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L'Anchor cambia proprietà: fine del mito o inizio di una nuova era?

Da sinistra: Tony Foglio, Fritz Maytag e Keith Greggor
Da sinistra: Tony Foglio, Fritz Maytag e Keith Greggor

Se siete lettori abituali dei siti birrari stranieri, avrete notato che in questi giorni sta rimbalzando ovunque la notizia della vendita del rinomato birrificio americano Anchor. L’annuncio è stato accolto con grande enfasi perché questa azienda ha scritto la storia della birra artigianale negli Stati Uniti, proponendosi come tra le prime protagoniste della rinascita del settore in patria. Anche in Italia è un birrificio ben conosciuto, dato che non è difficile trovare i suoi prodotti in beershop e altri punti vendita specializzati. Molti hanno annunciato la fine di un’era, dando ormai per spacciato un marchio storico. Prima di recitare un requiem, cerchiamo di capire quali prospettive potrebbero concretizzarsi nei prossimi mesi…

Innanzitutto vale la pena spendere due parole sulla Anchor. Fondata nel 1870, è stata per molti anni una delle più importanti aziende brassicole degli USA, stabilimente tra i primi posti della classifica dei microbirrifici più grandi del paese. I successi sono stati costruiti con fare discreto e strizzando l’occhio alla tradizione. La Anchor è stato infatti il birrificio che ha riesumato l’antico stile delle Steam Beer, birre di origine americana prodotte con lieviti da Lager utilizzati a temperature da alta fermentazione. Rispetto alle mode recenti, la Anchor si è posta controcorrente: è rimasta fedele alla sua classica gamma di birre, senza sentire la necessità di sfornare una nuova produzione ogni settimana.

Nonostante il proprietario Fritz Maytag abbia sempre evitato i voli pindarici, a un certo punto la cessione dell’attività è diventata obbligata, a causa del reale rischio di fallimento sopraggiunto per la sua azienda. La proprietà è passata così in mano al The Griffin Group, che è guidato da Keith Greggor e Tony Foglio. I due sono imprenditori che operano da anni nel mercato delle bevande e che recentemente si sono attivati anche nel segmento della birra artigianale. Ai più attenti i nomi non suoneranno completamente nuovi: in effetti li avevo menzionati in passato, citandoli come “acquirenti di peso” delle quote della scozzese Brewdog.

Quando avvengono acquisizioni di questo genere, ci si interroga sempre sulle reali intenzioni dei compratori, perché il rischio di uno snaturamento del marchio – se non addirittura della sua scomparsa – è sempre in agguato. La storia della birra è costellata di esempi importanti, per questo motivo Fritz Maytag si è affrettato a rassicurare tutti gli appassionati:

La Achor Brewing Company vanta una storia lunghissima in San Francisco e l’ingresso di The Griffin Group sta per segnare l’inizio di una nuova eccitante era, pur conservando la nostra orgogliosa e prestigiosa storia. L’unione tra la passione di Keith e Tony per la Anchor e la loro grande esperienza nel settore significa solo che le future generazioni di San Francisco potranno continuare a gustare birra Anchor.

Il beneplacito del precedente proprietario e il background professionale dei nuovi acquirenti potrebbero essere argomenti sufficienti a tranquillizzare gli appassionati, ma non è così. Come ha fatto notare Jay Brooks, il passato di Keith Greggor e Tony Foglio è quantomeno contradditorio, visto che tra i loro maggiori successi c’è anche l’ascesa mondiale della Skyy Vodka, una delle bevande più commerciali in assoluto. Di conseguenza è naturale che si siano diversi timori di una futura alterazioni delle caratteristiche del marchio americano.

Per la verità, lo stesso Jay Brooks in queste ore ha rasserenato gli animi, dopo una cena in comagnia proprio di Keith Greggor: l’impressione è che si voglia mantenere inalterata l’anima del birrificio, anche se le novità non mancheranno. Così, se non sono previsti ridimensionamenti di personale, è però in programma un rafforzamento del reparto marketing, il che la dice lunga su eventuali cambi di prospettiva per l’azienda.

anchor-hummingInoltre, è presumibile che la gamma di produzioni standard del birrificio diventi più numerosa. Subito dopo l’annuncio della vendita, è infatti arrivata anche la notizia del futuro lancio di bottiglie della nuova Humming Ale. Si tratta di una Pale Ale stagionale prodotta con Nelson Sauvin (aridaje…), comparsa in modo intermittente in alcuni eventi speciali. A quanto pare la nuova proprietà l’ha trasformata immediatamente in una produzione standard, che sarà disponibile da agosto a novembre.

