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In Italia torna il vuoto a rendere e lo stabilimento di produzione in etichetta

Nella successione di notizie che ogni giorno cerchiamo di riportare su Cronache di Birra, occorre talvolta allontanarsi dai temi più strettamente legati alla bevanda per analizzare aspetti secondari, ma che si ripercuotono sulla nostra quotidianità di appassionati. Insomma, è giusto segnalare le nuove aperture, gli eventi a tema e le birre inedite dei birrifici italiani, ma anche riportare tutte quelle vicende che a prima vista appassionano meno: le proposte di legge legate alla birra, la questione delle accise, le analisi di mercato e così via. Negli ultimi giorni, ad esempio, dalla politica italiana sono arrivati due annunci che potrebbero avere un impatto interessante sul modo di acquistare e consumare birra nel nostro paese: mi riferisco all’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione per i prodotti alimentari e al ritorno del vuoto a rendere per acqua e birra.

Partiamo dalla prima novità, che è entrata in vigore con il decreto approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri una decina di giorni fa. Come spiega Repubblica il provvedimento non necessita di molte spiegazioni: tutti i prodotti alimentari – quindi anche la birra – da ora in poi dovranno necessariamente riportare in etichetta le informazioni relative alla propria sede di produzione. Se la cosa non vi suona nuova è perché questo obbligo era già presente in Italia, salvo essere stato abrogato nel 2014 con l’adozione del Regolamento UE 1169/2011. Tale regolamento dettava nuovi criteri per le etichette alimentari, nell’ottica di una maggiore trasparenza nei confronti dei consumatori. Tuttavia, per qualche strana ironia, sollevava le industrie dal riportare lo stabilimento di produzione, limitando l’obbligo alla semplice sede legale. Capite bene però che le due informazioni sono concettualmente molto diverse: una multinazionale ad esempio può avere sede legale in Giappone e produrre le sue birre a nome italiano in Sudafrica – ogni riferimento a situazioni realmente esistenti è puramente casuale – senza che il consumatore conosca la reale provenienza del prodotto.

Un altro esempio molto più vicino al nostro mondo è rappresentato dalle beer firm. Con la normativa europea un’azienda del genere poteva limitarsi a scrivere la propria sede legale in etichetta e omettere il birrificio utilizzato, creando potenzialmente delle situazioni poco chiare per i bevitori. Pensate a un marchio che esprime un legame con il territorio, ma che si fa realizzare le birre da un produttore distante centinaia di chilometri: per carità, entro certi limiti è del tutto lecito, ma è anche corretto che il consumatore sappia come stanno le cose. Insomma, una buona notizia che pone l’Italia all’avanguardia in Europa e che colma una pesante e incomprensibile lacuna aperta dalla normativa comunitaria. Dal momento della pubblicazione in Gazzetta ufficiale, le aziende avranno a disposizione 180 giorni per adeguare le proprie etichette.

Possiamo definire un illustre ritorno al passato anche la notizia pubblicata ieri su Repubblica e altre testate e che si riferisce alla reintroduzione del vuoto a rendere in Italia. Lunedì scorso il ministero dell’Ambiente ha infatti varato il regolamento attuativo del “Collegato Ambientale” approvato nel 2015 e rivolto al meccanismo di restituzione di bottiglie riutilizzabili. Il provvedimento è finalizzato a limitare l’impatto dei relativi materiali sullo smaltimento dei rifiuti, invogliando i consumatori a riportare le bottiglie alla fonte: il traguardo utopistico è raggiungere l’efficienza e i risultati della Germania in questo settore. Il vuoto a rendere sarà chiaramente volontario e entrerà in vigore per un anno a fini sperimentali.

Le bottiglie (in vetro, plastica e altri materiali) potranno essere riutilizzate fino a 10 volte. Il valore unitario della cauzione sarà proporzionale alla capacità del contenitore: da 0,05 euro per le lattine da 20 cl fino a 0,3 euro per le bottiglie da un litro e mezzo. In nessun caso comunque comporterà un aumento nel prezzo d’acquisto per il consumatore finale, mentre un primo obiettivo è di installare nei supermercati delle macchine del reso in grado di elargire buoni di acquisto in cambio di bottiglie vuote. Per valutare l’impatto della novità e capire se potrà essere realmente efficace, occorrerà attendere 12 mesi e poi analizzare i dati. Nel frattempo già vi ci vedo a raccogliere bottiglie per strada e a portarle al più vicino beershop 🙂 .

Niente di eclatante insomma per il mondo della birra artigianale italiana, ma due notizie che comunque valeva la pena riportare. E chissà che non possano avere una ripercussione importante nella nostra vita di appassionati.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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3 Commenti

  1. Il vuoto a rendere richiede che si attivi tutta la filiera ed alcuni “anelli” sono mancanti come i centri di raccolta e soprattutto i centri di lavaggio. Ne parlai anni fa con specialisti del latte e mi dissero i principali problemi: se le bottiglie non sono largamente standardizzate (come lo 0,5 L in Germania ad esempio), le bottiglie devono tornare all’azienda che le ha riempite, con enorme immagazzinamento di spazi e costi. Inoltre, le bottiglie devono essere lavate con reagenti estremamente aggressivi (mi disse che si dovevano lavare tutte ipotizzando il caso peggiore, e cioè che qualcuno le avesse riempite di gasolio) con un impatto devastante sull’ambiente.

    Vediamo se questo tentativo “all’ Italiana” ha speranza di funzionamento…

  2. Giustissimo ciò che dice sanpaolo, inoltre perché il vuoto a rendere sia efficace, bisogna che esista la produzione locale, come in Germania ed altri paesi che utilizzano questi sistemi, mentre in Italia l’industria birraria ha eliminato le produzioni locali, per fare pochi poli produttivi, che distribuiscono in tutto il territorio. Ciò comporta lunghi viaggi, che rendono vano il vuoto a rendere. Questo compito, cioè la produzione locale, potrebbe essere invece svolto dai micro birrifici, ma nemmeno loro ragionano in ottica locale, nonostante le piccole produzioni, oltre a non essere attrezzati per il recupero ed il lavaggio delle bottiglie, infatti preferiscono il fusto a perdere, rispetto a quello a rendere. Tradotto non prendera mai piede, nonostante qualche decennio fa, si facesse.

  3. Mi sembra un’ottima cosa la reintroduzione del vuoto a rendere, almeno qualche bottiglia in meno sulle nostre strade e nei parchi la eviteremo sicuramente. Dando quasi una parvenza di società civile.
    Quasi.

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