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Viaggio al centro della birra: undicesimo episodio

logohibuDopo le visite a Extraomnes e Bi-Du, intervallate da un pranzo veloce al Birrificio Italiano, il Viaggio al centro della birra di Marcello Mallardo continua a muoversi all’interno dei confini lombardi. La sua nuova tappa è il birrificio Hibu, giovane produttore che solo recentemente è passato dallo status di beer firm a quello di vero e proprio birrificio. Proprio questo aspetto permetterà a Marcello di approfondire il discorso sui produttori senza impianto di proprietà, scoprendo quali insidie nasconde il fenomeno e cosa significa passare da una produzione affidata a contoterzisti a un controllo totale su tutto il processo produttivo. Anche questa esperienza sarà importante nell’ottica della futura apertura di un suo birrificio.

Viaggio al centro della birra: Hibu

Questo primo round di visite milanesi volge al termine prima del mio ritorno a Roma. Sono sicuramente tanti i luoghi che avrei voluto visitare e le realtà con le quali avrei voluto confrontarmi ulteriormente: la Lombardia è sicuramente la meta perfetta in Italia per chi, come me, volesse intraprendere questo viaggio. Nella scelta dei luoghi da visitare mi sono fatto condurre dalla voglia di bilanciare realtà più giovani a birrifici più consolidati e dalla possibilità di conoscere nuove persone che avessero, a mio avviso, qualcosa da trasmettere.

La storia dell’Hibu comincia, come per molti, dall’homebrewing. Gianluca, Raimondo e Lorenzo, spinti come tutti noi dall’amore folle per questa “bevanda”, decisero di debuttare nel panorama birraio italiano come beer firm, prima di trasformarsi in birrificio a tutti gli effetti.

Una breve digressione su questa tipologia d’attività mi sembra d’obbligo, considerata la dimensione che il fenomeno ha assunto negli ultimi anni. La beer firm non ha un proprio impianto di produzione, ma produce presso terzisti. Il panorama delle beer firm italiane (circa 70 imprese) delinea diverse tipologie di attività:

  • Birrai senza birrificio che seguono in tutto e per tutto la fase produttiva pur non avendo la proprietà degli impianti.
  • Imprenditori o appassionati che affidano una propria ricetta a un contoterzista ma non seguono, se non sporadicamente, le fasi produttive.
  • Imprenditori o appassionati che affidano in tutto la produzione ai terzisti occupandosi esclusivamente della distribuzione.
  • Gypsy Brewers che si affidano a diversi contoterzisti per elaborare e strutturare prodotti differenti.

I ragazzi dell’Hibu hanno decisamente fatto parte della prima categoria, fin quando hanno deciso di compiere il grande passo: abbandonare il proprio lavoro (indovinate da che settore provengono…) e investire sudore, soldi e passione nel proprio birrificio.

Gianluca mi conferma che le marginalità di una beer firm sono abbastanza ridotte e non permettono da sole di generare ricavi tali da arrivare a coprire l’investimento del birrificio. La loro esperienza da “birrai senza tetto” ha però avuto sicuramente degli aspetti positivi legati alla crescita d’esperienza nelle varie fasi della filiera birraria e alla presa di coscienza che questo era davvero il percorso che volevano intraprendere.

Il passaggio da firm a birrificio non nasconde diverse insidie, soprattutto dal punto di vista burocratico, e su tale argomento ormai ci sarebbe da scrivere un saggio più che un semplice articolo. Spesso i microbirrifici italiani si devono infatti confrontare con normative poco chiare e scarsa preparazione degli organi competenti. Fortunatamente quest’ultimo aspetto si sta progressivamente alleviando grazie all’esperienza che i funzionari stanno guadagnando nel settore.

Se la burocrazia è un problema con il quale ogni imprenditore, soprattutto in Italia, deve necessariamente confrontarsi, alcuni aspetti critici della gestione del birrificio non possono che arrivare con l’esperienza. Nessun homebrewer, ad esempio, penserebbe mai che lo smaltimento del lievito possa rappresentare un costo, abituato al classico fondo che si forma nei fermentatori da 50 lt. Diverso il discorso per i fermentatori professionali, che generano un fondo considerato a tutti gli effetti rifiuto industriale (passatemi il termine!).

Se è vero, come ha detto James Watt (fondatore di Brewdog ndr) in una recente intervista, che non dobbiamo perdere anni sui business plan e intraprendere le avventure senza porsi troppe domande, è altrettanto vero che in Italia non possiamo permetterci tanti errori e dobbiamo cercare di prevedere tutto il possibile. Non a caso il birrificio Brewdog è scozzese, non certo italiano.

Quindi, una volta di più, si rinnova la necessità di pianificare ogni minimo aspetto dell’apertura di un birrificio e non dare niente per scontato. Quello delle beer firm può rappresentare un passaggio utile e formativo, ma ricordandosi sempre che, al di là dei facili entusiasmi, nasconde una serie di ostacoli spesso molto ardui.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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7 Commenti

  1. ciao, vi seguo da un po’, complimenti per il sito. ma le birre in questione com’erano in questo caso?

  2. Ciao,
    questi step sono un po scarni di informazioni.
    Dall’articolo ad esempio non mi sono fatto un’idea neanche minima sul discorso beer firm.
    La beer firm in questione a che birrificio si appoggiava? I costi per questo tipo di attività? E’ difficile trovare un birrificio su cui appoggiasi? La birra rimaneva nel sito del produttore fino all’imbottigliamento e poi, una volta imbottigliata, passava nelle mani della beer firm che doveva pensare alla distribuzione?
    I margini sono pochi, tipo? Qualche cifra sarebbe interessante.

    Ciao

    Carlo

    • Le birre sono state fatte in due diversi birrifici nella zona di Brescia. ai tempi in cui siamo partiti come beer firm nell 2007 fino al 2009 i birrifici che facevano questo tipo di servizio non erano molti , come non erano molti gli stessi birrifici artigianali.
      Ora la cosa é piu facile da realizzazre in quanto il nr dei birrifici é molto piu alto e credo anche la voglia e la disponibilità sono completamente cambiate.
      Una volta che la birra era pronta la ritiravamo e la vendavamo, questo comportava avere un mini deposito dove stoccare le scatole e un furgoncino per le consegne.
      Per quanto riguarda i costi, non é certo la sede corretta dove parlarne; a questo si aggiunge che ci sono mille variabili di cui si potrebbe parlare per la definizione dei prezzi, partendo dal presupposto che chi si fa produrre 10 Hl ovviamente ha prezzi diversi da chi se ne fa fare 1000Hl. Ma che senso avrebbe produrre 1000Hl per altri? o farsi produrre 1000Hl da altri?

  3. Rispondo per ordine:
    -nei miei interventi Su cronache ho sempre evitato di parlare delle birre.
    di giudici è pieno il mondo e questo paese in particolar….Nn Mi Va di allungare la lista.
    Ti consiglio di cercarle e giudicare da te. una bevuta di birra di qualità non può Che far bene.
    -Mi dispiace non esser stato esaustivo sui numeri e cercherò di provvedere quanto prima incontrando chi è ancora protagonista come beer firm e ha catturato la mia e l attenzione di molti. stay tuned.
    Se Hai domande specifiche le cui risposte non possono attendere puoi contattarmi via mail.

  4. mah, vabbè, sarebbe stato solamente un solo tuo giudizio personale! (anche nella scorsa puntata hai comunque accennato alle birre “pericolosamente beverine” di BI-Du), comunque non conoscevo questa tua “regola”, che capisco, quindi direi che le assaggerò! 😉

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