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I moltiplicatori della birra: upgrade di stili e categorie suddivise per livelli

La meravigliosa storia della nostra bevanda ci ha insegnato che gli stili birrari sono nati per cause assai diverse tra loro. Alla base possono esserci ragioni puramente produttive, oppure complicate evoluzioni a livello storico, economico e sociale. I documenti ci insegnano che alcune tipologie sono state create a tavolino, mentre per altre è praticamente impossibile identificare una data di nascita precisa. In questa affascinante varietà ci sono alcuni stili che si sono sviluppati come evoluzione di altri, oppure che sono stati denominati con appellativi che suggeriscono una strutturazione “a livelli” della rispettiva famiglia brassicola. È una tendenza che accomuna le principali culture birrarie del mondo, sebbene non sempre risulti evidente. Oggi spieghiamo questo concetto andando alla scoperta dei casi più celebri in tal senso.

IPA, Double IPA, Triple IPA

In principio erano le IPA, o meglio la versione americana dell’antico stile di origine anglosassone. In maniera quasi fisiologica la tipologia più rivoluzionaria degli ultimi decenni ha generato svariati sottostili, tra i quali vanno sicuramente segnalate del Double IPA (anche detta Imperial IPA). Il nome incarna esattamente gli obiettivi di queste birre: esaltare le caratteristiche principali delle (American) IPA, portandole quasi all’esasperazione. Le Double IPA sono quindi delle IPA più muscolari, che superano le sorelle maggiori per contenuto alcolico e per resa della componente luppolata. Sono la trasposizione in forma birraria del concetto tutto americano “bigger is better”, ma le incarnazioni migliori riescono a mantenere una relativa eleganza e a nascondere subdolamente la loro potenza. Molti identificano la prima Double IPA della storia con la Pliny The Elder di Russian River, ma in realtà fu l’Inaugural Ale di Blind Pig, prodotta comunque dallo stesso birraio: Vinnie Cilurzo.

Lo stesso Cilurzo nel 2005 creò la Pliny The Younger, considerata la prima Triple IPA della storia. Inutile specificare che questo ulteriore sottostile – ammesso che possa essere ritenuto tale, ma ci torneremo tra un attimo – rappresenta un ulteriore step nell’interpretazione “strong” di un’American IPA. Non a caso la Younger nacque come “upgrade” della Elder: più luppolo, più malto (necessario a bilanciare l’amaro) e più alcol (10,25% contro 8%). In realtà non tutti sono concordi nel considerare le Tripel IPA un sottogenere a sé stante, preferendo piuttosto valutarle come l’incarnazione più estrema delle Double IPA – il BJCP ad esempio prevede che quest’ultime raggiungano tranquillamente il 10% in alcol e le 120 IBU. In effetti birre che rientrano nelle specifiche delle Triple IPA sono state spesse immesse sul mercato come “semplici” Double IPA, non ultima la pionieristica 120 Minutes IPA di Dogfish Head.

Single, Dubbel, Tripel, Quadrupel

Lo straordinario patrimonio brassicolo del Belgio e in particolare la tradizione delle birre trappiste ci regala una delle “numerazioni” birrarie più affascinanti in assoluto. Partiamo dal centro: i termini Dubbel e Tripel indicano due stili ben precisi nati all’interno dei monasteri Cistercensi della Stretta Osservanza: il primo indica birre ambrate scure ricche e complesse, il cui capostipite fu la Dubbel di Westmalle; il secondo birre chiare, forti e maltate ma anche secche e piacevolmente amare, inventate dal birrificio Drie Linden (quello del marchio Witkap, oggi di proprietà di Slaghmuylder) negli anni ’30 ma poi diventate famose grazie alla Superbier di Westmalle (oggi Westmalle Tripel). È opinione comune che in entrambi i casi il nome si riferisca alla posizione della rispettiva tipologia in un’immaginaria scala alcolica degli stili d’abbazia: secondo una consuetudine risalente al medioevo, le botti infatti venivano contrassegnate da una, due o tre “X” in base alla forza della birra.

Se le Tripel erano marchiate con tre “X” e le Dubbel con due, come si chiamavano quelle ancora più leggere? La risposta è semplice: Singel, o Single in inglese. Sebbene sia espressamente prevista nell’ultima release delle Style Guidelines del BJCP, questa tipologia in realtà è raramente conosciuta, anche perché non identifica uno stile preciso: le Single sono le birre prodotte dai frati per il consumo all’interno della comunità monastica, quindi più leggere per ovvi motivi. Tra gli esempi più celebri possiamo citare la Petit Orval e la Chimay Dorée.

