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Le birre italiane più influenti di sempre – Parte III

Quali sono le birre italiane che hanno segnato la storia del movimento nazionale in questi primi 20 anni (e rotti) di vita? È una domanda alla quale abbiamo provato a rispondere con un reportage a puntate, che oggi arriva al suo terzo capitolo. In passato abbiamo inserito in questo speciale elenco Tipopils (Birrificio Italiano), Super (Baladin), Malphapana (Soci dea Bira) e Utopia (Troll + Bi-Du), e poi ancora BB10 (Barley), Panil Barriquée (Torrechiara), Pioneer Pale Ale (Rome Brewing Co.) e Ghisa (Lambrate). Ora è giunto il momento di riprendere il viaggio, ma con il solito avvertimento: la lista che segue non solo è frutto di una selezione puramente personale, ma possono tranquillamente comparirvi etichette poco conosciute oppure ritirate da tempo dal mercato. Il filo conduttore però è sempre lo stesso: presentare birre che in qualche modo hanno lasciato il segno nell’ambiente della birra artigianale italiana.

Xyauyù – Baladin

Può una birra unica nel suo genere essere definita influente? In passato avrei escluso la Xyauyù (14%) da questa rassegna, ma ammetto di aver cambiato idea: a ben vedere un prodotto può lasciare il segno nel mercato anche se è di fatto irriproducibile, e dunque impossibilitato ad alimentare un nuovo trend brassicolo. In effetti la “birra da divano” di Baladin è una chicca priva di qualsivoglia imitazione in Italia e nel resto del mondo; una produzione che gioca sulle ossidazioni e le spinge verso estremi assoluti, caricandosi così di peculiarità organolettiche ineguagliabili. È impossibile non legare la sua genesi alla predisposizione di Teo Musso alla sperimentazione, ma anche alle passioni di suo padre, viticoltore ed estimatore di vini passiti e maderizzati. Da qui l’idea di creare un anello di congiunzione tra il mondo della birra e di un certo tipo di vino.

Come ricorda Una birra al giorno, la Xyauyù nacque nel 2004, ma le sperimentazioni (non sempre fortunate) cominciarono sin dal 1996, quando 500 litri di Super Baladin vennero lasciati per un anno in un fusto d’acciaio coperto in cortile. Gran parte dell’alcool evaporò e il risultato fu una birra leggerissima (2,6%), lontana dall’eccellenza ma dalle grande potenzialità aromatiche. Gli esperimenti continuarono finché Teo non perfezionò la ricetta finale: prima di lanciare questo innovativo prodotto organizzò un concorso popolare per deciderne il nome, ma alla fine fu battezzato come l’amica immaginaria della figlia. La Xyauyù arrivò sul mercato italiano e sconvolse tutti i bevitori dell’epoca con il suo profilo aromatico unico, dominato da eleganti ossidazioni – che di base ci si aspetterebbe di trovare in un Porto o qualcosa del genere – e da piacevolissime sfumature di ciliegia, cuoio e canditi.

In questi anni la Xyauyù è ulteriormente evoluta e Baladin ne ha prodotte diverse varianti: Xyauyù Barrel (affinata in botti di rum), Xyauyù Kentucky (con un’infusione a freddo di tabacco Kentucky effettuato in botti di rovere) e Xyauyù Fumé (dodici mesi di maturazione in botti di whisky scozzese). Nelle sue varie incarnazioni la Xyauyù è anche una delle birre più premiate nel concorso Birra dell’Anno di Unionbirrai, oltre che un trofeo da collezione da conservare (e consumare) come un pregiato distillato.

Spaceman – Brewfist

L’apertura di Brewfist risale a inizio 2011 (o al massimo a fine 2010) e quindi possiamo considerarlo un produttore relativamente giovane. L’anno di nascita quasi meraviglia se pensiamo alla fama raggiunta e alla solidità dimostrata in questi anni, ma soprattutto alla capacità di imporsi sul mercato con un approccio innovativo e diverso rispetto a tanti birrifici dell’epoca. Nel pezzo di presentazione che scrissi a febbraio 2011 sottolineai un aspetto interessante:

Un’azienda che si è subita imposta all’attenzione degli appassionati per una comunicazione aggressiva, che parte dal nome e dal logo, per poi declinarsi sulle birre e sulle etichette. Insomma si può correttamente inserirlo tra gli esponenti del nuovo corso italiano, rappresentato già da Bad Attitude e BSA, che intende la birra artigianale come una bevanda di qualità ma non elitaria, indirizzata a un pubblico giovane e lontana dal consumo nei ristoranti.

