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Viaggio a Indianapolis tra growlers, assaggi, menù temporanei e dimensioni notevoli

Birre artigianali e pallacanestro. Sono questi i due capisaldi dell’esperienza che ho avuto il piacere di vivere nelle prime due settimane dell’aprile 2014 negli Stati Uniti. La prima tappa della mia avventura è stata Indianapolis: la città in cui la NCAA di college basketball ha ospitato le Final Four – le finali del torneo universitario – si è rivelata molto interessante anche a livello birraio.

Indy Welcomes All, for real

L’anticamera del Midwest, Indianapolis, era da me conosciuta per due, anzi tre motivi. Il primo, la 500 Miglia (che si è corsa recentemente), una delle gare su quattro ruote più spettacolari del mondo. Il secondo, la sede della NCAA, l’associazione “no-profit” che gestisce il giro miliardario degli sport collegiali americani. Il terzo, la legge a sfondo sostanzialmente razziale da poco adottata dallo Stato storicamente conservatore, per cui – in soldoni – se un ristoratore, albergatore, parrucchiere, ecc. non dovesse concordare con gli orientamenti religiosi e sessuali di un cliente, ha la facoltà arbitraria di farlo accomodare fuori dal locale. Non il miglior biglietto da visita per Indy.

Sicuramente migliore è stata l’accoglienza del ragazzo che ha gentilmente ospitato me e il mio collega e amico Claudio in casa sua. La sua frase d’esordio, ancor prima di rompere il ghiaccio, è stata “andiamo a bere”. Prima di andare, però, ci beviamo quello che si rivelerà il primo ed ultimo bicchiere d’acqua della vacanza, e la vista che ci si offre è quella di una cucina piena di growlers e bicchieri di birrifici artigianali del luogo. Joey, è un appassionato di birra artigianale fino al midollo. I growlers, per chi non li conoscesse, sono bottiglioni da cinque litri, che nei craft pubs americani vengono venduti con una facilità impressionante. Il padrone di casa ne avrà dieci, forse quindici, e altrettanti bicchieri.

La prima cosa che noto, quindi, è legata alla birra. La seconda, è legata ai loghi dei birrifici, semplicemente favolosi. Impressioni sulla città cambiate radicalmente: è già clima da “Indy Welcomes All” ovvero “L’Indiana accoglie tutti”. La paternità della frase è controversa, poiché utilizzata dagli stessi conservatori che hanno votato la legge simil-razziale, a dimostrazione che loro non discriminano nessuno. Curiosamente è diventata anche il cavallo di battaglia dei progressisti dello stato dell’Indiana, che la citano a mo’ di sfottò. E noi la utilizziamo certamente con quest’ultima accezione.

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“Il locale è ottimo ma un po’ piccolino”

Visita della cucina terminata, si va a bere. La destinazione è il quartiere di Irvington, fuori dal centro di Indianapolis, dove sorge il birrificio Black Acre. È uno dei più quotati in base alle mie ricerche pre-viaggio e già sto gongolando. Per chi come me ha la fortuna o la sfortuna di essere abituato a una città come Roma, si tratta di un viaggio atipico: giusto una quindicina di minuti in macchina, ma solo perché lì hanno un semaforo ogni duecento metri, viste le strade a scacchiera, in stile (con le dovutissime proporzioni) Torino. Ci viene detto che Indianapolis è una città unica nel suo genere, una delle poche negli Stati Uniti che si estende in larghezza, non in altezza, “perché tutti vogliono avere una villa con giardino”.

Arriviamo in zona Black Acre con la premessa che si tratta di uno dei birrifici più piccoli della città. I coperti non saranno molti, comunque più del nostro pub italiano medio, le spine “solo” una trentina, di cui almeno l’80% attaccate. Ecco, in questo caso vivere a Roma conta relativamente poco, perché trenta spine – come vedremo – negli Stati Uniti sono poche. Il pub è veramente accogliente: birre scritte in stile USA sulla lavagna, ambiente informale ma curato, menù ampio con la scritta “aggiornato al” e successiva data, che mi fa capire come in questi brewpub cambiare menù, sia per quanto riguarda le birre che per il cibo, sia all’ordine del giorno. La mia prima birra americana è la Mandarina, una Pale Ale prodotta con l’omonimo luppolo, di cui avevo spesso sentito parlare ma che mai avevo avuto il piacere di bere. Il commento del barbuto proprietario del locale è “Scelta fantastica, la Mandarina è incredibilmente in forma”.

