Cimec

Intervista a Rudy Liotto di BAV su compromessi, industria e birre dell’anno

A sinistra Dario Bona, a destra Rudy Liotto

Il Birrificio Artigianale Veneziano, o BAV come lo chiamano tutti, si trova a Maerne di Martellago, una frazione di un paese minuscolo alle porte di Venezia. Lì mi accoglie calorosamente Rudy Liotto, socio e responsabile commerciale, che mi fa visitare il birrificio e mi presenta subito Dario Bona, il birraio di BAV da due anni a questa parte. Dario mi racconta che la sua prima vera esperienza birraria è stata qui, tra le mura del BAV. Prima di diventare birraio era un homebrewer iscritto alla facoltà di Giurisprudenza di Bologna, ma quando comprese che preferiva la birra al codice penale decise di cercare un lavoro nel settore birrario. Arrivò nel momento in cui “c’era da spingere”, in una di quelle fasi di svolta del birrificio (perché nel BAV ce n’è stata più d’una) in cui tutto cambiava cercando di restare uguale. Restyling di immagine, formati nuovi, un taglio generale con il passato che, secondo Dario, ha aiutato l’affermarsi di progetto organico.

Dopo una passeggiata tra i fermentatori e un brindisi con la loro buona Pils, lascio Dario al proprio lavoro e continuo la mia chiacchierata con Rudy, per capire come funziona in birrificio.

Ciao Rudy! Cercando di ricostruire la storia del BAV, pare che il birrificio abbia attraversato diverse fasi.

Ciao Ale! Sì, abbiamo attraversato momenti difficili. Quello che ci ha fatto andare sempre avanti nonostante tutto – il mutuo, i risultati che tardavano ad arrivare e la fatica – è stato solamente il lavoro e il fatto che ci vogliamo tutti bene. Ognuno qui fa ciò che può come può.

Partiamo dal presente: chi c’è in birrificio oggi?

Io, che seguo la parte commerciale, sono quello che dovrebbe fare il lavoro di comunicazione. Poi c’è Luigi, che è il presidente: si occupa del lavoro di amministrazione ma è il jolly, diciamo. C’è anche Dario, la new entry (anche se son già due anni) che è il birraio. Infine Marco, tecnico commerciale per aziende alimentari.

Messo in chiaro questo, mi aiuti a ricostruire la vita del BAV fino a oggi?

Il Birrificio Artigianale Veneziano è nato nel 2010 da tre amici che iniziano a fare birra insieme. La linea è stata battezzata Furia, per cui le prime birre si chiamavano semplicemente Furia bionda, Furia rossa e Furia nera. Io sono stato il primo dipendente, fino a giugno 2012. In quell’anno c’è stato un cambiamento a livello societario e sono entrate altre tre persone. A quel punto io, che avevo tutta la produzione in mano, ho deciso di chiedere l’aiuto di Marco Vescovi per iniziare a fare tre birre, che erano una Pale Ale, una Pils e una Bitter. Ma non c’era ancora una politica commerciale ben definita e, alla fine, hanno dovuto vendere anche loro e sono subentrati altri nuovi soci.

Poi sono arrivati i premi di Birra dell’Anno…

Sì, a febbraio 2013 ho vinto Birra dell’Anno con due birre su tre iscritte: la Pils e la Bitter. Grazie a questo concorso, ho potuto iniziare a riabilitare il nome del birrificio che era “caduto in disgrazia”. Ma poi è successo l’inaspettato: non avevamo mai fatto fusti e Birra dell’Anno per noi è stata la prima volta… e le birre, che in bottiglia erano perfette e che avevano riscosso l’approvazione dei giudici, in fusto invece avevano dei problemi, nonostante fosse la stessa cotta.

Appena annunciati i premi, allo stand avevamo la fila, eravamo contenti ma, a essere sinceri, siamo stati scemi. Non avremmo dovuto attaccare i fusti, ma ripeto siamo stati scemi e invece che staccarli li abbiamo serviti al pubblico. Ripeto, il lotto era lo stesso perché non facciamo cotte dedicate ai concorsi, i fusti in acciaio però non erano a posto, e la birra non doveva essere servita. Le guarnizioni non hanno tenuto, la birra si è ossidata, ma è stata colpa nostra. Più pacifici di così si muore! La cosa che mi dispiace è che, non avendo una distribuzione ampia, le persone che a Birra dell’Anno 2013 hanno assaggiato le nostre birre non hanno potuto riprovarle successivamente con continuità. Poi capisco anche gli esperti, che in quel momento erano molti, perché è una fiera davvero settoriale, dove c’è gente che pretende… anche perché, d’altronde, avevamo vinto due premi difficili come quelli per le Pils e le Bitter.

