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Birraio in Nuova Zelanda dopo gli ori e le Olimpiadi: intervista a Daniele Danesin

Se c’è una cosa che dovreste aver imparato è che la birra è in grado di regalare storie molto particolari. Potrei raccontarvi quella che ieri mi ha portato a passare un’uggiosa serata romana seduto al bancone del Macche, in compagnia di un birraio proveniente dalla Nuova Zelanda. Oppure potrei raccontarvi proprio quella di quel birraio, nato a Como nel 1985 e che oggi produce birra dall’altra parte del mondo. Il suo nome è Daniele Danesin e qualche anno fa compì una scelta di vita drastica e coraggiosa, avvenuta quando il suo nome era conosciuto in Italia e nel mondo per un motivo ben diverso: il canottaggio. Durante la sua carriera da atleta Daniele ha infatti vinto, tra gli altri, cinque titoli mondiali assoluti in specialità non olimpiche e un oro agli Europei del 2011 con il quattro senza leggero, oltre ad aver rappresentato il nostro paese ai giochi Olimpici del 2012.

Oggi Daniele vive nella città di Christchurch e lavora nel birrificio Cassels & Sons. In questi giorni è in vacanza in Italia e, senza esserci mai conosciuti prima, mi ha proposto di condividere un paio di birre insieme e di assaggiare qualche sua produzione. Non potevo certo tirarmi indietro e ne ho approfittato per intervistarlo, sicuro che la sua storia possa risultare molto interessante e, magari, fonte d’ispirazione per altri appassionati.

Ciao Daniele, piacere di conoscerti. Da quanto tempo vivi in Nuova Zelanda? Perché hai deciso di trasferirti lì a fare il birraio?

Oggi è lunedì 9 aprile… quindi sono precisamente tre anni che mi sono trasferito in Nuova Zelanda. È stata una decisione che ho preso in seguito alle evoluzioni della mia vita. Da atleta appartenevo al gruppo sportivo della Forestale, dove mi sono sempre trovato benissimo e non ho mai pensato di lasciare l’attività. Successivamente, dopo le Olimpiadi del 2012, mi presi un anno sabbatico e rimasi tranquillo dal punto di vista sportivo: gareggiai solo nei campionati italiani e continuai ad allenarmi a casa, ma non partecipai ad alcuna gara internazionale. Quindi provai a riprendere l’attività a pieno regime, incontrando però dei disagi – chiamiamoli così – con la Federazione. Così decisi di abbandonare la vita da atleta e trovai un impiego “da ufficio” con la Forestale. Già sapevo però che quel lavoro non faceva per me: avevo bisogno di sporcarmi le mani, di creare qualcosa di mio.

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E da qui la scelta di andare in Nuova Zelanda e cominciare lì un nuova vita…

Esattamente. Quando partii dall’Italia la mia idea era di andare in Nuova Zelanda e aprire un birrificio, convinto dal pessimo stato della scena brassicola che avevo trovato nel 2010, quando visitai il paese per i Mondiali di canottaggio. Invece, appena atterrato mi capitò di assaggiare una birra favolosa e capii che nel frattempo avevano colmato il gap. Così cambiai momentaneamente idea e trovai un impiego a Christchurch come carpentiere, poiché la città era (ed è ancora) in costruzione dopo il terremoto del 2011. C’era tantissima richiesta: andai in agenzia di collocamento e il giorno dopo cominciai a lavorare.

Dopo due o tre mesi compresi però che quel posto mi stava stretto e che la mia strada era nella birra. Chiesi in giro e dopo una settimana fui chiamato da un birrificio locale come assistente di produzione. I problemi sopraggiunsero successivamente, perché in Nuova Zelanda con il permesso di soggiorno temporaneo non puoi lavorare per più di tre mesi per lo stesso datore di lavoro. Il titolare mi ringraziò, ma mi spiegò che non poteva inquadrarmi come dipendente fisso, così fui costretto a cercare un’altra occupazione. Fortunatamente però mi aiutò a trovare un altro birrificio a cui serviva una figura simile alla mia: rimasi lì un paio di settimane, finché non si liberò un posto presso Cassels & Sons. Lì mi comunicarono l’intenzione di procedere subito con le pratiche per il visto e dopo tre settimane ero praticamente già responsabile di produzione.

Parlami di Cassels & Sons. Quando ha aperto? È un birrificio di grandi dimensioni?

Il birrificio è stato aperto nel 2009-2010. All’inizio la dimensione era molto familiare e l’impianto quasi paragonabile a quello di un homebrewer, inoltre con il terremoto del 2011 l’attività fu costretta a fermarsi temporaneamente. In seguito i titolari costruirono un impianto da 700 litri con 4 fermentatori funzionante a legna: oggi chiaramente non viene più utilizzato per la produzione standard, ma viene usato in qualche occasione più che altro per fini dimostrativi.

Il salto di qualità avvenne dopo il 2014, quando è stata acquistata l’attuale brewhouse da 25 hl. Possiamo spingerla fino a 29-30 hl e facciamo sempre doppia cotta. Quando ho cominciato credo che la produzione annuale fosse intorno ai 2.500 hl annui, ora andiamo per i 10.000 hl.

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Che tipi di birre produci presso Cassels & Sons?

La nostra gamma di birre è composta da una IPA con luppoli Bravo, Centennial e Calypso, una Pale Ale con Nelson Sauvin che è l’unica birra chiara che produciamo regolarmente, una Red IPA che si è rivelata un successo di vendite sin da subito, una Best Bitter destinata solo al confezionamento in cask, una Milk Stout che in cask rende in maniera favolosa e la 1PA, una single hop con luppolo Taiheke (ex New Zealand Cascade). La scorsa estate abbiamo realizzato una Golden Ale come stagionale, mentre recentemente abbiamo brassato una Braggot dove ho usato 65 chili di miele di timo selvatico per 1.200 litri di birra (Abbiamo assaggiato insieme quest’ultima al bancone del Macche ndr). Il nostro prossimo progetto è di creare una one shot al mese e di inserire stabilmente in produzione quelle che incontreranno i maggiori consensi di pubblico.

Com’è lo stato della birra in Nuova Zelanda?

Ci sono tantissimi luppoli nuovi che non vengono neanche esportati, perché la produzione è ridotta: anche le varietà più famose (Nelson Sauvin, Motueka) ormai hanno raggiunto prezzi stellari. Per quanto riguarda i birrifici, invece, al momento stanno sperimentando tantissimo. La cosa bella della Nuova Zelanda è che ci sono tanti margini per sperimentare. Ci sono molti produttori che usano ingredienti 100% locali e questo è anche un po’ un limite, perché secondo me rischiano di puntare troppo su quel concetto o sull’idea del “chilometro zero” quando a volte non si può prescindere dai malti tedeschi o da quelli speciali australiani. Però la qualità media è alta, anche perché la birra artigianale lì costa parecchio. Una pinta, servita praticamente senza schiuma, costa 12 dollari, cioè 9 euro. Poi dipende dalla gradazione alcolica: ci sono birre che possono raggiungere anche i 15-17 dollari.

Vanno tantissimo i cask, perché chiaramente c’è molta influenza anglosassone. Le beer firm non mancano e ci sono quattro o cinque birrifici che lavorano esclusivamente per conto terzi. Il problema da noi è che la Nuova Zelanda è divisa in due isole principali e quindi se hai un birrificio nell’isola del sud è un po’ difficile portare la birra a quella del nord e viceversa. I trasporti sono buoni, ma non esistono i distributori: ce n’è solo uno e non segue sempre le consegne con la giusta cura. Quindi a molte beer firm conviene lavorare con due birrifici, uno situato al nord e uno al sud.

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E a proposito di sperimentazioni? C’è interesse nei confronti degli affinamenti in legno?

Sì e sono due i birrifici che in particolare adoro da questo punto di vista. Uno è molto al nord, l’altro ha sede a Wellington, la capitale. Entrambi stanno iniziando a produrre birre acide e invecchiamenti in botte davvero interessanti. Soprattutto il birraio del primo è un patito di maturazioni in legno e davvero talentuoso in questa specialità. Come birrificio probabilmente anche noi quest’anno cominceremo qualche esperimento: personalmente sono un patito di queste birre. Al vaglio ci sono un paio di possibilità: la prima è invecchiare la nostra Milk Stout in botti che un’azienda locale di gin utilizza per affinare il suo prodotto con aggiunta di cacao; la seconda è la ricerca di una buona botte di vino rosso dove lasciar riposare la Braggot.

Progetti per il futuro? Pensi di tornare in Italia?

Proprio recentemente la mia ragazza e io abbiamo ricevuto la residenza temporanea, che fra due anni diventerà permanente. Solo allora decideremo il da farsi, ma rimanendo lì ancora altri tre anni potremmo ottenere anche il passaporto neozelandese. La Nuova Zelanda ha solo due difetti: il clima, che può cambiare velocemente con escursioni termiche paurose, e la distanza da casa, di molto superiore anche alla stessa Australia. Per il resto è francamente un paradiso, da molti punti di vista.

 

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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