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L’americano Spencer chiude i battenti: era l’unico birrificio trappista fuori dall’Europa

Sabato scorso, con uno scarno messaggio su Facebook, il birrificio americano Spencer ha annunciato la sua chiusura. Negli ultimi mesi diversi produttori statunitensi hanno cessato la propria attività, soprattutto a causa della pandemia, ma in questo caso però la notizia fa abbastanza scalpore perché Spencer non è un birrificio come tutti gli altri: rappresenta infatti l’unico trappista operante fuori dall’Europa, aperto nel 2013 in Massachussets, all’interno dell’Abbazia di St. Joseph. Dal rilascio della prima birra, la Trappist Ale, le cose per Spencer erano proseguite in maniera apparentemente positiva, con il rilascio di tanti prodotti diversi e alcune collaborazioni. L’annuncio dunque è stato accolto con una certa sorpresa nell’ambiente e solleva qualche perplessità sull’effettivo stato di salute del mondo della birra trappista. Un mondo rimasto uguale a se stesso per decenni, ma che negli ultimi tempi ha mostrato un’evoluzione davvero repentina, sotto tutti i punti di vista.

Di seguito il contenuto del messaggio del birrificio Spencer:

Dopo oltre un anno di confronti e riflessioni, i monaci dell’Abbazia di St. Joseph sono arrivati alla triste conclusione che la birrificazione non è per noi un’attività sostenibile, quindi è giunto il momento di chiudere il birrificio Spencer. Vogliamo ringraziare tutti i nostri clienti per averci supportato e incoraggiato negli anni. Le nostre birre saranno disponibili nei normali canali di vendita fino a esaurimento delle scorte. Per favore pregate per noi.

Due sono i dati che emergono dal post su Facebook. Il primo è che le riflessioni su questa scelta sono iniziate più di un anno fa, dunque in piena pandemia. Impossibile quindi non ipotizzare che la scelta dei monaci sia stata anche suggerita dalle pesanti ripercussioni che ha avuto l’emergenza sanitaria su molti settori produttivi, in particolar modo quelli collegati ai luoghi di socializzazione. L’altro aspetto interessante è la motivazione: il birrificio ha fallito nel suo intento, quello cioè di rivelarsi un’attività economicamente valida per il sostentamento della comunità monastica. Infatti per ottenere il bollino Authentic Trappist Product e lo status di birrificio trappista, una condizione imprescindibile è l’assenza di scopo di lucro: tutti gli utili devono essere destinati alle necessità della vita monastica nell’abbazia o al massimo per opere di carità. Perciò a un certo punto il birrificio si è rivelato incapace di giustificare la propria esistenza anche soltanto nell’ottica della sussistenza dei monaci. È un dato che fa un certo effetto, ma che va considerato anche in rapporto alle dimensioni non indifferenti della sede produttiva: un impianto da circa 60 ettolitri sviluppato su una superficie di oltre 3.000 mq, numeri che sicuramente devono aver impattato sulla sostenibilità del birrificio.

D’altro canto sin dalla sua nascita il birrificio Spencer è apparso sempre molto attivo e pronto a scardinare le consuetudini della birra trappista. È stato il primo birrificio trappista a lanciare una IPA (la Trappist IPA nel 2016), il primo a inlattinare una birra (la Monk’s IPA) e il primo a realizzare una birra collaborativa (la Sinergia ’19 insieme all’italiano Tre Fontane di Roma). Sul relativo sito web è possibile verificare l’ampiezza della produzione, ben superiore a quella di quasi tutti i birrifici trappisti del mondo: la gamma si compone di tre birre base (Trappist Ale, Trappist Holiday Ale e Trappist Monk’s Reserve Ale), cinque birre di stampo americano (due IPA, un’Imperial Stout, una Pils e una Vienna) e due birre appartenenti alla serie speciale con frutta (Peache Saison e Grapefruit IPA). In realtà le creazioni sono ancora di più, come la Juicy IPA che Spencer lanciò a giugno del 2018.

Alla luce di quanto annunciato nel fine settimana, come considerare tanto fermento produttivo? Il riflesso di una situazione molto favorevole del passato, che tuttavia è mutata drammaticamente con l’avvento della pandemia? Oppure il tentativo frenetico e mai davvero riuscito di fare breccia nel mercato birrario degli Stati Uniti? Qualsiasi sia la chiave di lettura più corretta, il mondo della birra trappista è costretto ad accusare la seconda perdita in meno di un anno e mezzo: a inizio 2021 infatti fu annunciata l’uscita del birrificio Achel dal “club” dei trappisti, a causa della disgregazione della comunità monastica presente nel locale monastero di Notre-Dame di Sant-Benoît. Considerando il numero esiguo di birrifici trappisti attivi al mondo, le due vicende hanno un peso specifico non indifferente su questo delicato universo brassicolo.

Come accennato in apertura, il mondo della birra trappista sta vivendo un periodo tumultuoso, almeno se confrontato alla condizione di quasi immobilità vissuta per decenni, se non secoli. Negli ultimi anni sono nati nuovi birrifici trappisti, sono state lanciate birre inedite da produttori che erano rimasti fermi per 60 o 70 anni, sono state annunciate collaborazioni e novità. Tutti elementi che rappresentano il segnale apparente di un ambiente in evoluzione e in salute. Ma che forse offuscano l’aspetto più importante: quello della birra trappista è un microcosmo decisamente vulnerabile, che si basa su equilibri talvolta precari e su regole ferree. Tali caratteristiche hanno permesso che questa tradizione brassicola sia arrivata miracolosamente intatta fino ai giorni nostri, ma di contro espone tutto l’ambiente alle fluttuazioni del mercato e ai cambiamenti sociali. La birra trappista mantiene la propria identità anche per le sue debolezze: la speranza è che quest’ultime non diventino dominanti a causa dei tempi che cambiano.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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2 Commenti

  1. All’inizio non ho mai nutrito molta simpatia per questo birrificio trappista proprio perchè lo ritenevo troppo “modaiolo” e mi sono sempre astenuto dal bere le sue IPA, ma ora la notizia della cessazione della sua attività un po’ mi rattrista. Conserverò con affetto il ricordo delle davvero ottime Monks’ Reserve Ale e Imperial Stout che ho avuto occasione di apprezzare pochissimi mesi fa e spero che l’eventuale acquirente di questo bell’impianto manifesti la volontà di tenere in vita almeno alcune delle migliori ricette brassate dai monaci.

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