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Piccole esperienze birrarie in uno splendido viaggio in Namibia

Come promesso, oggi Cronache di Birra torna operativo dopo due settimane di pausa estiva: che siate ancora in vacanza o che abbiate già ricominciato con la routine quotidiana, sappiate che gli aggiornamenti torneranno puntuali ogni giorno. I quindici giorni di silenzio hanno coinciso per il sottoscritto con un incredibile viaggio in Africa, che nel finale ha toccato Botswana e Zimbabwe ma che per gran parte si è svolto interamente in Namibia. Tra oceani, deserti, safari, cascate e canyon ho avuto modo di apprezzare paesaggi naturalistici da lasciare senza fiato, solo in parte documentabili dalle foto che ho pubblicato su Instagram e Facebook. Un viaggio del genere è un’esperienza unica e indimenticabile, che consiglio a chiunque almeno una volta nella vita.

Come avrete capito la mia non è stata una vacanza all’insegna della birra, eppure gli stimoli da quel punto di vista non sono sicuramente mancati. In primis considerate infatti che la Namibia – cioè la terra in cui si è concentrata gran parte del mio viaggio – è un paese dalla discreta attitudine birraria: secondo i dati del 2012 è la terza nazione africana per consumi pro-capite e la trentanovesima in termini assoluti, superando di gran lunga l’Italia in questa speciale classifica (40 litri a testa contro i nostri 29). La causa è da ricercarsi nella dominazione tedesca iniziata alla fine del XIX secolo e protrattasi, insieme a un’influenza di stampo anglo-sudafricano, fino al 1990, anno d’indipendenza della Namibia. Non è dunque un caso che oggi lo stato subsahariano sia una meta turistica privilegiata per i tedeschi e che la cultura della Germania sia rintracciabile in diversi aspetti della società.

Il mercato locale della birra è dominato dai prodotti industriali della Namibia Breweries Limited, un colosso che ha nei marchi Windhoek Lager e Tafel Lager i prodotti più facilmente rintracciabili alla spina e in bottiglia. Nonostante non si discostino dalle più classiche (e anonime) interpretazioni di Lager commerciali, è interessante notare che tutte le creazioni della Namibia Breweries rispettano i dettami dell’Editto della Purezza tedesco. Nel mio peregrinare tra deserti e safari sono incappato più volte nella Tafel Lager, anche perché l’unica volta che ho cercato un prodotto un po’ più particolare mi sono scontrato con l’improponibile Urbock, una Bock di un caramelloso a dir poco stucchevole.

Ma da buon beer hunter ho voluto cercare qualcosa di più sfizioso di semplici Lager industriali, riuscendo nella difficile impresa di bere birra artigianale anche in Namibia 🙂 . Difficile perché in tutto il paese esiste un solo birrificio craft: si tratta di Camelthorn, situato nella capitale Windhoek. Sapevo che i suoi prodotti sono generalmente disponibili alla spina al ristorante Joe’s Beerhouse, quindi potete immaginare il mio entusiasmo quando ho effettivamente trovato la loro Weizen nel menu del locale. Peccato che quel giorno l’impianto spine fosse staccato, obbligandomi a virare su un’industriale in bottiglia.

Il riscatto è arrivato qualche giorno dopo per merito del Sudafrica, quando nel reparto “top” di un Despar di Windhoek ho trovato un’ampia selezione di birre artigianali sudafricane. Ora sapevo che nella nazione africana più meridionale era attivo qualche produttore craft – in passato citai anche il progetto Bierwerk di Christian Svokdal Andersen – ma mai avrei immaginato che si trattasse una scena così frizzante da riuscire a esportare le proprie creazioni anche negli Stati confinanti. Informandomi a posteriori ho invece scoperto che in Sudafrica sono attive decine di birrifici artigianali, tanto che possiamo parlare di un fenomeno quasi paragonabile a quello di altre realtà emergenti nel resto del mondo.

In ogni caso dopo qualche nanosecondo dalla mia scoperta ero già di ritorno dal supermercato con tre bottiglie da stappare: English Ale di Copperlake, Pilsner di Cape Brewing Co. e City Street Ipa di Big City Brewing. L’ultima attualmente riposa nel frigorifero di casa, mentre le prime due sono durate giusto qualche ora: la sera ero già pronto ad assaggiarle insieme ai miei compagni di viaggio. Le bevute però sono state tutt’altro che soddisfacenti, rivelando produzioni lontane da un livello qualitativo accettabile e neppure molto ben inquadrate nello stile di riferimento. Rimane da provare l’ultima del terzetto, ma l’impressione è che il movimento sudafricano abbia ancora molta strada da fare.

Questo il mio veloce – e non poteva essere altrimenti – resoconto della parte birraria della mia vacanza in Africa. E voi siete mai stati in Namibia? Vi è mai capitato di bere birra artigianale del Sudafrica? Intanto vi lascio con qualche foto a tema della vacanza…

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L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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4 Commenti

  1. Giuseppe Vigorita

    Sono appena tornato da un meraviglioso viaggio in Kenya. Sinceramente non mi è passata per la mente di cercare craft beer, ma ho avuto una bellissima esperienza nel bere vino di cocco!
    Il vino di cocco si trova in due versioni, “fresco” appena raccolto dalla palma, e fermentato un giorno… ho trovato la seconda versione e ho avuto delle piacevoli sensazioni. La fermentazione è spontanea e ci sono tantissimi richiami olfattivi al mondo dei lambic, anche se gli odori e le sensazioni olfattive e boccali sono molto più lattiginose, oltre ad un sapore molto sapido e minerale.
    Lo consiglierei a tutti gli avventurieri, il vino di cocco infatti non si trova in bottiglia, ma bisogna cercarlo direttamente nei villaggi vicino alle piantagioni di palme da cocco, o magari farselo procurare dai beach boys.

  2. La Urbock di Hansa te la invidio: sarà pure una schifezza come dici ma è una delle poche birre recensite da MJ in “500 birre” che mi manca… prima o poi anche io dovrò fare un salto nel continente nero per rimediare ! Io quest’anno sono andato sul sicuro e mi sto concedendo grandi bevute (e qualche delusione) negli USA. 4 flash:
    1) Dock Street di Philadelphia e Oliver Brewing di Baltimora lavorano maledettamente bene;
    2) la Triple di Stoudt’s e la Damnation di Russian River si sono rivelate spettacolari (e pure le Dogfish 60 e 90 bevute qui sono lontane parenti delle bottiglie che arrivano in Europa totalmente ammazzate negli aromi);
    3) sempre parlando di Russian River mi aspettavo molto di + dalla Pliny the Elder;
    4) la Spencer (trappista americana) si attesta su livelli medio-bassi a dimostrazione che con i nuovi ingressi (Tre fontane comprese: mi dispiace dirlo) il livello medio del club sta proseguendo la china discendente già iniziata con gli austriaci.

    • Se sapevo che per te era così importante te ne riportavo una bottiglia dalla Namibia 🙂 Comunque complimenti per il quasi en plein del libro di MJ

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