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La rinascita delle Raw Ale: la tipica birra cruda (priva di bollitura) del Nord Europa

Foto: Lars Marius Garshol

Approfondire una disciplina significa a volte spingersi oltre le proprie convinzioni, se non addirittura mettere in dubbio concetti dati per assodati. Così può succedere che, studiando le antiche abitudini brassicole europee, si incappi nelle Raw Ale. Con questa espressione si indica un’ampia famiglia di birre “ancestrali”, dalle caratteristiche poco definite ma accomunate da un singolo, fondamentale aspetto: il loro processo produttivo non prevede bollitura. Proprio così. Quello che oggi consideriamo uno step fondamentale nel corso di una cotta, in queste produzioni semplicemente non è contemplato. Lo ripeto: non si tratta di un vezzo nato da una strana moda odierna, ma di una peculiarità propria di tante tradizioni brassicole – concentrate soprattutto nel Nord Europa – e presumibilmente di tutte le birre prodotte in epoche remote. Sebbene il concetto di Raw Ale appartenga a un passato lontano dalle nostre consuetudini, queste creazioni non sono mai scomparse del tutto e oggi stanno vivendo un periodo di grande interesse, con la riscoperta delle loro incarnazioni più antiche e la reinterpretazione dei birrifici moderni.

L’assenza della fase di bollitura è legata a motivi tecnologici: prima dell’ampia diffusione dei tini di rame (avvenuta solo negli ultimi due secoli), i birrai utilizzavano principalmente recipienti di legno, con i quali era difficile raggiungere l’ebollizione del mosto e mantenerla per tempi prolungati. In seguito le innovazioni scientifiche hanno cancellato questa limitazione, introducendo la bollitura come un passaggio chiave nel corso di una cotta. Siamo abituati a considerarla indispensabile, ma ancora oggi sono diversi i birrifici che producono birre senza bollire il mosto. Al pari della fermentazione spontanea, è un’usanza che ha resistito alle evoluzioni del settore e che è rimasta in vita nelle più tradizionali Farmhouse Ale del Nord Europa. Parliamo ovviamente delle birre prodotte all’interno delle fattorie, specialità che hanno profondamente influenzato la storia della nostra bevanda. Oggi molte classiche Farmhouse Ale prodotte in Scandinavia e nell’area del Mar Baltico sono realizzate saltando completamente la fase della bollitura.

Se questo aspetto può apparire eretico ci sono almeno due motivi. Il primo, come accennato, è che la bollitura è entrata così profondamente nelle consuetudini brassicole da apparire come un elemento imprescindibile. Il secondo motivo, invece, è essenzialmente tecnico: la bollitura infatti provoca alcune trasformazioni fondamentali per la buona riuscita della cotta. In particolare con la bollitura del mosto si ottengono tre effetti:

  1. Si sterilizza il mosto, evitando contaminazioni con agenti estranei.
  2. Si attiva l’isomerizzazione degli alfa acidi dei luppoli, che forniscono amaro e proteggono la birra da evoluzioni indesiderate.
  3. Si ottiene la coagulazione delle proteine, cioè la loro eliminazione, favorendo la stabilità degli aromi.

Chiaramente l’assenza di bollitura è direttamente legata al raggiungimento di questi obiettivi, motivo per cui la sua presenza come step produttivo ha conquistato nel tempo lo status di assioma. Rinunciare a questo step non significa però andare necessariamente incontro a problemi insormontabili, perché esistono alcune accortezze che permettono di raggiungere scopi molto simili. O che, nella peggiore delle ipotesi, possono limitare al massimo l’insorgenza di evoluzioni non gradite. In particolare:

