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Il Lambic, o delle virtù dell’acidità

Dobbiamo ammetterlo. Di fronte a questa tipologia di birre i commenti e gli aggettivi sono sempre i più disparati e contraddittori. Perché il Lambic divide, estasia o schifa, generando confusione nei neofiti: ostico, affascinante, ardito, complesso, ricco, “ma è aceto?”, “lasciatemi la bottiglia, è fantastico!”, “ma chi c…o se la beve ‘sta roba?!”. Quest’ultima colorita affermazione, accompagnata da faccia sbigottita d’ordinanza e, a volte, espulsione tramite sputo dell’esiguo contenuto assaggiato con atteggiamento timoroso, è tipica quando si chiede a un bevitore medio (dunque inesperto) di approcciare queste birre. Una tale reazione è infatti generata da odori pungenti, poco consueti e dall’acidità, che l’istinto umano associa a cibi e bevande guasti o pericolosi. Ma questo è uno dei tanti elementi di straordinarietà del Lambic: far trionfare la cultura (l’apprendimento di sapori e gusti) sulla natura (la predilezione istintiva solo per alcuni di essi).

Cominciamo dal principio, dal nome. Due le teorie: la prima è che sia una leggera corruzione di Lembeek, storica cittadina tra le più attive nella produzione di questa tipologia; la seconda è che derivi da alambic, termine usato dai soldati spagnoli che occuparono il Belgio tra il 1581 e il 1714, per designare le aree delle fattorie dove si producevano la birra e il jenever, un tipico distillato tipico a base di malto di frumento o d’orzo, aromatizzato con bacche di ginepro. Questa peculiare produzione brassicola ha la sua culla (anche legalmente riconosciuta) nel Pajottenland, “la terra dei covoni”, un’area a sud ovest di Bruxelles che misura circa 290 km².

Diciamo poi della modalità di produzione, poiché le differenze rispetto a una birra “convenzionale” sono davvero molte. Nel grist c’è circa un terzo di frumento non maltato; l’ammostamento conta su un elevato rapporto cereali/acqua (fino a 1/9) e viene eseguito con la tecnica del turbid mash (in modo che rimangano molti amidi non convertibili); la temperatura dell’acqua di sparging è più alta del consueto; il luppolo utilizzato è generalmente vecchio di 3 anni (suranné) e ce n’è in quantità fino a 5 volte più del consueto; la bollitura è lunga per amalgamare, “stringere” e fare andare via la puzza di acido caproico generata dal luppolo vecchio; il raffreddamento del mosto è lento e non forzato; non c’è inoculo del lievito, ma un asservimento del mosto a tutti i microorganismi presenti nell’aria, nel birrificio e nella cantina (ne intervengono circa 100, secondo uno studio dell’Università di Lovanio); fermentazione e maturazione avvengono a temperatura di cantina, all’interno di botti «usate» (ex vino o distillati). Un Lambic è considerato pronto-giovane dopo circa 9 mesi e vecchio dopo 3 anni, quindi il tempo, la maturazione e le capacità del birraio-cantiniere sono essenziali; sono birre legate alla stagione (non si possono produrre se fa troppo caldo) e alla territorialità (essendoci in ogni area geografica e birrificio peculiari micro-organismi).

Qualora non bastasse per decretarne la particolarità, aggiungiamo che è la tipologia brassicola in cui la mano dell’artigiano e la sua capacità di interagire con le dinamiche di esseri che non può vedere sono fondamentali (qualcuno chiama tutto ciò “governo dell’anarchia”) e in cui l’incidenza delle macchine e della tecnologia di fabbricazione è più bassa (visitare una di queste unità produttive – attualmente una dozzina – è un vero atto di archeologia birraria).

La prima volta che assaggiai un Lambic fu da Hanssens (pagina Facebook) , storico marchio di Dworp, oggi gestito da John Matthys e consorte. Non scorderò mai quella visita e la subitanea precisazione tra le botti stravecchie e gocciolanti: “Il Lambic non è birra, è Lambic”. Ma come dimenticare le amabili chiacchiere, l’atmosfera rustica e conviviale, gli assaggi seduti sulle vecchie sedie all’ingresso della cantina. Nel tipico tumbler dal fondo spesso mi si presentò un liquido dorato, praticamente limpido, “piatto”, con riconoscimenti olfattivi di aceto di vino bianco, lattico, fieno, solforoso, citrico, ossidato, un soffio balsamico, sidro, legno umido, muffe da formaggio erborinato, lievi afrori animali. In bocca una presenza esile, secchezza, grande scorrevolezza, l’acidità, un tenore alcolico tra 5% e 5,5%: era immediato, dissetante, perfetto per la fine di una giornata di lavoro, umile e rassicurante. Vorrei riviverla esattamente come fu, quella indimenticabile prima volta.

Ma, in sincerità, posso ben comprendere la sorpresa e le perplessità di chi non apprezza. Perché se chi non beve Lambic è al mio tavolo vorrà dire che io berrò di più. A parte gli scherzi, è capitato a tutti. Sono birre che hanno bisogno di un percorso: non a caso, prima del rifiorire di pochi anni fa, era uno stile “in via d’estinzione”, non apprezzato più nemmeno dai belgi. Un percorso non semplice, oggi, nell’occidente della “dieta standard”, con l’abitudine a cibi e bevande dolci, grassi, poco impegnativi, che danno conforto, a mangiare senza masticare, a bere senza pensare. Figuriamoci come si possa reagire di fronte a un Lambic…

Scrive Misette Godard ne Il gusto dell’agro:

La facoltà di sorprendere, si può dire che il sapore agro l’abbia per vocazione. Nell’armonia il suo ruolo è più complesso, perché esso introduce la dissonanza. Ma l’idea che noi abbiamo di armonia è piuttosto culturale: implica l’attesa di una continuità che può variare secondo le epoche e le nazioni.

L’acidità non è solo uno dei gusti fondamentali, ma enfatizza gli altri quattro e dona dimensione ai nostri assaggi. “Senza di essa la nostra vita perderebbe in dolcezza”, come scriveva Plinio il Vecchio.

Il Lambic è cultura e gusto. Ha una ricchezza, una complessità e dei toni aromatici che per noi mediterranei è facile accostare al più familiare fermentato d’uva. Non a caso, Frank Boon, un noto (e discusso) produttore, l’ha definita “l’anello mancante tra birra e vino”.

Che possa incontrare o no il vostro apprezzamento, è un’esperienza gustativa essenziale per ogni bevitore. Un’esperienza che risulterà superabile in complessità solo dalla nobile figlia di questa straordinaria birra a fermentazione spontanea, generata dalla sapiente unione di due o più Lambic: la Gueuze, di cui parleremo nella prossima puntata.

L'autore: Roberto Muzi

Docente, degustatore e consulente di settore. Classe 1980, appassionato di fermentazioni e di tutto ciò che riguardo quello straordinario micromondo abitato da lieviti e batteri, è responsabile regionale per la Guida alle birre d’Italia di Slow Food Editore e giurato in alcuni concorsi nazionali. Ama leggere e bere birra mentre segue il calcio: una semplice scusa, sciocca e inossidabile, per foraggiare il consumo pro-capite italiano.

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