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Battezzare una nuova birra? Ecco 8 soluzioni da non seguire

baby-beer-couple-drink-Favim.com-514934“Che bel bambino signora, come si chiama?” “Ugobaldo”. Non so se vi è mai capitato di ritrovarvi sgomenti di fronte a una situazione del genere, ma di certo avrete imparato che qualcosa di molto simile accade nel mondo della birra. Per un birraio trovare un nome valido per la sua ultima creatura brassicola è talvolta ben più complicato della formulazione stessa della ricetta. Un problema che, con il costante aumento di birrifici in Italia, diventa sempre più opprimente. Spesso battezzare nel modo giusto (o sbagliato) una birra si ripercuote in gran parte sul successo (o sull’insuccesso) che incontrerà presso il pubblico, quindi questa fase è estremamente importante. È un’attività molto personale e per la quale è difficile offrire consigli, ma almeno si può indicare cosa non si deve fare. Nel post semiserio di oggi – e sottolineo “semiserio”, cosicché nessuno si senta offeso 🙂 – illustreremo allora alcune strade assolutamente da evitare per decidere il nome della vostra prossima birra.

Quelli a corto di fantasia

biondaNel 2014 rimango stupefatto di fronte a chi ancora lancia un nuovo marchio trovando nomi assolutamente anonimi per le sue birre. Il caso più emblematico è quello di chi si affida alle classiche categorie cromatiche: “Bionda”, “Rossa”, “Nera” e le varianti “Chiara”, “Ambrata”, “Scura”. Oltre ad assecondare l’odiosa quanto inossidabile pratica di ordinare una birra per colore, questa soluzione è di una pochezza inventiva impressionante, al cui confronto gli ultimi album di Vasco Rossi sembrano dei colpi di inenarrabile creatività.

Quelli con troppa fantasia

adylhaIn completo contrasto con la categoria precedente c’è quella di coloro che vogliono assolutamente distinguersi dalla massa. E la smania è tale da generare nomi del tutto incomprensibili, spesso di pura fantasia. Così la prima volta che l’assaggerai al suo cospetto, il birraio si sentirà obbligato a raccontarti tutta l’interessantissima storia che si nasconde dietro a quell’ammasso di lettere (meglio se non appartenenti all’alfabeto italiano) senza alcun valore semantico. Ovviamente dopo due mesi anche lui si sarà dimenticato dei tormentati percorsi mentali che lo avevano portato a scegliere quel nome. I consumatori invece impiegheranno due minuti per scordarsene, così anche se la birra era buona non sapranno più come ritrovarla.

Quelli con la desinenza “ale” a tutti i costi

birraleC’è stato un momento in Italia in cui sembrava che non potesse essere ideata una birra senza che il suo nome terminasse per “ale”. Purtroppo le divinità birrarie hanno voluto prendersi gioco degli appassionati italiani, stabilendo che il termine anglosassone che indica le alte fermentazioni (Ale, per l’appunto) fosse facilmente riutilizzabile nella nostra lingua. Il risultato è stato un fiorire di giochi di parole di pessimo gusto, che se erano accettabili nei primissimi esempi, divennero presto stucchevoli e irritanti. Le aberrazioni linguistiche a cui abbiamo assistito in questi anni sono da crimini contro l’umanità, ma per fortuna questa orribile moda sembra in fase decisamente calante. Come quella delle Crocs, d’altronde.

Quelli che non cercano su Internet

tipopilsMagari non l’avrete ancora assaggiata, però quella nuova birra di quel birrificio vi ricorda qualcosa. Com’è possibile? Forse perché il suo nome è identico spiccicato a quella di un suo competitor, presente sul mercato da non meno di dieci anni. I casi di imbarazzante omonimia sono una triste costante del nostro settore, al punto che qualche anno fa dedicai persino un post all’argomento. A mio modo di vedere sono il segno di molta approssimazione (e raramente qualche coincidenza), anche perché la domanda più naturale che viene in mente è di un’ovvietà impressionante: “ma non bastava fare una ricerca su Internet?”. Cosa volete, inventarsi un nome per una birra è già tanto faticoso di per sé…

Quelli che “tira più un boccale di birra…”

noemiSe i casi di omonimia sono tanti, tantissime sono le birre che portano nomi di donne. Associare la nostra bevanda al genere femminile è un’operazione di marketing che esiste da quando esiste la birra, e questo dettaglio dovrebbe suggerire che come soluzione ha ampiamente rotto le scatole. E invece no, battezzare una birra come fosse una figlia è un evergreen che sopravvive a tutte le stagioni. Io capisco che la parola “birra” è femminile, ma allora mi aspetto a breve un bel Barley Wine di nome Rodolfo. O, per risolvere per sempre un famoso dubbio linguistico, un Lambic di nome Jocelyn.

