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Birra in calo: pericolo recessione per l’Europa

Immagine: Beer Nation

“It’s a Beer Recession”. Con questo titolo ieri il New York Times ha pubblicato un’analisi del mercato europeo della birra, contestualizzandolo all’interno del pessimo momento delle borse continentali. Il pezzo, rilanciato oggi da Unionbirrai tramite Twitter, offre una visione abbastanza critica del futuro del settore, con i microbirrifici chiamati ancora una volta a vestire i ruoli di salvatori della patria. Una situazione impensabile pochi anni fa, che permette di comprendere l’importanza crescente del comparto artigianale, unica nota positiva in un mercato che a quanto pare soffrirà ancora a lungo la recessione europea e le scelte dei governi locali. Non ultima quella italiana di alzare l’iva al 21%.

Partiamo dal principio. Il dato più preoccupante degli ultimi anni è il cambiamento delle abitudini, con i bevitori sempre più propensi a risparmiare consumando in casa piuttosto che fuori dalle mura domestiche. Questo “spostamento” rappresenta un serio pericolo per il settore. In passato lo abbiamo indicato come una delle principali cause della costante chiusura di pub in Inghilterra, sottolineando come un simile trend metta a repentaglio le tradizioni birrarie e sociali di un intero popolo. Ma c’è di più: se i consumatori rimangono a bere nelle proprie case, le conseguenze si ripercuotono sull’economia dell’intero settore, e, in cascata, su quella generale del sistema Europa. In parole povere: l’intero meccanismo arriverebbe ad avere effetti nocivi non solo al suo interno, ma persino sul debito pubblico dell’Unione Europea.

Per capire l’impatto del fenomeno in atto, il New York Times si affida ai dati dell’impiego nel settore: il 73% della forza lavoro legata alla birra non è infatti operante all’interno dei birrifici. A parte quel 27%, il resto degli impieghi nel settore riguardano pub, hotel, ristoranti e altre attività commerciali. Il crescente costo per le aziende di queste figure professionali, unitamente a un aumento costante delle tasse sul consumo di birra, sta mettendo a rischio la salute di un intero mercato.

Secondo l’articolo, il maggiore responsabile della situazione è la crisi finanziaria, che indebolendo il potere d’acquisto dei consumatori, li spingerebbe a risparmiare evitando di bere birra fuori casa. L’esempio della Grecia è illuminante: tra il 2008 e il 2010 i consumi sono passati da 41 a 36 litri annui pro capite, con una contrazione dell’occupazione nel settore pari al 15%.

Tuttavia non bisogna dimenticare che negli ultimi anni la forbice tra il consumo al pub e quello all’interno delle mura domestiche è aumentato clamorosamente, almeno in un paese simbolo come l’Inghilterra. Come sottolineato in passato, dal 2008 nel Regno Unito le tasse sulla birra sono aumentate del 18%, concentrandosi però su pub e locali e non su supermercati e grande distribuzione. Risultato: un netto spostamento dei consumi verso l’ambiente domestico, con la non piacevole conseguenza di un aumento del binge drinking.

In una situazione già di per sé difficile, il New York Times aggiunge che spesso le politiche dei governi locali non fanno altro che peggiorare le cose. Pierre-Oliver Bergeron, presidente dell’associazione Brewers of Europe, evidenzia come la politica tenda semplicemente a spremere il più possibile determinati settori, aumentando le tasse. Una soluzione controproducente, perché ripercuotendosi sul consumatore finale, non fa altro che provocare una contrazione dei consumi e un inasprimento dei problemi.

E qui ovviamente il pensiero vola alla nostra situazione e all’aumento dell’imposta sul valore aggiunto entrata in vigore proprio in settimana. Una modifica che ovviamente va a pesare quasi esclusivamente sul consumatore finale, contribuendo ad alleggerire il portafoglio per tutti quei prodotti che precedentemente avevano l’iva al 20%, birra compresa.

Il conforto finale, come detto, arriva dal comparto artigianale. Secondo Bergeron ci sono segnali che indicano che il calo dei consumi è destinato a fermarsi. In particolare il proliferare dei microbirrifici significa che ai bevitori di birra sono offerte caratteristiche e varietà tipiche del mondo del vino, aspetti che rendono la bevanda più appetibile, anche per i giovani consumatori. Curiosamente anche le birre analcoliche stanno acquistando mercato, spinte dalle campagne anti alcool e dalle innovazioni produttive che ne hanno migliorato il gusto.

Insomma, nonostante la panoramica non certo positiva, secondo Bergeron ci sono buoni spunti per restare ottimisti. “I prossimi dieci anni saranno molto interessanti” ci dice. E noi da consumatori non possiamo che sperare che abbia ragione.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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15 Commenti

  1. Ciao Andrea, ti segnalo un piccolo errore di battitura: il consumo della Grecia è riportato essere passato dai 41 litri ai 36 litri pro capite, quindi in calo. Le cifre sono invertite.

