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La storia di Carlsberg per la sua crafty: recuperato il lievito della Lager del 1883

Qualche giorno fa sul gruppo Facebook Analfabeti della birra – decisamente più autorevole di quanto il nome potrebbe suggerire – è stato linkato un articolo con cui l’Independent racconta l’ultimo prodotto lanciato da Carlsberg, uno dei più importanti gruppi birrari del mondo. La novità si chiama Re-brew e neanche a dirlo rientra nell’ormai numerosa schiera delle birre crafty, realizzate cioè dalla grande industria ma con il linguaggio ed elementi di marketing tipici del segmento artigianale. Come accaduto in tempi recenti con la H41 di Heineken, vale la pena approfondire il discorso per capire fino a dove si stanno spingendo le strategie di camuffamento delle multinazionali e se, nel pieno del fenomeno, cominciano ad avvertirsi momenti di stanca e perdita di creatività, se così vogliamo chiamarla.

In effetti ho menzionato la H41 di Heineken non a caso, visto che anche per Carlsberg la chiave di volta della sua nuova creazione è il lievito. Ma mentre il colosso olandese afferma di aver utilizzato un raro microrganismo della Patagonia di recente scoperta, qui siamo al cospetto della rigenerazione di un antico lievito, lo stesso presente in alcune bottiglie di Carlsberg risalenti al 1883. Tutta l’operazione consiste dunque nella riesumazione di un’antica ricetta del birrificio, che per inciso fu una delle prime birre a bassa fermentazione della storia: una tecnica comunicativa che in chiave crafty è già stata adottata da Guinness per le sue due Porter old-style, ma che ha riguardato anche altre multinazionali.

Rispetto a Guinness, però, Carlsberg ha creato intorno a questa manovra un vero e proprio racconto. Il video realizzato per l’occasione è una via di mezzo tra un documentario e un cortometraggio, nel quale ampio spazio è lasciato alle dichiarazioni del birraio Erik Lund. Perciò anche qui, come in tanti casi analoghi, la multinazionale non solo rivela improvvisamente al mondo l’identità del suo head brewer, ma lo eleva a protagonista nel più classico tentativo di imitare i linguaggi e le consuetudini del mondo artigianale.

Come per H41, anche Re-brew sarà una tiratura limitata (solo 600 bottiglie) e avrà il suo bel packaging vintage: bottiglia dalla forma non comune, etichetta vecchio stile con tanto di firma del birraio (già vista proprio sulla H41), claim imponente ma non particolarmente ispirato (“La madre delle Lager di qualità”). Da notare il lavoro compiuto da Carlsberg per coinvolgere diversi esponenti del movimento birrario internazionale, alcuni dei quali legati a una corrente più espressamente craft. Cito ad esempio Martyn Cornell, Garrett Oliver, Stephen Beaumont e Jay Brooks. Una mossa furba e interessante da parte del colosso danese.

Secondo l’articolo dell’Independent, la birra è molto diversa da qualsiasi altra a marchio Carlberg:

Il carattere del lievito si avverte già all’olfatto con note terrose e di pane appena bruciato […] al palato si scorgono sfumature dolci e resinose accompagnate da un corpo medio […] nel retrolfatto si avverte un tono speziato riconducibile a liquirizia e cannella.

Al di là della descrizione organolettica, questa Re-brew va secondo me presa per quella che è: l’ennesimo tentativo dell’industria di rincorrere il successo della birra artigianale con un prodotto che ne imita molti concetti. Questa volta all’operazione puramente commerciale si aggiunge uno studio di recupero di un’antica ricetta, scelta che, sebbene ispirata da calcoli meramente economici, aggiunge un certo interesse a tutto il contesto. Non è la mossa che può infervorare gli animi degli appassionati di birra più intransigenti, ma sulla carta restituisce un minimo di dignità al prodotto – ammettendo però che dietro ci sia uno studio veritiero.

Con la Re-brew siamo quindi al cospetto di una crafty più decorosa rispetto ad altre concorrenti, almeno dal punto di vista dell’idea di partenza? Sembrerebbe di sì, ma c’è un ulteriore dettaglio da aggiungere per avere una visione completa della situazione. E questo dettaglio – che poi dettaglio non è – si chiama prezzo: ebbene la Re-brew sarà venduta al pubblico per la modica cifra di 13 sterline, un’enormità difficilmente giustificabile da un prodotto del genere e da un’industria delle dimensioni di Carlsberg. Quel poco di buono costruito intorno alla birra tende allora a scomparire di fronte a un presupposto del genere.