Sull’estremo opposto della scala si posizionano poi le Quadrupel, anch’esse molto meno conosciute rispetto a Dubbel e Tripel, ma capaci di vantare un paio di incarnazioni di livello mondiale: in tal senso ci basta citare Rochefort 10 e Westvleteren 12. Curiosamente il BJCP non riconosce questo stile come degno di una categoria a sé stante, ma lo ingloba nella più vaga denominazione di Belgian Dark Strong Ale, pur riconoscendo alcune differenze tra le creazioni dei monasteri trappisti e le altre (soprattutto in termini di secchezza).

(Ordinary) Bitter, Best Bitter, Extra Special Bitter

Anche per le classiche birre quotidiane d’Inghilterra esiste una scala di sottostili che identifica i vari “upgrade” della tipologia di partenza. Le Ordinary Bitter occupano il gradino più basso: sono birre leggere, esili e facilissime da bere, con un contenuto alcolico che per definizione non raggiunge il 4%. Lo step successivo è rappresentato dalle Best Bitter, che non solo possono salire fino al 4,6% in alcool, ma hanno anche un profilo maltato leggermente più intenso. L’aggettivo “best” suggerisce che tradizionalmente venivano prodotte con materie prime di qualità superiore rispetto alle Ordinary. L’ulteriore upgrade è rappresentato dalle Extra Special Bitter (o Strong Bitter), in cui le componenti precedente descritte raggiungono un ulteriore livello di complessità: tuttavia siamo ancora nel campo delle birre poco impegnative, considerando che difficilmente il contenuto alcolico supera il 6%. Oggi molte Bitter prodotte da birrifici moderni rientrano per caratteristiche nel secondo e nel terzo sottostile.

Scottish Light, Heavy, Export

La suddivisione delle tradizionali (e spesso trascurate) tipologie scozzesi segue un discorso molto simile a quello delle Bitter inglesi. Nella revisione del 2015 delle sue Style Guidelines il BJCP ha corretto un “bug” della precedente versione: ora infatti identifica gli stili scozzesi con Light, Heavy ed Export, specificando che la classica denominazione per scellini (60/-, 70/- e 80/-) era relativa allo spettro di costo delle singole birre, senza alcun riferimento alle relative caratteristiche organolettiche. In altre parole potevano essere disponibili Stout identificate con 54/-, così come IPA con 86/-. Nell’attuale suddivisione a cambiare è sostanzialmente il contenuto alcolico delle birre, poiché tendono tutte a esaltare la componente maltata con una resa tendenzialmente simile. Un discorso a parte va fatto per le Wee Heavy, che non solo si posizionano all’estremo di questa escalation, ma che presentano peculiarità diverse avvicinandosi a quelle di un Barley Wine.

Bock, Doppelbock

Anche nell’immancabile cultura brassicola tedesca troviamo un upgrade di stili. Se infatti le Bock sono le classiche birre forti della Germania, maltate e alcoliche, le Doppelbock rappresentano la loro naturale estremizzazione, capace di spingere questi elementi verso un ulteriore livello. La prima Doppelbock della storia fu la Salvator, inventata dai frati paolini di Monaco di Baviera (oggi Paulaner) alla fine del XIX secolo. Quasi tutte le imitazioni prodotte da quel momento in poi conservarono il suffisso -ator, dando luogo all’unico stile facilmente identificabile già dal nome della birra: esempi classici sono la Celebrator di Aynger, la Maximator di Augustiner, la Triumphator di Lowenbrau, la Optimator di Spaten. È bene ricordare che le Doppelbock prevedono un’ampia variabilità in termini cromatici: possono essere birre chiare, ambrate o persino marroni.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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2 Commenti

  1. La denominazione Export, sopratutto se riferita a birre mitteleuropee, indicava versioni migliorate destinate ai comuni limitrofi. Si parla dell’epoca in cui nel centro Europa, ogni comune aveva un proprio birrificio municipale. Chiaramente la gente di ogni comune era orgogliosa della birra prodotta nel proprio, giurando che non ne esistevano di migliori.

    Ciò era motivo di diatribe che a volte sfociavano in faide. Gli impianti all’epoca erano in legno, quindi l’infezione era all’ordine del giorno. Capitava spesso che un comune rimanesse senza birra a causa di un’infezione. Pertanto erano costretti ad acquistarne da un comune limitrofe. Il comune scelto a supplente, produceva la propria birra con la massima cura, cercando di ottenere il massimo, per dimostrare, al comune destinatario, d’essere migliori dello stesso.

    In questo caso aggiungevano al nome della birra, che richiamava spesso quello del comune di produzione, la denominazione Export. Volendo indicare con questo termine, la loro migliore produzione. Oggi la denominazione è ancora in auge, anche se spesso viene sostituita con Premium, che però è una denominazione puramente commerciale sotto indicando la vincita di una qualche medaglia o premio.

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