtra o pastorizza la birra la fa per motivi poco onorevoli come accorgiare i tempi di produzione o perchè non lavora sufficentemente pulito per evitare incontaminazioni.

    La prima definizione di UnionBirrai era quella giusta, e finora non mi è chiaro il motivo perchè abbandonato – paura di escludere metodi dubbiosi perché da nomi “importanti” del settore?

    Matthias Müller

    Matthias Müller

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