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Avremmo potuto evitare la morte della Ruination IPA di Stone?

07-0211Il birrificio Stone è uno dei più apprezzati produttori americani, forse tra i primi ad aver trasformato il luppolo da semplice ingrediente a potente strumento di marketing. Molte delle sue birre hanno segnato un’epoca, acquisendo lo status di produzioni mitologiche: probabilmente la più famosa in assoluto è la Arrogant Bastard Ale, una birra “bastarda” ed aggressiva non solo nel nome, nata nel lontano (birrariamente parlando) 1997 e ancora vista come un totem da tanti appassionati di tutto il mondo. Da quasi vent’anni la Arrogant Bastard è un’icona della “craft beer” americana, dimostrando una longevità incredibile. Tuttavia il mercato della birra artigianale è decisamente mutevole e così la longevità di un prodotto può interrompersi improvvisamente. È ciò che è accaduto a un’altra pietra miliare di Stone: la Ruination IPA, che per voce della stessa azienda non sarà più brassata. Ma perché un birrificio dovrebbe rinunciare a un suo marchio di punta?

La risposta alla domanda è molto semplice: perché non è più un marchio di punta. È su questo aspetto che qualche giorno fa si è concentrato un articolo di Lindsay Bohanske su Love Beer, Love Food, rilanciato in Italia dalla pagina Facebook del sempre puntuale Brewing Bad. Alla notizia della morte dell’amarissima Ruination, Lindsay afferma – non senza ironia – di essere passata per le cinque fasi di elaborazione del lutto, alla quale ne è subentrata una sesta: quella della colpevolezza. Colpevolezza per non ricordare l’ultima volta che ha bevuto una Ruination, colpevolezza per non aver acquistato con costanza quella che ritiene essere (stata) una birra grandiosa.

Chiaramente far ricadere le responsabilità della cancellazione di una birra sui consumatori è una provocazione e rientra nello spirito dell’articolo, tuttavia si fonda su una considerazione di base impossibile da confutare: la scelta di Stone non nasce da un capriccio del momento, ma da una profonda analisi dei dati di vendita della Ruination. Perciò secondo Lindsey le scelte dei consumatori sono importanti anche per supportare i grandi classici brassicoli, per tutelarli insomma dalle pesanti perturbazioni che possono verificarsi in un ambiente in grande fermento. Su questo aspetto torneremo più avanti, intanto però cambiamo punto di vista e vediamo come Stone ha annunciato la notizia.

Dal blog del birrificio americano scopriamo innanzitutto che la Ruination ha sì terminato la sua vita, ma anche che tornerà sotto una veste diversa in futuro, con il nome di Ruination 2.0. Difficile pensare infatti che Stone rinunciasse a un brand così identificativo, ma l’impressione è che ci troveremo di fronte a una birra totalmente diversa – da qui la giustificazione nel considerarla finita per come oggi la conosciamo. Stone spiega nel dettaglio i motivi che hanno portato a questa decisione, sebbene (comprensibilmente) non venga mai fatto cenno alle vendite della birra:

[…] Quando lanciammo la Ruination IPA per la prima volta…

  • Era disponibile un numero decisamente più basso di luppoli con un alto grado di alfa-acidi rispetto a oggi.

  • Dovevano ancora essere inventate tantissime tecniche di estrazione degli aromi di luppolo.

  • I nostri palati erano meno abituati ad assalti di luppolina e pensavamo di aver raggiunto il livello massimo di IBU.

  • Il gusto dei consumatori di birra craft, come il nostro, non aveva ancora raggiunto la sua massima evoluzione.

Quindi i motivi indicati da Stone sono la conseguenza di un mercato decisamente cambiato rispetto al 2002 (anno di lancio della Ruination), sia dal punto di vista dei consumatori, sia da quello delle tecniche e degli ingredienti disponibili. Possibile che in 13 anni il mercato della birra craft americana sia mutato così nel profondo? Evidentemente sì. Basti pensare quanto l’amaro sia diventato il mantra da seguire per la gran parte dei produttori: se Stone in passato fu uno dei pionieri in questo senso, oggi è solo uno dei tanti birrifici che punta a catturare bevitori a suon di IBU.