Insomma, avevo 22 anni e per me è stata una stecca sui denti. Vincere il premio per la Bitter e per la Pils in Italia è il top, significa che sei passato davanti anche a mostri sacri in quella categoria, come Arioli per esempio. Ma è andata così e ora non si può far niente.

Comunque, vincere quei due premi ci ha dato una mano, perché dopo abbiamo ripreso con più slancio: bisognava lavorare tanto e le birre son tornate nella direzione giusta. A livello di produzione il problema grosso era che non c’era una vendita continua, diretta e veloce e quindi il prodotto non andava benissimo. Faccio un esempio: la Bitter non è uno stile alla moda, le nostre più vendute sono la Pils e la Strike (Ipa, nda). Queste ultime due hanno una rotazione veloce e le assaggi sempre fresche. Mentre la Bitter no e la differenza tra una di otto mesi e una di due la senti, eccome… e sul mercato, ai tempi, avevamo anche Bitter di otto mesi. Entrare nel meccanismo di commercializzazione non è così banale.

Parlavi di momenti difficili prima, l’episodio di Birra dell’Anno è stato il primo, è successo altro?

Sì, a ottobre 2014 credo che il birrificio stesse per chiudere. Allora, ho preso io in mano la parte commerciale senza promettere niente a nessuno. Ma ho fatto delle scelte sulla logica dei distributori e abbiamo spinto… così la birra era sempre fresca, con rotazione costante e ha iniziato a viaggiare veloce. Ora escono birre che non hanno nemmeno un mese. Ed è cambiata l’ottica anche dei clienti di riferimento, i miei sono i pub e i grossisti, non il consumatore finale. Se questi primi due mi danno feedback positivi, zero problemi.

Come vi muovete tra distributori e publican?

Ho sposato la politica del distributore unico nazionale, che è un’arma a doppio taglio: non differenzi il tuo mercato, nel senso che se poi quel distributore ti molla e lui da solo assorbiva metà della tua produzione, son dolori. Però mi sono sempre domandato: ma perché dovrebbe mollarmi??? (ride)

Cuzziol è il mio distributore a livello nazionale e ha l’esclusiva. Ci sono poi alcuni pub che da subito hanno creduto in noi e con cui continuiamo ad avere un rapporto diretto, anche personale di amicizia. Ma c’è distributore e distributore… abbiamo avuto esperienze con grossisti che prendevano la birra e la lasciavano al sole a rovinarsi. Scegliere chi ti distribuisce non è semplice, ma io sono stato fortunato e sono già tre anni che lavoro con loro.

Cuzziol distribuisce anche birre industriali. Quindi, capita di vedere BAV in pub non specializzati in birra artigianale accanto a birre industriali, che niente hanno a che vedere con voi.

Sì. Per me non esiste una differenza tra birra artigianale e birra industriale, ma tra birra fatta bene o fatta male. Il divario sostanziale tra un birrificio industriale e uno artigianale sta essenzialmente nelle persone. Nella storia che c’è da raccontare. A me piace guardare le campagne pubblicitarie dei birrifici industriali, e noto che la comunicazione sul prodotto è asettica, mentre si cerca di variare su altri campi. Il mercato della birra industriale è il 97% circa, a noi rimane il 3%. I volumi non stanno crescendo, la gente insomma non beve di più, per cui si tratta di andare a togliere qualcosa a qualcun altro. Trovo molto più interessante quel 3% perché dà più spunti. 

Quindi, non fai crociate contro l’industria, anzi, nei pub ci sono le tue birre accanto a birre industriali.

Ribadisco, è molto interessante il 3%, ma il settore della birra è il 97%. Ed è impossibile che abbiano torto su tutto. Secondo me, sono molto efficienti a livello commerciale e di comunicazione e noi piccole aziende dobbiamo imparare molto dalle loro tecniche di vendita. Loro fidelizzano i clienti… chi non ha mai bevuto una Guinness o una Urquell, sono brand storici, niente da dire, ma ci sono publican che non toglierebbero mai la Tennent’s dalle proprie spine, perché alla gente piace e torna a comprarla, quindi significa che qualcosa ha funzionato.

A chi ti rivolgi, secondo te, distribuendo in questi pub non specializzati in birra artigianali?

Io mi rivolgo ai grossisti, a me interessano quelli. Il pub è spinto a vendere birre industriali per una questione economica, quindi è positivo che inizi a prendere anche birre artigianali per dare una alternativa e fare cultura birraria.

Poi ho capito questo: se riesco a vendere la mia birra a Roma e io non posso essere presente per raccontare il mio prodotto al consumatore, sarà il tramite (distributore o publican, a seconda) a farlo per me. Sarà lui a fare cultura del prodotto, l’intermediario. Quindi, è lui che avrà il rapporto diretto con il consumatore finale, che se ne occuperà.