Era un periodo in cui gran parte della birra artigianale italiana seguiva ancora pedissequamente i cliché sui quali si era sviluppata: bottiglie da 75 cl e dalla forma ricercata, comunicazione piuttosto ingessata, packaging tutt’altro che essenziale. Brewfist si affacciò sul mercato con idee ben diverse: fu uno dei primissimi birrifici (se non il primo in assoluto) a proporre i suoi prodotti esclusivamente nel formato da 33 cl e a puntare su bottiglie anonime e su una grafica d’impatto. Queste scelte si sposarono a meraviglia con il fenomeno dei beershop di seconda generazione, che era in ascesa proprio in quel momento. Soprattutto a Roma questi locali intercettarono un pubblico inedito per la birra artigianale, composto da consumatori piuttosto giovani che erano soliti bere in loco e acquistare birra artigianale economica. Gli stili su cui puntò Brewfist, tutti di stampo anglo-americano, fecero il resto.

Per tanti giovani bevitori romani (e non) la Spaceman (7%), West Coast IPA di Brewfist e sua birra di punta, divenne un prodotto cult con cui avvicinarsi al mondo dei prodotti di qualità. Per essere riuscita ad attirare un pubblico nuovo e aver svecchiato l’immagine della birra artigianale nazionale, possiamo giustamente considerare la Spaceman come una delle creazioni brassicole più influenti nella storia del movimento italiano.

La Mummia – Montegioco

Se la Xyauyù di Baladin può essere considerata una birra unica nel suo genere, lo stesso si può affermare per la Mummia di Montegioco, uno dei capolavori del movimento birrario italiano e ancora troppo poco celebrata. Nonostante io l’abbia bevuta tante volte trovo sempre difficoltà nel descriverla: è una birra acida, ma diversa da qualsiasi altra Sour; è una birra affinata in legno, ma lontana dalle tante produzioni maturate in botte. Forse la definizione migliore l’ha data Manuele Colonna, secondo il quale può essere correttamente identificata dall’espressione “Session Sour”. L’impressione è proprio quella: una birra spaventosamente facile da bere, caratterizzata da una delicata acidità lattica e acetica e da un bouquet aromatico fresco, che si muove tra toni di agrumi, frutta gialla, cantina, legno e altro ancora. Niente di nuovo penserete, ma è il modo in cui queste note si innestano sulla base a determinare le peculiarità della Mummia.

A proposito di base, la Mummia nasce dalla Runa (la Blonde Ale di Montegioco) lasciata riposare per ben tre anni in botti ricondizionate di Barbera (Bigolla di Walter Massa). Sul blog del birrificio in realtà si parla anche di un blend di Tibir e Rat Weizen affinate in legno, mentre esistono diverse varianti di Mummia, come la T-Mummia e la McMummy, in base alla base utilizzata. Il nome è opera di Kuaska, ispirato dalla lungo riposo che questa birra subì nel suo “sarcofago” di legno. Lo stesso Kuaska aveva assaggiato i primi esperimenti insieme al birraio Riccardo Franzosi per mesi, finché non fu folgorato dall’evoluzione del prodotto quando ormai sembrava destinato all’oblio.

N°8 – Scarampola

La grande bioversità del nostro paese ha da sempre spinto i birrai italiani a creare ricette con ingredienti del territorio, usandoli come base fermentescibile – pensiamo ai cereali alternativi locali – o più spesso come aromatizzazione. È quasi impossibile risalire al birrificio a cui spetta la paternità di questa moda – forse a Baladin con la Mama Kriek – ma ebbe da subito grande successo e si diffuse velocemente, coinvolgendo molti produttori della prima ondata. Lo step successivo fu impiegare materie prime di grande pregio, come prodotti IGP e presidi Slow Food, con risultati non sempre egregi: il ritorno in termini d’immagine e comunicazione valeva comunque il tentativo.

Tra i primi presidi Slow Food a essere utilizzati c’è curiosamente il chinotto di Savona. Il ricorso ad aromatizzazione tramite agrumi non è inusuale nelle tipologie di stampo belga, in particolare nelle Blanche che la prevedono obbligatoriamente. Tra il 2004 e il 2005 furono lanciate sul mercato italiano due birre che utilizzavano questo agrume: la N°8 di Scarampola (una Blanche) e la Seson del Piccolo Birrificio di Apricale (una Saison speziata). Mentre la prima riportava (e riporta tuttora) il riferimento alla “certificazione” di  Slow Food, la seconda non la menzionava volontariamente per l’avversione del birraio Lorenzo Bottoni nei confronti dell’associazione piemontese. Se perciò dobbiamo identificare una birra che ha dato impulso alla moda degli ingredienti dell’eccellenza regionale italiana, vale la pena citare la N°8 di Scarampola.

E anche la terza puntata del reportage va in archivio. Siete d’accordo nel considerare queste quattro birre tra le più influenti d’Italia, in aggiunta a quelle raccontate nei due post precedenti?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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2 Commenti

  1. Io comunque il formato da 33 cl non lo sopporto proprio è_é

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