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A proposito di Ratebeer e BeerAdvocate…

ratingNonostante l’estate inoltrata abbia raffreddato la partecipazione sul blog, i post degli ultimi giorni hanno registrato un forte interesse tra i lettori, con molti commenti al seguito. Merito delle diverse posizioni riguardanti i siti di rating birrario – in particolare Ratebeer e BeerAdvocate – che, grazie alla polemica instaurata da Brewdog, sono state ribadite anche nell’articolo di ieri, dedicato ai vincitori del GBBF. Vista l’occasione, ne approfitto allora per concludere il discorso e chiudere il cerchio, riportando i risultati di alcune ricerche scientifiche.

Si tratta di un post di inizio luglio di Jay Brooks, che cita alcuni studi improntati a verificare l’attendibilità dei siti di rating, indipendentemente dall’argomento trattato (Amazon, TripAdvisor, Yelp, ecc.). L’idea comune circa questi strumenti è che i voti siano tanto più attendibili, quanto più numerose sono le recensioni per quel singolo prodotto (che sia un film, un libro o una birra, per l’appunto). E questa regola sembra confermata dai risultati. E’ sicuramente una buona notizia per siti come Ratebeer o BeerAdvocate, che vantano un seguito impressionante a livello di utenti e raters.

La cattiva notizia è che siti di questo tipo presentano per loro natura una serie di limiti strutturali che mettono in crisi il concetto di autorevolezza. In particolare:

  1. Sproporzione: le persone che votano un acquisto hanno già effettuato l’acquisto. Questo significa che in genere sono predisposte positivamente nei confronti del prodotto (altrimenti difficilmente lo avrebbero comprato). Sono inoltre predisposte positivamente nei confronti di ogni prodotto di quell’autore o di quell’azienda, così come altri fan. Inizialmente perciò si registra un gran numero di voti alti, che spingono altri utenti a provare cose fuori dai loro gusti. E se quest’ultimi non ne ricevono un’esperienza positiva, tendono ad affossare il prodotto con recensioni molto negative. Perciò si verificano queste due sproporzioni successive: una sovrastima iniziale, a cui segue una serie di opinioni eccessivamente svalutanti.
  2. Polarizzazione: le persone difficilmente recensiscono prodotti che considerano nella media. Piuttosto tendono a esaltare ciò che amano e a criticare ciò non apprezzano. Di conseguenza per uno stesso prodotto si trovano spesso recensioni da 5 stelle e da 1 stella, con poche vie di mezzo.
  3. L’oligarchia degli entusiasti: spesso si rileva che la maggior parte delle recensioni provengono da una piccola percentuale di utenti, composta da cosiddetti super-raters. A una consultazione non approfondita di un sito di rating questa caratteristica non emerge chiaramente e dunque si finisce per ritenere che al posto di un’oligarchia di entusiasti ci sia un folla di utenti. In pratica il giudizio generale non proviene da una moltitudine di persone, ma è influenzato dall’attività di questi pochi super-raters.

Inoltre molti utenti di siti di rating talvolta hanno la percezione di una manipolazione dei voti, spesso da parte dell’azienda stessa.

E’ interessante scoprire però che i limiti fin qui descritti apparentemente non sono un problema per i siti di rating birrario, che tra l’altro sono espressamente citati dallo studio:

Ratebeer.com può contare su circa 3,000 membri che hanno recensito almeno 100 birre ciascuno. Tutte le birre, eccetto quelle più rare, sono state valutate centinaia o migliaia di volte. Questi numeri impressionanti rendono il sistema praticamente al riparo da tentativi di manipolazione e gli appassionati tendono a recensire ogni birra che provano, non solo quelle che amano e quelle che odiano.

Come a dire che l'”ossessività del rating” che colpisce i raters più incalliti  – e che spesso viene evidenziata dai “detrattori” di questi siti – è proprio il punto di forza di Ratebeer e BeerAdvocate, che in questo modo possono vantare un alto livello di attendibilità.

Alla luce di questi dati possiamo elevare i siti di rating birrario a bibbie sulla birra? Direi di andarci coi piedi di piombo. Le ricerche infatti hanno considerato solo la distribuzione numerica dei voti, senza prendere in considerazione i gusti degli utenti e le mode del momento. Ecco perché nonostante siano attendibili, diversi appassionati non condividono i giudizi consultabili su Ratebeer e BeerAdvocate. Oltre all’obiettività dei numeri, entrano in gioco anche aspetti soggettivi e psicologici, in base ai quali ovviamente si dividono le opinioni della comunità. Però è curioso notare come un sistema promosso da strumenti di questo tipo è in grado di rendere irrilevanti i problemi che attanagliano i siti di rating in generale.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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4 Commenti

  1. L’articolo è molto bello, ma non sono molto d’accordo con la tesi di Jay Brooks che vede i rater di birra esente dai “difetti” di cui sopra. Molto d’accordo invece con le tue considerazioni finali su mode e gusti.

  2. @Alessio
    Non è una tesi di Brooks, ma un dato che emerge dallo studio. Lui si è limitato a riportarlo

  3. sono contento che terzi siano arrivati alle mie stesse conclusioni 🙂

  4. lo ammetto, io non ho l’olfatto…

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