La Mandarina scompare velocemente nel bicchiere – birra fantastica! – ma non è la migliore della serata. La Noxious Beast, l’Imperial Rye Ipa fatta con il Falconer’s Flight e il Cascade, è in grado di stregarmi totalmente. Non sono la persona giusta per apprezzare gli IBU (oltre i 140) e la gradazione della Noxious, ma in questo caso l’equilibrio che il birraio di Black Acre è riuscito a mantenere tra questi elementi, la segale, e il corpo della birra, fa veramente la differenza. Era tempo che non bevevo una birra simile così ben realizza e credo che per molto altro non mi capiterà di berne. I riflessi ambrati della Noxious me li sognerò ancora per molto tempo!

La serata finisce relativamente presto, ma si possono già intuire le caratteristiche distintive dei brewpub americani: dimensioni notevoli del locale, luppoli a valanga, atmosfera accogliente e una quantità di birre on-tap spaventosa – dal 2011 Black Acre ha prodotto 86 differenti birre, in tipico stile USA). Questi aspetti, infatti, torneranno costantemente in questo viaggio birrario, sia a Indianapolis che a Chicago.

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Niente Fountain Square, ma Ralston’s e lo shuffleboard non me lo fanno rimpiangere

La programmata visita al rinomato brewpub della Fountain Square salta a causa di un fortunato incontro: mentre ci dirigiamo verso il birrificio un passante ci serve sotto il naso e regala due biglietti per la NBA (non lo farebbero amici di vent’anni, quindi viva Lance lo sconosciuto). Se il cambio di programma ci lascia pochi rimpianti, la voglia di bere però aumenta considerevolmente, nonostante gli stand di birra artigianale presenti al palazzetto. La vita si sposta nelle zone più centrali di Indianapolis e la scelta ricade quindi sulla Ralston’s DraftHouse.

Fatico ancora a descrivere la bellezza del loro menù birraio. A parte la solita data apposta sul foglio, sintomo della “stagionalità” delle scelte dei pub americani, noto per la prima volta una caratteristica che si rivelerà una costante, con più o meno varianti, dell’approccio dei pub americani: accanto al nome della birra, vengono riportate le dimensioni del calice (12, 16, 7 “oz.”, sigla che sta per once). Se al Ralston’s la cosa è piuttosto basilare, vista anche la vastità della proposta, al Goose Island e al Revolution Brewing di Chicago (di cui parleremo nella prossima puntata) vi è apposto anche il nome del bicchiere e il perché sia stato indicato un calice piuttosto che un altro. È un modo molto interessante di educare la clientela sul troppo trascurato tema del servizio della birra. Ma torniamo al menù. Cinquanta, e dico cinquanta spine di una qualità mostruosa: Framboise di Boon e Classic di Rodenbach le ottime scelte europee, Three Floyd’s, Triton, Bell’s quelle americane da me conosciute, molte di più quelle che ignoro completamente. In parole povere, uno spettacolo.

Dopo una bella incetta di luppoli, e il Ralston’s burger, la quintessenza del cheeseburger americano con una mostarda fatta in casa di un pungente indescrivibile, arriva la chicca: lo shuffleboard. Complicato descrivere il gioco, ma può essere considerato una sorta di curling da tavolo. Sarebbe difficile da esportare in Italia, semplicemente perché il tavolo di gioco consiste in una struttura davvero imponente, con tutti i problemi di spazio che ne possono conseguire. Il “piccolo” Ralston’s lo ha relegato alla “sala hobby” della struttura: 60/70 metri quadri arredati con qualche tavolo, quattro postazioni per le freccette e il mitico gioco che mi ha conquistato. Lo shuffleboard è tanto bello quanto infido, perché la sua difficoltà aumenta in modo proporzionate alle birre consumate durante la partita. La sconfitta e la sbornia, insomma, sono assicurate.