  1. Se effettuato secondo certe modalità, la fase di ammostamento è sufficiente per sterilizzare il mosto. In particolare se lo si mantiene a 63° C per almeno mezz’ora, in generale si ottiene la pastorizzazione del mosto.
  2. La mancata isomerizzazione degli alfa acidi si può ovviare con varie soluzioni. Una delle più diffuse è la cosiddetta hop-tea: una decozione dei luppoli effettuata a parte, con successiva aggiunta al mosto. C’è anche chi salta completamente questo passaggio.
  3. In mancanza di bollitura, le proteine tendono a coagulare ugualmente, sebbene con minore efficacia. Nelle Raw Ale alcune proteine rimangono nella birra rendendola più delicata e soggetta a instabilità. Di per sé non è un problema nella misura in cui la birra è bevuta “fresca” – un concetto che ironicamente è ormai associato a molte creazioni di stampo moderno.
  4. Un approfondimento merita il DMS. Questa sostanza, associabile a un grave difetto se riscontrabile in una birra, si crea naturalmente durante il processo produttivo. La bollitura contribuisce a eliminarla, quindi si potrebbe pensare che tutte le Raw Ale siano negativamente contraddistinte da questo elemento. In realtà il DMS si crea a temperature superiori agli 80° C, quindi è sufficiente tenere il mosto sotto questa soglia per non incappare in problemi.

Il particolare processo produttivo ha ovviamente effetti anche sulla resa gustativa della birra. In tal senso vi consiglio di leggere il pezzo con cui Francesco Antonelli ha raccontato su Brewing Bad l’assaggio della sua Raw Ale fatta in casa. L’aroma è caratterizzato dal contributo del lievito (esteri e fenoli), ma soprattutto da un’insolita nota “verde” di tipo vegetale, riconducibile ai piselli freschi e al granturco. Nel suo articolo Francesco ha comprensibilmente difficoltà a descrivere la sensazione, ma ci tiene a precisare che non c’è quella componente di verdura cotta che solitamente si associa al DMS. L’assenza di bollitura influisce anche sulla resa visiva, perché la maggiore presenza di proteine rende l’aspetto piuttosto velato.

Come accennato in precedenza, oggi si sta sviluppando un’interessante riscoperta per le Raw Ale. Il merito è da ascrivere all’immancabile Michael Jackson (tra i primi a descrivere il Sahti), ma in tempi moderni soprattutto a Lars Marius Gashol, uno dei più grandi esperti di Farmhouse Ale del Nord Europa – in particolare vi suggerisco la lettura di questo articolo, oltre che del suo libro. Negli ultimi anni l’attenzione si è concentrata sui produttori scandinavi che interpretano queste specialità nella maniera più tradizionale; parallelamente diversi birrifici di tutto il mondo hanno cominciato a sperimentare ricette che non prevedono bollitura del mosto. Anche in questo caso le moderne IPA hanno finito per giocare la loro parte in termini di cannibalizzazione della tipologia: una delle recenti tendenze sorte negli USA è proprio quello delle Raw IPA (anche dette No Boil IPA).

E in Italia? Il fenomeno è ancora agli inizi. Fino a oggi su Cronache di Birra abbiamo citato solo tre birre che si ispirano a questa tecnica produttiva. Due Raw IPA vennero raccontate in una panoramica risalente a fine 2019 e furono la In This Timeline We Dont’ Boil IPA di Godog e la Series #10 di Rock Brewery. La terza è decisamente più recente e interpreta la tipologia in maniera molto classica: mi riferisco alla Arèsti del birrificio sardo Arbareska, che qualche giorno fa ha vinto il Premio Lallemand collegato al Ballo delle Debuttanti della Italy Beer Week. Si tratta di una Raw Ale prodotta con l’aggiunta di rami di ginepro – una consuetudine di molte Farmhouse Ale del Nord Europa – e fermentata con il “magico” lievito Kveik, usato dunque nel modo più tradizionale possibile. I luppoli (varietà Chinook) sono aggiunti tramite la tecnica dell’hop tea. Se volete assaggiare una birra priva di bollitura, non vi resta che restare sintonizzati su queste frequenza: la Arèsti sarà infatti una delle birre presenti nella box del Ballo delle Debuttanti che sarà in vendita sul ecommerce di 1001 Birre. Personalmente non vedo l’ora di assaggiarla!

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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