    Per tutto il resto del discorso, credo che i consumi reggeranno nei Paesi di forte tradizione e si potranno affievolire in tutti gli altri, Italia compresa…

  2. Analisi molto interessante.
    un dubbio: nel testo scrivi “…tra il 2008 e il 2010 i consumi sono passati da 36 a 41 litri annui per capita, con una contrazione dell’occupazione nel settore pari al 15%.” intendevi dal 41 a 36?
    Gio

  3. Sì esattamente, grazie a entrambi

  4. che tristezza.

  5. La crisi è crisi. Perchè la birra dovrebbe restarne fuori?

  6. Rimanendo in tema, ecco un interessante estratto di un post di Zytophile, che cita un articolo dell’Independent

    According to the Independent on Sunday, quoting Elizabeth Carter, consultant editor for the guide,

    the term had become a byword for an establishment’s ambitions and, at a time when pubs have been hit hard by the recession, this inflexible attitude was becoming a thing of the past. “Our feeling with the gastropub was that it was a bit of a bandwagon that a lot of people have jumped on to. A lot of chains have taken that gastropub style. I think customers are getting bored with it. Pubs have to be socially diverse, they have to offer many things whether you pop in for a drink and a snack or you want a proper meal. Pubs realise that your local business is very important, as is hospitality. It’s getting away from being like a restaurant and going back to being a pub.”

  7. Riguardo l’aumento di un punto percentuale dell’IVA, ho l’impressione che sia a carico di rivenditori/publicans (notare il plurale).

    Anche volendo scaricare sul cliente quella che viene definita universalmente come “partita di giro”, di quanto dovrei aumentare il prezzo della 0,75?
    Se aumentassi di qualche centesimo (come dovrei) rischierei la faccia, se aumentassi di mezzo euro avrei la certezza di perderla … la faccia.

    Alla fine si lascia il solito prezzo e si paga il dazio, contando di fidelizzare in questo modo il cliente.

    • Come fatto notare anche su MoBI, per l’azienda l’iva non è un costo, ma un elemento neutro.

      • Certo Andre, ma, di fatto, nel caso menzionato da TopBeer l’ aumento di iva ricade sul negoziante e quindi non c’è neutralità! A dispo per chiarimenti 😉

        cmq….sempre rimanendo a Cheese e in tema col prezzo delle birre italiane e non…

        caso vuole che in mezzo agli espositori formaggiferi inglesi ci fosse anche uno stend di produttori birrari della Great Britain riuniti: St. Peter, BrewDog, MeanTime. Solo per dirvi ho pagato una lattina di PunkIpa 2€ (cassa da 24 a 40€), 3bottiglie da 33cl a scelta di BrewDog 8€, 3 bottiglie da 50cl St. Peter a scelta 10€.
        Alla piazza della birra(italiana) i prezzi delle bottiglie autoctone erano un tantiiiiiino (ma proprio ino ino) più alti!

      • E’ un elemento neutro se aumenti il prezzo, se non lo alzi la partiti di giro te la prendi in quel posto.
        Questo è quello che abbiamo fatto noi, abbiamo lasciato i prezzi invariati, come giustamente fa notare topbeer non ha senso aumentare di qualche centesimo e sarebbe ingiusto alzare di 50cent.
        Però facendo così io perdo poco più dell’1% rispetto a prima. Quindi se non aumento i prezzi (e non li aumento) e mettiamo per ipotesi (magari) incasso €100000, sto rinunciano a più di 1000€ di incasso.
        Partita di giro sto par di p…. Il fatto è che è una partita di giro se aumento il prezzo altrimenti sto assorbendo la boiata governativa.

  8. l’iva influisce solo sull’utente finale…quindi poche chiacchiere a riguardo!
    perchè i prezzi so così alti da noi? non si riesce proprio a spiegare!

  9. in Italia nel 2008 il consumo pro capite era di 29,4 litri (il picco lo abbiamo toccato nel 2007 con 31,1 litri a testa); nel 2010 è stato di 28,6 litri, meglio del 2009 28,0litri. quest’estate abbiamo avuto la peggiore estate degli ultimi 10 anni in termini di vendite. rispetto al fatto che l’IVa incida solo sul consumatore finale…in linea di massima è vero, ma (c’è un ma) nel momento in cui l’IVA aumenta dell’1% si propongono due atteggiamenti da parte della GDO (molti micro non vendono li, ma qualcuno si):
    nel primo caso si parla di effetto arrotondamento dei prezzi a cui abbiamo assistito nel biennio 2002-03 nel cambio lira euro; è stato stimato in questo caso un aumento reale dei prezzi pari all’1,38%
    nel secondo caso, pur di mantenere i prezzi sullo scaffale invariati la GDO potrebbe riversare l’aumento di prezzi riducendo i prezzi di acquisto della merce, quindi sul produttore.

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