E chiaramente il discorso può essere tranquillamente esteso all’Italia. Anche io nutro un certo affetto per la Ruination, che risale a un Great British Beer Festival di diversi anni fa. Fu in quell’occasione che la provai la prima volta al “bar” delle birre americane: l’assaggio elevò il mio concetto di birra amara verso nuovi confini, esplorati in precedenza solo in parte. Era il 2007 e le birre amare, almeno da noi, ancora non erano così popolari. Sarebbero passati ancora alcuni anni prima dell’esplosione delle IPA, del pubblico dominio del concetto di “unità d’amaro”, delle IBU usate come strumento di marketing. Negli USA quel fenomeno era già in atto, ma da noi sarebbe nato solo un po’ di tempo dopo.

Morale della favola, oggi probabilmente una Ruination IPA mi farebbe molto meno effetto. O meglio, mi farebbe effetto per essere una birra eccezionale, non certo per la sua clamorosa componente amaricante. L’inflazione del livello di unità d’amaro, il proliferare di birre con centinaia (se non migliaia) di IBU, lo spostamento del mercato verso prodotti sempre meno dolci ha avuto effetti aberranti. Si è creato un circolo vizioso, alimentato a tutti i livelli della filiera, per cui in questo trionfo dell’amaro si è perso di vista l’unico criterio che dovrebbe avere senso: ritrovarsi con una birra buona nel bicchiere. Questa isteria collettiva è come se avesse “annacquato” il segmento delle birre luppolate (e il gusto dei consumatori): nella rincorsa ossessiva alle IBU ci siamo dimenticati di prodotti che hanno scritto la storia della tipologia e che avrebbero meritato un posto d’onore al Louvre – sì ok sto esagerando 🙂 . Invece grandi classici come la Ruination finiscono per soccombere, oppure tornano in una veste totalmente cambiata.

È la legge del mercato, mi si obietterà. E posso anche essere d’accordo, ma non sempre è facile accettarla. Da questo punto di vista la provocazione di Lindsay Bohanske acquista senso, perché è difficile non colpevolizzarsi quando scompare un marchio al quale eravamo affezionati. La mia convinzione è che sia tutta un’illusione e che arrestare la marea dei cambiamenti nel settore è impossibile, però vicende del genere potrebbero farci riflettere sulle nostre scelte al pub o al beershop di turno. Rincorrere le ultime novità del mercato è spesso un modo per frenare la nostra sete di nuovo, così come seguire le mode può assecondare la nostra pigrizia. Però ogni tanto può avere senso entrare in birreria e chiedere quella birra a cui siamo affezionati da tempo, quella che diamo sempre per scontata. Non tanto per salvarla dall’oblio, quanto per la personale gratificazione di sorseggiare una birra a cui siamo profondamente legati.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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12 Commenti

  1. Mi auguro di non assistere mai alla scomparsa della Westmalle Tripel, della Rochefort 10 o della Saison Dupont, ma alla dipartita della Ruination IPA si può sopravvivere più facilmente.

  2. io penso che in fondo la Ruination sia vittima della stessa identità con cui è nata. se l’immagine che ti sei costruito, o che ti hanno costruito, è quella di essere “più”, arriverà sempre un “più” superiore: più amara, più acida, più alcolica… altre birre che hanno un’identità costruita non su un singolo fattore misurabile più o meno, ma su una più complessa serie di fattori, hanno e avranno una vita più lunga nelle gole dei consumatori. in fondo è accaduto questo: la Ruination è divenuta una birra facilmente sostituibile nei gusti di un certo segmento di consumatori, e probabilmente oltre a essere sostituibile c’è anche di meglio. sarà poco romantico, ma è molto sano

    • La Ruination non la bevo da anni, ma siamo sicuri che oltre ad essere stata sostituita da qualcosa di più amaro, è stata sostituita anche da qualcosa di più buono? Il punto è tutto qui: se i consumatori seguono la rincorsa ossessiva dei produttori al “più” amaro|acido|dolce|alcolico, perdendo di vista la qualità finale del prodotto, è un grave problema.

