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Diamo un’occhiata alla ricerca di Unionbirrai sulla birra artigianale

Tra gli appuntamenti previsti dal programma di Selezione Birra c’è stata anche la presentazione dei risultati della ricerca Unionbirrai sul settore della birra artigianale italiana. Nonostante questo lavoro sia passato quasi in sordina, si tratta di una delle ricerche più importanti che sono state svolte nell’ambiente: per la prima volta è stato “fotografato” il comparto artigianale con strumenti metodologici seri e precisi. Il risultato sono una serie di dati, ottenuti grazie alla consulenza dell’Altis dell’Università Cattolica di Milano, che risultano molto interessanti per capire il mercato. Il documento è liberamente scaricabile in pdf, così ho pensato di analizzare insieme quanto emerso dallo studio.

Partiamo dalle cifre. La ricerca si è basata sulle risposte fornite mediante un questionario telematico sottoposto a tutti i birrifici e brewpub d’Italia. Delle 335 aziende contattate (il totale di birrifici al momento dello studio), hanno risposto in 94, cioè il 28% del totale. Su questa base sono stati prodotti i risultati che andremo ad analizzare. Le imprese brassicole sono state divise tra birrifici e brewpub per le grandi differenze che entrano in gioco a livello di modello di business.

Nel 2011 la produzione media annua dei birrifici partecipanti al progetto si è assestata sui 411 ettolitri, che, con le dovute proporzioni, corrispondono a 137.680 ettolitri totali. Questa è la quantità di birra artigianale prodotta nel 2011, poco superiore all’1% del totale prodotto nel mercato secondo l’Annual Report di Assobirra (12.810.000 hl). Siamo quindi ancora lontani da quel 2% che avevamo ipotizzato tempo fa, sebbene si tratti di una stima e non di un dato reale.

Sfogliando il documento di Unionbirrai si incontrano molti numeri interessanti. Ad esempio si scopre – anche se questo dato era già conosciuto – che le regioni con più microbirrifici sono Lombardia e Piemonte, rispettivamente con 53 e 46 aziende. Insieme coprono quasi il 30% dei microbirrifici italiani e contribuiscono a sottolineare le discrepanze tra il Nord e il resto della nazione. Le cause probabilmente non sono solo di ordine imprenditoriale, ma anche culturale: non è un mistero che nelle regioni settentrionali ci sia storicamente una certa predisposizione alla bevanda di Cerere.

Per capire il grado di consolidamento del settore, emblematici sono i numeri sulla gestione aziendale. Non tanto quelli sull’assetto societario, quanto quelli riguardanti il totale dei dipendenti: più della metà dei birrifici in senso stretto va avanti senza dipendenti, mentre solo il 4,28% di essi dispone di più di 4 dipendenti. Sono dati quasi impressionanti se si pensa l’impegno che richiede un’azienda brassicola e offre un’idea dello stato del settore. Un settore ancora giovane quindi, ma anche poco strutturato: i dipendenti non sono solo gli addetti alla produzione, ma anche chi svolge mansioni collaterali. Diverso il discorso per i brewpub, che ovviamente richiedono una forza lavoro numericamente maggiore.

Altri dati interessanti riguardano il “packaging”. Quasi la metà dei brewpub non imbottiglia e sta a voi decidere se la stranezza è in un senso o nell’altro 🙂 . Tra i birrifici invece più di 1 su 5 propone solo bottiglie, evitando di infustare: significa che circa il 20% dei birrifici italiani non compaiono tra le spine dei pub; anche in questo caso lascio a voi decidere se è un dato basso o alto.

E passiamo alla produzione. Il 61,70% dei produttori italiani, che siano birrifici o brewpub, produce fino a 250 ettolitri l’anno, mentre solo il 15,96% supera i 700 hl. Curioso notare come in quest’ultima fascia ci siano più brewpub (16,67%) che birrifici (15,71%). Molto interessante è il dato che emerge incrociando scelte di confezionamento, gradi di saturazione della capacità produttiva e fatturato: la conclusione è che:

[…] in assenza di linee d’imbottigliamento in grado di garantire un’efficienza elevata nel processo, un forte sbilanciamento verso il formato in bottiglia riduce la possibilità di sfruttare a pieno la capacità produttiva dell’azienda.

I dati sulla ripartizione degli investimenti sono altresì molto interessanti. Quasi la metà sono dedicati alla sala cottura, quindi alla cantina e al confezionamento. Comunicazione e marketing e logistica/distribuzione sono fanalini di coda, con una curiosa differenza: i brewpub, nonostante in teoria avrebbero meno interesse a “comunicare” i loro prodotti (il loro mercato è principalmente il locale di mescita), investono molto di più dei birrifici (11,57% contro 7,69%). Entrambe le voci crescono prendendo in considerazione gli investimenti futuri, dove, come prevedibile, si riducono sensibilmente quelli destinati alla sala cottura.

Concludo infine con una voce che mi era sfuggita prima, ma che molti considerano la più interessante: quella relativa al fatturato 🙂 . Cominciamo col dire che il brewpub garantisce maggiori introiti: quasi 1 su 10 registra oltre 800.000 euro di fatturato contro il 3% dei birrifici. Per il resto c’è una distribuzione abbastanza omogenea tra le altre fasce di fatturato: un’azienda su quattro si attesta a meno di 20.000 euro, mentre i restanti microbirrifici si dividono in maniera quasi identica tra chi fattura fra i 20.000 e i 100.000 euro e chi fra i 100.000 e gli 800.000 euro.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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34 Commenti

  1. Andrea il dato Assobirra è relativo solo al totale della produzione italiana……il Totale del Mercato è di circa 17 Milioni di Hl……

  2. Ho trovato lo “studio” abbastanza ben fatto ma monco, anche se letto in velocita’. Secondo me manca una bella parte finale di conclusioni/analisi/sintesi dei freddi numeri magari comparati con altri settori simili. Non e’ un lavoro scientifico ma un lavoro da cui si puo’ partire per farne uno. Una raccolta dati più che uno studio.

    • In parte ti do ragione, anche se non è una mera esposizione dei dati, ci sono anche alcune interpretazione degli stessi.

  3. Interessante, non l’ho letto ancora letto tutto, ma tu hai evidenziato gli aspetti di maggior rilievo.
    La cosa certa è che questo è un settore che non crea occupazione, perché sostanzialmente la gestione dell’attività è ancora “famigliare”.
    Quindi l’unico modo per entrare nel settore è farlo da imprenditori.

    • Ottima lettura, un po’ triste per chi cerca lavoro nel settore ma giustissima

      • Triste sì, ma in fondo non potevamo aspettarci un dato di verso.
        Molti birrifici sono ancora allo stato “embrionale” e un dipendente in regola costa bei soldini.
        Per produzioni modeste non vale nemmeno la pena, diciamolo sinceramente.
        Vedremo come evolverà la situazione in futuro, ma dubito che l’offerta di lavora possa crescere notevolmente.

  4. Massima stima per l’abruzzo, come al solito 😉

  5. Ero presente ed ho molto apprezzato il lavoro svolto, sia pure con qualche difficoltà personale nella comprensione dei grafici “a pallini”. Si tratta di un lavoro serio ed obbiettivo che presenta in modo chiaro la realtà dei “piccoli italiani”. Mi preoccupa solo un pò il dato dei 411hl annui in quanto lo trovo un valore decisamente sotto il punto di pareggio. Rinnovo i miei complimenti.

  6. Letto ieri nei punti essenziali, mi sembra ogni voce analizzata dia un’ulteriore conferma di quanto il brewpub sia la più sensata maniera per rientrare alquanto presto nell’investimento.

    • Però di contro richiede un investimento non indifferente…
      Da notare che il numero di soci in un brewpub è spesso elevato, quindi il fatturato va distribuito in più soggetti

  7. Solo 94 aziende su 335,mi sembrano un pò pochine.Non capisco tutta questa ritrosia a partecipare a una ricerca che dovrebbe essere cosiderata utile a tutti.
    In questo modo l’indagine rischia di essere falsata,visto che la piccola quota di partecipanti non può essere esemplificativa di tutto il movimento.
    Molto deluso da questo dato…..molto deluso da chi non ha partecipato.

    • Sai che novità… e che tristezza

      • viene il sospetto che molti birrifici facciano fatica a recuperare i dati: un po’ è dovuto alla mancanza della necessaria manodopera, cioè vorresti rispondere, ma finisce che non trovi il tempo, ma in parte temo che anche la disorganizzazione la faccia da padrona… Poi sicuramente qualcuno è “geloso” dei suoi dati (maddeché poi?!)

      • se l’hanno inviata via email il 73% dei birrifici non risponde. Ho tirato un numero a caso basato sulla mia esperienza (quando ho provato a richiedere informazioni sui loro prodotti che avrei anche acquistato probabilmente). Quindi figurati su una cosa del genere che aveva piu’ di 2 pagine e 3 figure.

        • Domanda generale, c’è troppa gente che fa dei lavori per i quali viene pagata e chiede collaborazioni gratuite.

    • Anch’io sono molto deluso da questo dato, è per questo che sottolineavo la stima per l’abruzzo

  8. Interessante ma la prima impressione è la stessa di Mase. Il campione analizzato (che ha risposto) appare troppo piccolo per essere significativo.
    Non so che attendibilità possono avere delle conclusioni tratte da questi dati.
    Una però è inconfutabile.
    Manca la comprensione dell’importanza di questi strumenti.
    Uno studio ben fatto andrebbe a vantaggio di tutti, per cui non rispondere certifica l’impressione che un vero movimento non esista. Dove per movimento intendo varie componenti quali spirito di gruppo, obiettivi condivisi ecc.

    Sulla creazione di un movimento omogeneo e dinamico dovrebbe concentrarsi l’attenzione di tutti noi. UB può essere un mezzo per raggiungere l’obiettivo ma non può essere la scusa per la mancanza di coesione.

  9. @Livingstone, l’ultimo che obietta circa la rappresetnativita’. l problema e’ un filo diverso, e un poco piu’ complicato.
    In primis, 28%, per una indagine a campione, e’ un signor campione. Per un censimento di settore, invece, comporta significativita’ ZERO dei risultati e delle analisi. Quindi, per capire se siano sufficienti o troppo pochi, dovete guardare alla presentazione dello studio.
    Sul questionario, e sul modo di somministare, la questione e’ tecnica, e sorvolo volutamente.
    Schigi ponte la cosa in termini di gratuita’ vs. volontarieta’, e sul fatto che Altis sia stata pagata; non credo sinceramente faccia la differenza. A me pare piuttosto che UB si sia appoggiata ad una societa’ specializzata per ottenere certe cose. E la societa’ specializzata abbia fatto (poco piu’, poco meno) altra cosa.
    E non aggiungo altro, perche’ giustamente chi ha speso i soldi e chi ha messo la firma sotto la ricerca potrebbero ritenere i commenti meritevoli di “sculacciate” giudiziarie; abitudine abbastanza frequente quando c’e’ di mezzo del fatturato.

    Paolo

    Paolo

    • io non ho capito un granchè di quello che hai detto…..era uno scioglilingua?

    • Il 28% per un’indagine a campione sarà un signor campione se la popolazione è molto grande o piuttosto omogenea. Essendo la popolazione relativamente piccola e molto disomogenea ritengo che il 28% sia assolutamente insufficiente per un utilizzo pratico dei dati.
      Concordo che non possano essere attribuite colpe a UB o ad ALTIS.
      La prossima volta però sarebbe necessario cercare di ottenere un censimento completo.

      Sugli obiettivi di UB sarebbe invece interessante approfondire.
      Cosa ci si prefiggeva?
      Come sono stati letti i risultati?

  10. Buongiorno a tutti
    Sono la persona che si è occupata direttamente della ricerca per conto di ALTIS.
    Colgo l’occasione per ringraziare Andrea per aver dato attenzione alla cosa e aver favorito un dibattito, cosa senz’altro costruttiva. Complimenti inoltre per il blog che trovo sempre molto interessante.
    Condivido molte delle osservazioni da voi fatte e per le quali vi ringrazio: costituiranno sicuramente il punto di partenza per le prossime edizioni (visto che è nostra intenzione migliorarci e fare di questa ricerca un appuntamento annuale).
    Per quel che riguarda il tasso di risposta (che influisce certamente sulla significatività dei dati) speriamo di poter fare di più e di poter offrire agli imprenditori validi incentivi per aumentarlo anche se un 28% al primo giro non è da buttare via, soprattutto avendo come target micro e piccole imprese. Credo che il valore principale di questo lavoro sia quello di aver dato il calcio d’inizio e di poter sensibilizzare gli operatori del settore circa l’importanza della ricerca.
    Chiaramente poter condurre un censimento sarebbe la cosa ideale, tuttavia quanto ottenuto è indicativo per comprendere gli ordini di grandezza attuali di questo segmento.
    Infine, confermo che la ricerca è stata completamente autofinanziata. E’ un progetto in cui ho creduto molto e che abbiamo portato avanti con passione nonostante non vi fosse alcuno sponsor (che stiamo però cercando per finanziare la prossima edizione).

    Benedetto

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