Come capita in questi casi, non resta che aspettare di vedere come andranno le cose. La verità è che rinunciare al birrificio Anchor per come abbiamo imparato a conoscerlo fino ad oggi è dura. Personalmente ho sempre apprezzato il profilo basso di questo produttore, la volontà di concentrarsi su pochi prodotti di alto livello e  non ultimo il prezzo delle sue birre. Sapere che posso entrare nel mio beershop di fiducia e acquistare un’ottima Liberty Ale a poco meno di 3 euro mi regala sempre un bel senso di sicurezza. Fino ad oggi Anchor è stato uno dei miei birrifici americani preferiti: la speranza è che rimanga tale anche negli anni a venire.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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19 Commenti

  1. Non direttamente collegato con Anchor, ma con Nelson Sauvin…

    Il luppolo in questione copre meno del 4% della produzione neozelandese. La Nuova Zelanda rappresenta lo 0,7% della produzione mondiale di luppolo (del quale 80% viene poi esportato). Quanto potranno sopravvivere le birre dichiaratamente caratterizzate da Nelson Sauvin?

    Fonte: http://www.reluctantscooper.co.uk/2010/03/z-of-hops-n-is-for-new-zealand.html

  2. modificando un po’ una citazione di kuaska “camionate di nelson” 😀 La moda del 2010.

    Temo un po’ per il futuro dell’anchor. I suoi prodotti sono ancora ottimi e spero rimangano tali.

  3. Sembraproprio scoppiata l’epidemia Nelson! Ultimamente chi vuole fare una birra stagionale, celebrativa o fuori dagli schemi sembra quasi obbligato a usare questo tipo di luppolo! Mi ricorda quello che qualche anno fa avveniva con l’avvento del Cascade!

  4. Nota un po’ off topic ma simpatica :

    in una puntata dei Simpson dove i genitori di Milhouse sono dati per dispersi in mare e lui viene ospitato in casa Simpson, in lingua originale c’è un momento di gag dove in cucina si trovano solo succo di frutta Ocean Spray, cereali “Capitan” Crunch, salsa Seven Seas, tonno Chicken of the Seas, un cd antologico della Atlantic records.

    Per svagare da quella situazione di gaffes imbarazzanti, la scelta di Homer è andare da Moe ad “affogare” i dispiaceri nell “Anchor Steam Beer” ignobilmente tradotta in italicus con “birra getta l’ancora” =)

  5. La soluzione obbligata è fare coltivazioni di luppolo (Nelson Sauvin, Amarillo, chi più ne ha più ne metta) in Europa.

  6. @ Alessio: la soluzione finale è fare queste birre in belgio a prezzi da belgio insieme alle coltivazioni autoctone…vedrai che usciranno fuori anche li.
    Cmq si il Nelson sta andando alla grande, anche perchè è molto, troppo ruffiano ma nella ReAle Anniversario ci sta troppo bene! L’importante è il risultato.
    Ciao M.

  7. Mmm…
    Devo ammettere di non capire le logiche degli “esperti” della birra.

    La Anchor sta per fallire. Ma Loro si preoccupano del suo destino in relazione ai due nuovi proprietari e all’accostamento con il DIABOLICo Brew Dog.

    Brew Dog vende e cresce. Anchor chiude o rischia seriamente di farlo.

    Chi ha ragione? Il pubblico o la critica?
    Domanda insignificante, concordo con voi.
    Rifraso.
    Chi fa campare i birrifici, il pubblico o la critica? (che peraltro spesso beve a ufo)

  8. @Livingstone
    Se conosci la storia della birra, non dovresti avere problemi a capire le preoccupazioni degli appassionati. Oh poi preoccupazioni, è più un pour parler, io in questi giorni dormo benissimo lo stesso.

    Ma le preoccupazioni associate al fatto che i due hanno quote di Brewdog dove l’hai lette?

  9. da questo passaggio

    “Ai più attenti i nomi non suoneranno completamente nuovi: in effetti li avevo menzionati in passato, citandoli come “acquirenti di peso” delle quote della scozzese Brewdog.

    Quando avvengono acquisizioni di questo genere, ci si interroga sempre sulle reali intenzioni dei compratori, perché il rischio di uno snaturamento del marchio – se non addirittura della sua scomparsa – è sempre in agguato. ”

    Ma non è quello il punto e non mi riferivo solo al tuo articolo.

    Proprio perchè conosco la storia della birra so che gli stili e le tradizioni non sono statici ma variano nel tempo.

    Le più grosse rivoluzioni stilistiche non sono avvenute lentamente, ma hanno trovato impulso da nuove tecnologie imbracciate da birrai innovatori per portarci nuovi prodotti. Che inevitabilmente hanno soppiantato alcuni degli storici produttori.

    Oggi ci troviamo con un movimento di birrai sperimentatori (sopratutto americani) che stanno riscrivendo gli stili e i gusti del mondo brassicolo.

    Il pubblico, i consumatori, li seguono. Vedi la storia ed evoluzione di Brew Dog.

    I critici li stanno combattendo a spada tratta (avrei un esempio lampante ma evito di linkare chi ormai non può più rispondere su questo blog…) perchè si sta mettendo in discussione l’ortodossia birraria.

    Quello che voglio dire è molto semplice.
    Certe tradizioni e certi birrifici storici sono da amare e preservare.
    Ma se spariscono è perchè il mercato li ha uccisi.
    E che altro è la birra se non un prodotto commerciale?

    Mi sembra che ci stiamo lamentando troppo e sempre. Ma non qui. Tutto sommato questo è uno dei luoghi più positivi (come toni, non entro nel merito della qualità) per leggere di birra.

  10. E poi la Nelson fobia, la Cascade fobia…
    Non ho mai sentito nessuno lamentarsi che in inghilterra si usi troppo fuggle…

    Che strano, no?

  11. @Livingstone
    Mah discorso anche condivisibile, ma che hai introdotto in modo un po’ forzato, concedimelo. Ho scritto di preoccupazioni di snaturamento del marchio Anchor, ma non certo perché i due hanno quote in Brewdog. Al contrario secondo me quello è un elemento di garanzia, perché significa che non sono estranei al settore… la preoccupazione semmai è legata alla Skyy Vodka.

    Sostenere che ciò che il mercato produce è giusto a priori, secondo me è dannoso, e non solo nella birra. Giustificare ogni evento e ogni decisione perché conseguenza delle leggi di mercato lo trovo abbastanza aberrante. Per fortuna c’è chi la pensa in modo diverso: se oggi ad esempio puoi berti una Blanche è perché in passato c’è stato qualcuno che ha guardato oltre le semplici leggi di mercato.

    Se la Fuller’s acquista la Gales, a me sembra sacrosanto che gli appassionati chiedano che sia preservata una birra come la Prize Old Ale. Non è questione di fobia, ma di consapevolezza di quelle stesse leggi di mercato che spingono un’azienda di stampo industriale a omologare i suoi prodotti.

  12. @Livingstone

    “Oggi ci troviamo con un movimento di birrai sperimentatori (sopratutto americani) che stanno riscrivendo gli stili e i gusti del mondo brassicolo.

    Il pubblico, i consumatori, li seguono. Vedi la storia ed evoluzione di Brew Dog.”

    qualcuno li reputa birrai sperimentatori, e questo probabilmente è oggettivo. io li trovo anche un attimino marketingettari in taluni casi. magari sono il solo… chissà. vorrei solo ricordare, nel tripudio e nel trionfo tributato a questi innovatori osannati dal mercato, i volumi di produzione tuttora sostenuti da Orval, Dupont, Rochefort… il povero De Dolle che dovrebbe raddoppiare, incendi permettendo, senza concedersi alle mode e tantomeno alle pagliacciate… il buon Rulles… i tanti produttori americani che dedicano il 70%-80% della loro produzioni in IPA e DIPA… quelli sì, in campo statiunitense, innovazioni già divenute classiche e richieste dal mercato

    oppure, rimanendo a casa nostra, un doveroso omaggio alla Rodersch del BI-DU. ma non per il buffonesco, inutile, già citato primato nella sottoclassifica di Ratebeer che a mio avviso banalizza il lavoro di (e presumo lascerebbe totalmente indifferente) un fuoriclasse come Beppe. ma proprio per le (giuste) considerazioni di Livingstone applicate in maniera scorretta. gli stili evolvono e le tradizioni possono essere soppiantate. solo che l’esempio corretto non sono le solite birre specchietto per le allodole del Brewdog di turno. l’esempio corretto è la Koelsch di Beppe. che non è una Koelsch… certo, stupisce un po’ meno non facendo 41° e non avendo 1000 IBU… peccato sia però molto più rivoluzionaria. e non accorgersene, significa avere le idee poco chiare in fatto di birra

  13. @Livingstone

    E poi la Nelson fobia, la Cascade fobia…
    Non ho mai sentito nessuno lamentarsi che in inghilterra si usi troppo fuggle…

    Che strano, no?

    Nessuno si lamenta del fatto che stia imperversando l’uso del Nelson Sauvin, semplicemente mi fa sorridere il fatto che molti birrifici che realizzano una birra nuova “ad effetto” ricorrano sempre più spesso a questo luppolo come fosse una manna dal cielo. In Inghilterra il fuggle è tradizione non l'”arma segreta” dei birrai

  14. @SR

    “…peccato sia però molto più rivoluzionaria. e non accorgersene, significa avere le idee poco chiare in fatto di birra…

    Beh, le mie idee non sono nè filtrate nè pastorizzate. Forse per questo che talvolta appaiano poco chiare 😀

    Il marketing non basta a spiegare il successo del fenomeno Brew Dog.
    Il marketing ti fa vendere la prima bottiglia. La seconda la vende il contenuto.

