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Da beer firm a birrificio: cambiare nome per ripartire da zero (o quasi)

Vi ricordate il fenomeno delle beer firm? In Italia i marchi brassicoli senza impianto di proprietà mostrarono una crescita impressionante a partire dal 2012: secondo i dati di Microbirrifici.org, questo modello di business quintuplicò la sua presenza sul mercato in poco più di un lustro, raggiungendo nel 2017 le quasi 500 unità. Poi, come spesso accade nel nostro mondo, l’entusiasmo scemò con la stessa velocità con la quale si era creato, fondamentalmente perché le beer firm non si rivelarono quell’uovo di Colombo che erano sembrate inizialmente. L’idea di lanciare un proprio brand birrario senza sostenere un ingente investimento iniziale è infatti molto attraente, ma nasconde diverse insidie. A causa delle marginalità ridotte, delle difficoltà nel trovare il giusto fornitore, nell’impossibilità di seguire tutto il processo produttivo, le beer firm nel medio e lungo termine si rivelano insostenibili, a parte qualche rarissima eccezione. Rappresentano oggi una soluzione percorribile solo per chi ha intenzione di acquistare un impianto di proprietà a stretto giro, trasformando l’azienda in un birrificio a tutti gli effetti. Questo passaggio apre una fase di così netta discontinuità col passato che molte aziende decidono addirittura di cambiar nome al proprio marchio. Una scelta che negli ultimi anni abbiamo visto compiere diverse volte in Italia.

Perché cambiare nome? La strategia è apparentemente azzardata, poiché significa ripartire da zero rischiando di perdere quanto costruito negli anni in termini di consapevolezza del marchio e di fidelizzazione dei consumatori. Eppure talvolta la decisione emerge in maniera quasi fisiologica, proprio per tracciare una linea netta con il passato (che solitamente per una beer firm è alquanto “tormentato”) e sottolineare l’inizio di una nuova era. Le aziende italiane che hanno deciso di compiere questa scelta sono ormai diverse, vediamone alcune.

Crak

Il caso più celebre è incarnato dal birrificio Crak. Oggi il produttore veneto è uno dei nomi più in voga tra gli appassionati italiani, ma in pochi sanno che nacque dall’esperienza della beer firm Olmo, fondata nel 2012 in provincia di Padova. Fu il primo caso (o uno dei primissimi) di un cambio di nome effettuato in seguito all’acquisto dell’impianto di produzione, tanto che all’inizio del 2015 decisi di intervistare i ragazzi del neonato birrificio Crak proprio per chiedere i motivi di una scelta così drastica. Nel rileggere oggi le dichiarazioni di Anthony, Marco e Claudio si capisce che quella decisione nasceva da una visione piuttosto chiara della futura evoluzione del marchio, che infatti in questi anni è cresciuto in maniera esponenziale, supportato da una comunicazione precisa ed efficace. Ciononostante non tutte le idee presentate all’epoca sono poi risultate longeve, come quella di mantenere il nome delle birre più rappresentative, a partire proprio dalla Olmo. Questa mossa è comune a molte beer firm che vengono ribattezzate dopo il passaggio a status di birrificio, come a voler comunque mantenere (magari inconsciamente) un legame con il passato. Nel caso di Crak la strada intrapresa è stata così rivoluzionaria rispetto alle esperienze precedenti che una simile idea non avrebbe potuto avere vita lunga.

Altotevere

Spesso la discontinuità evidenziata dal cambio di nome deriva da una discontinuità nell’assetto aziendale. Accade quando a un progetto brassicolo si aggiunge un nuovo investitore, oppure quando uno dei soci di un neonato birrificio proviene da un’esperienza con la sua beer firm. È a una situazione del genere che possiamo far risalire la nascita del birrificio Altotevere, avvenuta nel 2016 grazie all’incontro tra l’imprenditore Giuliano Nocentini e il birraio Luca Tassinati. All’epoca Luca era conosciuto nell’ambiente con il suo marchio (privo di impianto) Monkey Beer, che tuttavia accantonò quando fu il momento di partire con la nuova avventura brassicola. In realtà Monkey Beer non scomparve, ma fu assorbito nella gamma di Altotevere, sebbene credo solo per un breve periodo prima di scomparire del tutto. A ogni modo ripartire con un marchio completamente nuovo non fu un problema, anche perché a inizio 2019 Luca Tassinati fu nominato birraio emergente dell’anno (precedente), stimolando un interesse ancora maggiore verso le sue creazioni.

Liquida

Continuiamo a parlare di Luca Tassinati, perché qualche mese dopo l’incoronazione a Birraio dell’anno egli decise di lanciarsi in un nuovo progetto. Del birrificio Liquida vi ho parlato recentemente, spiegando come sia nato dall’incontro tra l’ex birraio di Altotevere e due dei proprietari del Bifor di Forlì: Christian Bertoni e Luca Drudi. Bifor a sua volta è una beer firm con un locale di mescita a Forlì, inaugurata a ottobre del 2016. Nonostante la pesante dote alle spalle, anche in questo caso il trio ha deciso di comunicare una completa rottura con le esperienze del passato e trovare un nome assolutamente inedito – e a mio avviso molto azzeccato – per il loro nuovo birrificio. Liquida (sito web) sembra essere partito con il vento in poppa e ha tutte le carte in regola per affermarsi a livello nazionale. Il progetto Bifor tuttavia non si è interrotto, ma continua a vivere parallelamente alla nuova avventura brassicola. Curiosamente presentai sia Bifor che Altotevere nello stesso articolo dedicato ai nuovi marchi italiani: chissà che non si verifichino altri intrecci in futuro.

082Tre

È molto recente anche l’apertura del birrificio 082Tre di Capua, in provincia di Caserta, di cui ho scritto nello stesso articolo in cui ho presentato Liquida. Il birraio è Sergio Landolfi, che per diversi anni ha guidato la beer firm White Tree, prima di decidere di compiere il salto di qualità grazie all’incontro con quelli che sarebbero diventati i suoi futuri soci. Anche in questo caso il nome individuato per il birrificio non ha alcun legame con quello della precedente beer firm, sebbene un filo conduttore sia rappresentato da alcune birre presenti nella gamma di 082Tre. Sergio ha infatti mantenuto vive alcune ricette di White Tree, così come i rispettivi nomi: ad esempio troviamo ancora la Bubala, una Milk Stout realizzata con siero di latte di bufala campana, e la Cheritra, una Golden Strong Ale molto facile da bere. Le altre birre invece sono totalmente inedite. White Tree ovviamente non esiste più come marchio, ma la sua eredità si identifica in questo evidente legame in termini produttivi.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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Un commento

  1. Da collezionista… Noi ci siamo inventati la tipologia Firm Pub per quelle Beer Firm che (probabilmente) non passeranno mai a un impianto proprio ma continueranno a farsi fare le birre da terzi (o in impianti di terzi).

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