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Two Harted IPA e Tow Yard, il birrificio appena aperto

In centro i birrifici artigianali lasciano spazio ai più classici pub, che per fortuna, in numerose occasioni presentano una taplist ottima. È il caso del Kilroy’s, che riesce magicamente a coniugare il più inquietante dei Mac and Cheese e Bud Light a una cucina al barbecue di altissimo livello supportata da birre di qualità. È in questo pub nella più centrale delle vie di Indianapolis che bevo un’Indiana Pale Ale di una bontà insospettabile. Del birrificio Bell’s avevo già sentito parlare e assaggiato qualcosa nei primi giorni a Indy, ma la Two Harted, la loro IPA regina, ancora mi manca. È proprio al Kilroy’s che ho questo onore, mentre il locale è invaso da tifosi di Wisconsin così come il resto della città, presa d’assalto per festeggiare la vittoria in semifinale contro Kentucky. La birra è semplice, carica di luppolo Centennial, utilizzato anche in dry hopping, che le conferisce un aroma resinoso da favola. Non stupisce come Ratebeer, che non deve essere preso ciecamente come una guida ma senza dubbio rispettato, l’abbia classificata come prima tre le Indiana Pale Ale del 2014.

L’ultima tappa del giro non può che essere rappresentata da Tow Yard, il birrificio che fa angolo tra la poderosa Meridian Avenue (in cui si trovava il Kilroy’s) e il Lucas Oil Stadium, la sede delle Final Four Ncaa. La tappa è troppo vicina per non essere testata, ma l’esperto Joey ci aveva messo in guardia: “Questo birrificio è appena aperto, e insomma, non è tra i migliori della città”.

All’ingresso mi accorgo di quanto sia diversa la visione americana da quella europea. Per posto “appena aperto” non è necessariamente corretto immaginarsi un buco con un bancone e quattro posti a sedere, ma neanche una sala enorme con due banconi, uno adibito solo a una parte del locale e alla spillatura dei growlers, l’altro, più grande, con affaccio sull’impianto. La vista è impedita parzialmente da una caterva di fermentatori che si staglia come se volesse entrare nel pub, mentre tutto intorno è possibile contare più di un centinaio di coperti. Due cose mi saltano subito all’occhio: la prima è che sostanzialmente il lunedì regalano growlers da 5 litri, vista la modica cifra di 5 dollari con cui si può operare un refill; la seconda è che per andare incontro ai gusti particolari dei tifosi di Kentucky, il locale dedica parte della linea al birrificio Lexington (che prende il nome tra l’altro, della sede del college di Kentucky). Bel colpo a livello commerciale, soprattutto perché siamo vicini al palazzo che avrebbe ospitato le gare.

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Insomma, l’ultimo pub visitato a Indianapolis è quello che, a livello logistico e di struttura, mi è piaciuto maggiormente. Molto interessante anche l’idea di pubblicizzare il locale con un calendario fitto di eventi, scritto sulla classica lavagna all’entrata del brewpub. Se volessi aprire un pub, probabilmente, lo vorrei così. Il problema principale è che Joey aveva ragione: birre “flat”, molto piatte, anche quella che abbiamo portato nel growler all’esperto designer di Indianapolis per ringraziarlo dell’ospitalità.

Il giro dei birrifici di Indianapolis è purtroppo terminato rapidamente e avrebbe meritato come minimo un bevuta al Triton e al Fountain Square. Anche così, però, ha offerto molti spunti interessanti. Il prossimo appuntamento è con Chicago, assolutamente da non perdere!

L'autore: Niccolo' Costanzo

Romano. Occasionale scrittore, frequente bevitore, ha sfruttato la sua prima esperienza negli Stati Uniti per conto del suo sito di pallacanestro per iniziare a scrivere di birra. La patria del luppolo lo ha stregato, ma lo stile inglese rimane nel suo cuore. Ha smesso di bere acqua da quando ha scoperto la Framboise di Oud Beersel.

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