      • indubbiamente sì. basterebbe un ragionamento statistico: ai tempi della Ruination probabilmente il numero di AIPA e affini era (a essere conservativi) 10 volte inferiore a oggi. difficile non ce ne sia in giro un’altra quantomeno dello stesso livello. c’è poi la questione per cui, a mio parere dai pochi assaggi negli ultimi anni ma soprattutto della comunità di appassionati americani, Stone negli ultimi anni si sia piuttosto appiattito da un punto di vista qualitativo: non che sia monnezza eh, ma non vai di sicuro a San Diego per bere Stone se capisci un minimo di birra, anche se la prima volta un giro lo fai d’obbligo. quindi se tutta l’identità del tuo prodotto è quella di essere “più” e ne escono ancora “di più” e in più il tuo prodotto non è superiore ad altri, anzi, finisce per perdere colpi. la Pliny per esempio è ancora lì

    • Siamo sicuri sia questa la chiave di lettura ? Ad esempio la Uthopias è nata – dichiaratamente – coma la birra + alcolica del mondo, ma sebbene sia stata superata nel primato di gente che spende 250 dollari a boccia ce n’è ancora (poi magari verrò smentito domani dall’annuncio della messa fuori produzione…). Più probabile – e qui concordo con te – il discorso della sostituibilità: specie oltreoceano – oddio non è che in Italia si scherzi – le IPA sono forse lo stile più diffuso e senz’altro esistono IPA migliori di quella di Stone che hanno determinato la crisi dei volumi di vendita e la necessità di passare alla versione 2.0 per beneficiare dell'”effetto novità” che nel breve periodo favorisce le vendite.

  3. La ruination aveva una amarezza notevole per l’epoca… e probabilmente continua ad averla nonostante i riferimenti siano cambiati. è più vittima dei luppoli “esotici” che altro. Gli hophead vogliono sentire tanto nelle ipa ormai; di certo l’equilibrio è diventata una componente secondaria.
    La pale ale (altra vittima) è forse anche più significativa come esempio.
    Poi, come diceva l’articolo, la enjoy by ha praticamente eroso buona parte del suo mercato, garantendo, oltre che una ricetta più moderna, anche una maggiore freschezza.

    Peccato, nel loro genere (pale ale, ruination e self) erano davvero dei classici.

  4. Francesco snfrkr

    Credo, ma anche spero in un certo senso, che tutta questa storia sia una già vista trovata commerciale. Mi spiego. Si toglie dal mercato un prodotto quando è in una fase di stallo delle vendite. Se ne decantano le lodi e si piange per la sua dipartita commerciale. Il tutto per far salire la nostalgia/curiosità dei vecchi e nuovi consumatori. Poi si reimette nel mercato sperando vada più forte di prima!
    Detto ciò trovo che la morale dell’artico sia un mantra che deve guidarci non solo nella scelta della birra: bevi quello che ti piace, senza farti trasportare sempre e troppo dal PIù!
    P.s.mi perdonerete per il paragone stonato, ma il mio “già visto” è riferito a quel famoso gelato confezionato dal sapore stucchevolmente dolce e con un orso bianco come simbolo!

  5. Conoscendo Greg, mi sa che c’entra più l’impianto nuovo, lo sbarco a Berlino e la relativa semplificazione (=riduzione costi) di una birra. Trovo onesto che cambi la birra in una versione 2.0 dichiarando che “pensiona” quella precedente, invece di continuare a chiamarla con lo stesso nome modificandone la ricetta, sostenendo poi che è sempre la stessa…

  6. Io credo ci sia anche da considerare la componente “esplorativa” di molti appassionati di birra artigianale.
    Conosco tanti appassionati, me compreso, che di fronte alla scelta tra una birra ottima ma conosciuta e una mai provata prima (ma magari con buone referenze su ratebeer o chi per lui) propendono quasi sempre per la seconda. Non è una questione di vanto o che, è proprio che la curiosità è una brutta bestia.
    Per questo, in fondo, non mi stuperei nemmeno se la Ruination 2.0 fosse in realtà uguale identica alla vecchia versione.

  7. potrei fare un quadro con questa frase:

    “L’inflazione del livello di unità d’amaro, il proliferare di birre con centinaia (se non migliaia) di IBU, lo spostamento del mercato verso prodotti sempre meno dolci ha avuto effetti aberranti. Si è creato un circolo vizioso, alimentato a tutti i livelli della filiera, per cui in questo trionfo dell’amaro si è perso di vista l’unico criterio che dovrebbe avere senso: ritrovarsi con una birra buona nel bicchiere.”

  8. Proprio vero..
    Ad ogni modo credo di essere un nostalgico, visto che preferisco di gran lunga le IPA/APA “aroma antico” rispetto alle tempeste tropicali d’oggigiorno..

    Poi la ruination, ad esempio non ho fatto a tempo ad assaggiarla, sigh!!

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