Quelli che danno i numeri

23Molto curiosa è la loggia rappresentata da quei birrai che decidono di battezzare le loro birre con i numeri. Ancora non ho capito se la scelta è ispirata dalla mancanza di fantasia, da una specie di rito propiziatorio o dall’idea di giocarseli successivamente al lotto, fatto sta che produzioni del genere imperversano con una certa costanza. A volte il numero indica il grado alcolico, altre la cotta con la quale si è arrivati alla ricetta definitiva – preoccupatevi se il numero supera le 2 cifre 🙂 – altre ancora la densità originale. In tutti i casi chiamare una birra con un numero quasi mai la rende facilmente identificabile, rivelandosi una scelta strategica non molto convincente.

Quelli che si affidano agli stili birrari

ipaCi sono birrifici che chiamano le loro birre con lo stile di appartenenza. È una scelta molto romantica e che presenta alcuni vantaggi, ma che alla lunga può risultare controproducente: facile usare nomi come IPA, Stout o Saison, non altrettanto quando si brassano tipologie meno conosciute. Inoltre questa scelta ha un senso se il birrificio è particolarmente devoto a una specifica cultura brassicola, mentre in caso contrario può risultare determinante quanto un calcio di rigore di Cerci all’ultimo minuto dell’ultima partita di campionato.

Quelli della “doppio malto”

doppio-maltoE poi ci sono loro, quei birrifici che ancora oggi hanno il coraggio di chiamare una birra con il terribile (e insignificante) appellativo “doppio malto”. Poi magari hanno in gamma altre decine di birre con nomi ingegnosi, ma quel singolo grave peccato è sufficiente per compromettere la loro immagine per sempre.

Sebbene queste descrizioni tendano a essere scherzose, leggetele con attenzione perché contengono suggerimenti da tenere in grande considerazione. E voi avete in mente altri errori che i birrifici italiani commettono quando battezzano le loro birre? Qual è il nome peggiore in assoluto?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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18 Commenti

  1. alexander_douglas

    quindi ad esempio chaos theory metterebbe in confusione la gente? 😀

  2. ahhahahah fantastico post!!!! sei un poeta!!!

    PS per la cronaca voglio chiamare il prossimo barley che farò RODOLFO!!!! oppure dato che è una tua idea Cronache di RODOLFO!!!!

  3. Mano a mano che leggevo, ad ogni categoria uscivano fuori nomi blasonati del reame brassicolo nostrano, LOL al quadrato!
    Sull’ ultima voce aggiungo che c’è pure che chiama il suo birrificio artigianale come un accisa….

  4. CLAP! CLAP! CLAP! CLAP! Chapeau! (che potrebbe anche essere un nome di birra, se fossimo tutti francofili…) 🙂

  5. mancano i nomi dialettali che ti fottono il mercato.

  6. Bell’articolo, anch’io ci rimango male quando sono proprio quelli del birrificio a dire “doppio malto”…

  7. Rossa e nera non si può sentire, ma non direi che è peggio di xyauyu. A questo punto un codice fiscale per nome non ci starebbe male.

  8. ..O quei publican che , per la scelta delle spine e delle bottiglie reputi dei buoni publican, che alla domanda : “cos’è la birra xxx che hai alla pompa?” ti rispondono : “è un’ ambrata leggera”.

  9. Il nome piu’ brutto mai sentito è : bluesale, la pale ale del Birrificio Blues a Cividate(BG), seconde a pari merito A.F.O. e Delia.

  10. Il nome secondo me deve aiutare a capire che birra è: che sia bello o brutto mi interessa relativamente. In Germania pippe del genere se le fanno poco ed è una figata sedersi in un biergarten e capire subito che se chiedi la Dunkel Weizen ti arriva una birra di frumento scura, mentre se il nome ha il suffisso “ator” è una doppelbock. Se poi con un grande sforzo di fantasia si partoriscono colpi di genio come “Kiss me Lipsia” che oltre a essere bello/simpatico ti fa capire che la birra è una gose…. standing ovation. A voler fare i fighi a tutti i costi coi nomi si finisce che certe carte della birra le devi decifrare con l’i-phone (senza collegamento in rete vallo capire che se chiedi una “hello my name is vladimir” stai ordinando una double IPA).

  11. commento con due link…
    il primo (lunghissimo, ma basta fare copia e incolla) riporta al discorso legato al nome di donne, ma che però confonde na cifra… lo stile e il nome sono agli antipodi…
    https://www.google.it/url?sa=i&rct=j&q=&esrc=s&source=images&cd=&cad=rja&uact=8&docid=E0VBjWk8F7YtQM&tbnid=inEwPS2yX1rJpM:&ved=0CAUQjRw&url=http%3A%2F%2Fwww.birramorena.com%2Fit%2FMorenaStandard.aspx&ei=JAaAU874AoXGPM-9gbgO&psig=AFQjCNEWkNrKP3XxJC63Z-lRMUKgLS2wJQ&ust=1400985444661100

    e un secondo link che riporta a una birra che vince il premio nobel per la pace, la chimica e l’economia insieme:
    http://www.discountordie.org/web/wp-content/uploads/2010/05/allegato-66.jpg

  12. Bellissimo articolo, leggero e pungente. purtroppo si sentono ancora questi nomi in birre nuove…

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