    Ratebeer è lì. Se non ti piace non ci vai. Se qualcuno pensa che sia in grado di orientare il mercato…allora consiglio di studiarlo meglio invece di criticarlo.

    Per me Orval, Dupont, Cantillon, Anchor ecc. sono dei mostri sacri e sarei stupido a parlarne male.
    BiDu e gli altri innovatori non sensazionalisti hanno tutto il mio rispetto e apprezzo moltissimo le loro produzioni..
    Brew Dog, Mikkeller e gli altri Disneyland mi danno quel tocco di imprevedibilità e divertimento al quale ormai non saprei più rinunciare.

    Per cui, viva il centro storico della birra, viva la periferia illuminata e grazie a dio che ogni tanto ci è concesso un po’ di disneyland!

  15. @P3

    Beh, è normale che quando c’è un nuovo luppolo questo venga utilizzato da molti birrai.

    Se poi il prodotto non è all’altezza metterei alla sbarra degli imputati il birraio, non l’ingrediente.

    Per fortuna che a me il cascade piaceva anche in tempi non sospetti. Quando nessuno lo utilizzava perchè caratterizza va troppo la birra. Credo che altrimenti non riuscirei ad usarlo, semplicemente per la paura di essere influenzato più dalle parole che dalla sostanza.
    Un po’ come succede oggi per le castagne.
    Sembra che ogni birrificio debba produrre una birre alle castagne.
    A me che le birre alle castagne piacciono poco non verrà mai in mente di usarle, anche se va di moda. E non sento nessuno lamentarsene.

  16. @Livingstone

    sarei anche d’accordo con le tue considerazioni. tranne sul marketing. Brewdog fa parecchie buone birre, alcune ottime se provate nelle corrette condizioni. a volte però deludenti e con problemi (diacetile non di rado). non sono migliori di alcuni italiani e di altri meno noti. dove sta il segreto del loro successo? investimenti in impianti e capacità produttiva. prezzi un po’ più abbordabili (ma non poi molto, sono costosissimi per gli standard UK e per il lor “gioielli” ti spolpano anche loro). soprattutto, non avrebbero avuto il successo che hanno avuto senza il marketing che ci ha fatto dietro, che ha fatto comodo anche a chi quelle birre le ha poi vendute, perché ha fornito una storiella facile da raccontare ai propri clienti. prova a vendere le Beck’s Brau come il Colonna, lì sì ci vogliono le palle per inculcare qualcosa nella testa dei tuoi clienti

    domanda: ma qualcuno ha mai indagato su quale siano le birre più vendute di Brewdog? io no. non è che per caso tutte le pagliacciate collaterali servano anche a fare da volano al marchio per poter poi battere la concorrenza sulle birre “normali”, quelle su cui si fanno i volumi? lo fanno già in molti in altri settori economici, non solo nella ristorazione…

    quello che non capisco è questa frase: “Ratebeer è lì. Se non ti piace non ci vai”. a parte che non ho mai detto che non mi piace in toto. ma che razza di discorso eh? uno non ha il diritto di dire che una cosa è una pagliacciata? non scherziamo. è lì, ci vado eccome, e se trovo che una iniziativa sia una buffonata lo dico chiaro e forte, magari qualcun’altro se ne accorge e ragiona di più con la propria testa, o quantomeno non con quella dei SEDICI utenti (la metà ovviamente italiani, qualcuno probabilmente vicino di casa) che l’hanno decretata migliore koelsch del mondo contro altrettante eminenti giurie. cerchiamo ogni tanto di essere seri per favore… per me sarebbe la migliore Koelsch anche se fosse ventesima

    se ti riferisci a me sull’orientare il mercato: io non oriento un bel niente. esprimo liberamente opinioni, come te. lascio a chi legge l’onere di giudicarle e farle eventualmente proprie. devo per caso chiederti il permesso?

  17. postilla: sei poco attento. io di gente che trova inutili il 95% delle birre alle castagne ne conosco parecchie. io sono fra quelli

  18. @SR

    Beh, a questo punto credo che stiamo vedendo lo stesso bicchiere. O almeno abbastanza simile.
    Lo descriviamo semplicemente in due modi diversi.

  19. A me il Nelson Sauvin piace molto, e penso che non bisogna aver fretta di giudicare. Magari oggi abbiamo un utilizzo compulsivo di questi luppoli, ma aspettiamo e senz’altro i fenomeni estremi scompariranno e si cercherà in qualche modo di equilibrarne gli effetti, costruendo birre più bilanciate. Nel frattempo però abbiamo conosciuto componenti aromatiche particolari che non possono che arricchire questo piccolo nostro mondo

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