Soppesando tutti gli elementi, dunque anche questa Re-brew appare l’ennesima mossa speculativa delle multinazionali nei confronti di un segmento in forte ascesa. Se da una parte si avvertono sforzi infusi per costruire una narrazione (con elementi anche interessanti, bisogna ammetterlo), dall’altra non passano inosservate soluzioni già individuate da alti competitor in passato. Segno forse che anche questa nuova moda è destinata a morire, così come accaduto per le Radler o per le birre femminili. Personalmente parlando, più che una previsione è un auspicio.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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5 Commenti

  1. Il prezzo in effetti sembra esagerato: con 13 sterline vado diretto su Lost Abbey, altro che Carlsberg !
    Però va dato atto che Carlsberg ogni tanto qualcosa di decente lo fa uscire (cosa che per Heineken non posso invece affermare…).
    In Italia abbiamo una visione limitata, ma in Danimarca producono una Porter (in realtà una Imperial Stout) che personalmente trovo valida e che comprerei volentieri se la trovassi qui: ed anche la linea premium prodotta sempre per il mercato danese (Jacobsen) ha un paio di prodotti (la porter, su tutti) che una buona sufficienza la raggiungono. A scanso d’equivoci: nulla che faccia gridare al miracolo, certo, però con questi presupposti non è detto che la Re-brew sarà necessariamente una schifezza…

  2. Secondo me in questo (e dico questo specifico) caso non c’entra la storia del “crafty”. Ho seguito questa vicenda a suo tempo – ormai qualche mese fa – sui blog di martyn cornell e ron pattinson, quello che ha fatto Carlsberg in questo caso non è stato semplicemente ripescare un vecchio lievito e una vecchia ricetta per fare una birra del tipo “wow, ecco la buona vecchia birra fatta come vuole la tradizione”. Hanno tentato di riprodurre con tutti gli accorgimenti possibili quella che poteva verosimilmente essere una birra prodotta a fine xix secolo: recuperando dei lieviti da bottiglie carlsberg conservate intatte per oltre cento anni (cioè cimeli da museo molto costosi); maltando appositamente l’orzo (una vecchia varietá) con tecniche simili a quelle dell’epoca (e sono cambiate, nessun maltificio per ovvie ragioni lavora più come un secolo fa); addirittura facendosi produrre delle botti con non so quale legno baltico che allora si usava e che nessun industria si sogna più di impiegare…
    La domanda che ci si può fare allora può essere un’altra: qual’è il senso di tutto questo dispendio di risorse (tanto più che la birra, assaggiata dagli invitati al mega-evento di presentazione, è stata giudicata appena appena deludente, comunque nienre affatto entusiasmante…) per produrre soltanto una costosa curiosità per “feticisti”? Chiaramente è un discorso di immagine, ma non di immagine “crafty”: anche perché non c’è nessun birrificio craft/artigianale indipendente al mondo che possa imbarcarsi in un impresa del genere. Non a caso, l’altra birra “storica” di più recente uscita – la stock pale ale di goose island, prodotta con la collaborazione di pattinson – è uscita da un birrificio passato nelle mani di un gigante (Ab-inbev? Non ricordo…).

    • Che dietro la Re-brew ci sia un lavoro di ricerca e realizzazione importante nessuno lo mette in dubbio, ma bisognerebbe chiedersi perché Carlsberg abbia deciso di imbarcarsi in un’avventura del genere proprio in questo momento, cioè nel pieno del successo della birra craft. Sicuramente non è un’operazione commerciale di bassa lega – e questo è un punto a suo favore – ma sarebbe ingenuo escludere completamente che ci sia la voglia di riproporre i linguaggi del segmento artigianale. Quindi secondo me rimane crafty, magari nell’accezione meno penalizzante del termine, ma tant’è. Sulle motivazioni per un’operazione del genere se ne potrebbero elencare almeno una decina.

  3. Perchè tutti “microbirrifici” aperti in italia da 5 anni a oggi che hanno aperto a fare se nn per sfruttare la moda del momento….che fra un po’ finirà

  4. A me piacciono moltissimo alcune Jacobsen

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