Sì, sempre che poi i publican raccontino effettivamente la differenza tra una tua birra e una Guinness.

Certo, ma dipende anche molto dal distributore. Dobbiamo capire che è un cerchio che si chiude: dal produttore, alla maniera giusta di comunicare alla maniera giusta di vendere. Tutto è correlato. Non c’è produttore artigianale che, per quanto bravo nel fare la birra, possa fare a meno di comunicare il proprio prodotto o di commercializzarlo a dovere. È una questione aziendale! E molto è responsabilità del grossista: per esempio, una volta sono andato in un pub dove le birre avevano tutte lo stesso difetto metallico. Se il distributore lavora bene, aiuta il pub anche in queste cose, con un impianto fatto bene, pulito, insomma tutte quelle cose che, se il pub deve fare da solo, spende un sacco di soldi… Un buon distributore ti dà tutte le armi per offrire il prodotto nella sua massima espressione.

Io credo che per cominciare a lavorare bene con la birra artigianale il punto focale oggi sia la distribuzione. Poi è anche vero che, quando apri un birrificio, la prima cosa alla quale devi pensare è la materia prima, il prodotto fatto bene. Prima di tutto la filosofia produttiva, devi capire chi sei, essere conscio di che cosa vuoi fare e di come comunicarlo. I birrifici oggi mancano di identità. Chi siete? Non è una domanda che ha una risposta immediata… non so chi sono io a 26 anni! Ma è fondamentale anche la filosofia commerciale.

Più volte, parlando della gestione del birrificio, mi hai detto “È una questione aziendale”. Ci spieghi che cosa intendi?

Intendo che se hai davvero una passione smodata per la birra non apri un birrificio, te la fai a casa. Perché lì fai quello che vuoi, nessuno ti dice niente. 

In birrificio invece?

In birrificio… non sempre. Per arrivare a quel punto, intanto devi avere un piano e poi devi fare dei compromessi. “È una questione aziendale” significa che se vuoi fare una birra nuova, la devi giustificare; se poi la vuoi vendere, devi costruirci anche la storia intorno, una motivazione, credo. Per poterlo fare, e rischiare, devo vendere tantissima Pils, che è la nostra birra base, quella che ci fa il fatturato. Se io domani mi stancassi di fare la Pils, che è quella che mi paga le spese, sarebbe un problema! Questo è il tipico compromesso che devi fare, quando intraprendi una strada imprenditoriale come questa.

Se ami la birra, è meglio che te la fai a casa tua perché sei autonomo e fai quel che desideri. Infatti, noi ci facciamo anche la birra a casa, Dario produce due birre diverse a settimana in casa propria, lì sperimenta davvero. È questo poi che ti soddisfa. Perché non è detto che quel che fa il birrificio nel quale lavori, a livello filosofico, per come è stato impostato all’inizio e per come deve crescere, ti appaghi.

Ultima domanda: che cosa ne pensi delle “birre Disneyland”?

Noi vediamo la birra in maniera verticale. Oggi, dopo 20 anni di birra artigianale in Italia, non mi sorprende più la sperimentazione sulla materia prima. Non approvo elementi alieni, tipo peperoncino, sale di Cervia, radicchio. Io trovo molto più interessante sperimentare con i 4 ingredienti principali perché ci sono talmente tante variabili che puoi fare quello che vuoi. È molto più interessante un metodo torpedo per la luppolatura continua anziché l’uso di una spezia nuova che non è mai stata usata in una birra. Non trovo sia sbagliato, è solo una opinione personale. Poi un giorno magari cambierò idea…

Ma oggi, per esempio, stimo chi fa decozione, perché significa che ha studiato e che ha provato, riprovato e riprovato ancora quel tipo di tecnica. Secondo me la sperimentazione è su questo tipo di elementi. Credo che oggi molti non danno nemmeno più importanza a un mash che invece ti cambia il prodotto radicalmente.

L'autore: Alessandra Di Dio

Dopo un passato come editor in chief, ha deciso di assecondare la sua natura mutevole, scegliendo la via della libera professione: oggi lavora come copywriter, blogger, social media strategist e ufficio stampa nel settore food&beverage, e si occupa soprattutto di birra artigianale. Inoltre, continua a prestare la sua penna a diverse case editrici, sia in veste di ghostwriter sia come editor.

Leggi anche

Il ritorno di Leonardo Di Vincenzo nel mondo della birra: un’intervista in occasione dell’apertura di Gabrini

Per chi vive a Roma quello di Franchi non è un nome qualunque. Per tantissimi …

Come il progetto Be Grapeful ridefinisce le IGA: intervista a Ivano Astesana del Birrificio della Granda

Lo scorso marzo partì, inizialmente un po’ in sordina, il progetto Be Grapeful del Birrificio …

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *