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Haandbryggeriet (non) cede il 60%: il futuro della birra craft è sempre più nebuloso

Attenzione: a differenza di quanto esposto nell’articolo e di quanto raccontato dalle testate norvegesi all’epoca, Haandbryggeriet non ha mai venduto le sue quote. Piuttosto si è creata una scissione tra due soci (che effettivamente erano intenzionati a vendere a NorBrew) e altri due che invece hanno mantenuto il controllo del birrificio. Oggi Haandbryggeriet è un birrificio totalmente indipendente, le cui quote di maggioranza sono nelle mani di tre soci (le restanti sono possedute da aficionados del birrificio e altri soci minori).

Il susseguirsi delle acquisizioni nella scena craft internazionale non accenna a fermarsi, anzi è ipotizzabile che nei prossimi mesi diventi ancora più serrato. L’ultima notizia arriva dalla Norvegia e vede protagonista uno dei produttori più apprezzati in patria, nonché alle nostre latitudini: Haandbryggeriet. Negli scorsi giorni, infatti, il 60% delle quote del “birrificio della mano” è stato ceduto alla società NorBrew, nell’ottica di una strategia ben precisa atta a invadere con decisione il mercato della birra artigianale. NorBrew non è un’industria brassicola, ma un distributore del comparto beverage che recentemente ha acquistato altri 3 microbirrifici locali, diventando di conseguenza il più grande gruppo norvegese nell’ambito craft.

A quanto pare l’operazione ha avuto diversi interlocutori e a un certo punto sembrava che le quote di Haandbryggeriet fossero destinate a San Miguel, multinazionale filippina che produce l’omonima birra di origine spagnola. Alla fine invece si è evitato che il controllo del microbirrificio finisse in mani straniere e soprattutto che la quota di maggioranza andasse a un produttore industriale. Il fatto che NorBrew sia un distributore e non un birrificio è un dettaglio da non sottovalutare (in positivo), tuttavia è palese che con questa operazione Haandbryggeriet ha sacrificato la propria indipendenza nonostante le dichiarazioni accomodanti dei nuovi acquirenti.

Se allontaniamo il punto di vista e osserviamo la vicenda in maniera più generale, quello di Haandbryggeriet è l’ennesimo caso internazionale di un birrificio craft che perde la sua autonomia. È ormai evidente che il fenomeno delle acquisizioni non è più ad appannaggio del solo movimento americano, poiché coinvolge costantemente anche le nazioni europee. Ma fate attenzione, perché il discorso non è solo meramente geografico: sono le stesse acquisizioni ad aver cambiato caratteristiche. Fino a qualche tempo fa le multinazionali puntavano (soprattutto negli States) produttori che avevano già raggiunto una dimensione ragguardevole; ora invece i destinatari di certe acquisizioni sono realtà relativamente molto piccole.

È un cambio di prospettiva molto preoccupante. Per intenderci nel 2011 AB Inbev ottenne il controllo di Goose Island, un birrificio sì craft, ma capace di produrre la bellezza di 127.000 barili di birra l’anno (circa 150.000 hl). Cinque anni più tardi troviamo che la stessa multinazionale compra in Italia un’azienda con una produzione pari a un decimo di Goose Island – chiaramente sto parlando di Birra del Borgo. E non è l’unico caso: a ottobre 2015 Duvel firmò una partnership con l’olandese ‘t Ij (20.000 hl annui) e qualche mese dopo la stessa AB Inbev raggiunse un accordo con l’inglese Camden Town (credo circa 50.000 hl annui all’epoca). Ora è la volta di Haandbryggeriet, birrificio che produce circa 10.000 hl annui.

Fino a qualche tempo fa sembrava che le multinazionali fossero interessate solo ai birrifici craft che avevano da tempo raggiunto dimensioni elevate e un certo grado di solidità. Ora invece la strategia appare cambiata e l’industria (o chi per lei) si accontenta anche di realtà molto più piccole. Il risultato è che se prima certe operazioni potevano sembrare lontane alla nostra quotidianità di appassionati – a parte chiaramente poche eccezioni – ora potenzialmente qualsiasi birrificio di dimensioni medie può diventare oggetto di un’acquisizione.

Se il fenomeno continuerà a crescere nei prossimi mesi, presto perderemo il conto dei microbirrifici passati nelle mani dell’industria o che semplicemente avranno perso la propria indipendenza. Nella peggiore delle ipotesi saremo costretti a cambiare il nostro modo di vedere il mondo della birra di qualità: fino a ieri la distinzione tra industriale e craft era abbastanza netta, ma in futuro i confini potrebbero diventare decisamente più labili, aumentando il disorientamento dei consumatori.

Nei prossimi anni potrebbe risultare difficile districarsi tra produttori dalla natura molto variegata. In questa visione distopica – è ovviamente un’iperbole – ci ritroveremo a destreggiarsi tra birre realmente artigianali, birre crafty delle multinazionali, birre di birrifici craft controllati dall’industria, birre di birrifici dall’anima craft, ma ormai giganteschi. Viste le recenti evoluzioni, potremmo trovarci nella situazione paradossale per cui un produttore da 50.000 hl sarà più artigianale di uno da 10.000. Sicuramente questo fenomeno è già in atto, ma prossimamente potrebbe acuirsi in maniera decisiva.

La riflessione successiva finisce inevitabilmente sulla definizione di birra artigianale e sul suo reale senso, ma non è questo l’obiettivo del post. Piuttosto è quello di sottolineare come il mercato italiano (e non solo) sia destinato a cambiare ancora in futuro e a rendere tutto più dannatamente complicato.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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Un commento

  1. È tutto da vedere. Potrebbe anche definirsi il paradosso per cui l’industria si troverà a rosicchiare il mercato del craft… permettendo ai birrifici acquisiti di continuare a produrre craft.
    L’evoluzione di Birra del Borgo sarà, in questo senso illuminante.

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