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Oltre il BJCP: un documento davvero valido sugli stili birrari è possibile?

PTBIIIDopo i tanti discorsi scaturiti dal post di ieri sulla futura revisione delle Style Guidelines del BJCP, anche oggi torniamo sull’argomento. La riorganizzazione dei contenuti effettuata dall’organismo americano al suo documento più importante prevede integrazioni, modifiche e tagli, il tutto nell’ottica di fornire una visione più razionale e moderna degli stili birrari internazionali (l’ultima release risaliva al 2008). Le prime indicazioni però hanno lasciato disorientati molti appassionati: al di là di alcune apprezzabili novità – in particolare l’inserimento di stili di cui si sentiva l’assoluta necessità – l’impressione è che le linee guida stiano virando verso direzioni poco ortodosse, se così vogliamo chiamarle. Il punto è che il documento del BJCP sta sempre più assecondando i meccanismi insiti nei concorsi birrari, perdendo man mano quell’autorevolezza come punto di riferimento per chi vuole orientarsi nel variegato mondo della birra artigianale. Ed è un vero peccato…

Il concetto di “stile” è fondamentale nel settore brassicolo, perché permette di distinguere le diverse tipologie birrarie e – dettaglio non secondario – di scoprire le sorprendenti connessioni sociali, economiche e culturali che la bevanda ha avuto (e ha tuttora) con la civiltà umana. In altre parole è profondamente collegato all’idea di cultura birraria, in tutte le sue accezioni. Volenti o nolenti, fino a oggi il documento di riferimento sugli stili birrari era proprio quello redatto del BJCP, che offriva una buona e fedele panoramica di ciò che può offrire la birra in tutte le sue incarnazioni. Ma a quanto pare le modifiche previste dalla nuova revisione rischiano di minare questa sicurezza: non è un caso che lo stesso Gordon Strong, presidente dell’ente, abbia sottolineato come le Guidelines siano uno strumento nato per i concorsi e non per la didattica. Una mossa con la quale ha sembrato mettere le mani avanti, ben conscio delle probabili polemiche che sarebbero emerse.

Il problema è che la revisione delle linee guida è stata operata pensando ai concorsi e non alla cultura brassicola internazionale. Che in altre parole significa, ad esempio, che sono state tolte di mezzo o ridenominate tipologie che non vengono più sufficientemente coperte nei contest internazionali, per un motivo o per l’altro. Così si spiegherebbe l’addio a stili storici e fondamentali come quelli delle Old Ale o la ridenominazione di altri parimenti importanti come quello delle Dortmunder Export. Decisioni che gridano vendetta per chiunque coltivi un minimo di vera passione birraria. Tutto ciò parallelamente a un ampliamento impressionante di tipologie miste, ambigue o prive di senso in un discorso sulla cultura birraria internazionale. Il risultato rischia di essere un mare magnum di categorie, probabilmente funzionali ai concorsi, ma senza più alcun valore dal punto di vista della divulgazione birraria.

Ma allora come dovrebbe essere redatto un documento didattico al riguardo? Bella domanda, proviamo a rispondere insieme. Secondo la mia opinione deve essere costruito cercando di mantenere un non facile equilibrio tra vari parametri: deve essere al passo con i tempi, ma senza trascurare la storia della bevanda; deve essere sufficientemente inclusivo, ma senza degenerare in un’infinità di sottostili; deve avere un riscontro diretto sul mercato (inutile parlare di antichi stili completamente scomparsi), ma anche non penalizzare troppo le tipologie di nicchia.

Un primo passo potrebbe essere definire gli stili originali, quelli cioè che possiamo considerare come le fondamenta delle tradizioni birrarie e dai quali magari derivano altri stili o stili più moderni. Una suddivisione per area geografica può essere utile, tendendo in considerazione le nazioni che hanno segnato la storia della birra sin dall’antichità:

Germania e Repubblica Ceca: Pils, Helles, Dortmunder Export, Dunkel, Marzen, Vienna, Bock, Keller, Schwarz, Weizen, Alt, Kölsch, Gose, Berliner Weisse.

Regno Unito: Bitter, IPA, Godlen Ale, Mild, Brown Ale, Scotch Ale, Irish Red Ale, Porter, Stout, Old Ale, Barley Wine.

Belgio: Blanche, Saison, Belgian Pale Ale, Oud Bruin, Flemish Red Ale, Dubbel, Tripel, Belgian Strong Ale, Blonde Ale, Lambic.

Fuori dalle suddette aree geografiche inserirei poi le Baltic Porter e le Bière de Garde. A queste tre grandi famiglie aggiungerei poi gli importanti Stati Uniti, anche per un motivo storico – è comunque una nazione con una certa tradizione brassicola.

Stati Uniti: Cream Ale, Cascadian Dark Ale, California Common, American Lager.

Leggendo gli stili degli Stati Uniti qualcuno potrebbe cominciare a storcere il naso riguardo l’opportunità di inserire qualcuna delle tipologie elencate. E qui arriva il primo problema: quanto ha senso considerare le interpretazioni nazionali di stili stranieri? Secondo me dipende da quanto differisce l’interpretazione stessa dalla ricetta originale, per quali motivi e con quale livello di consolidamento. Le American Lager ad esempio prevedono un’alta percentuale di succedanei del malto d’orzo, semplicemente perché all’epoca della colonizzazione americana questo ingrediente era di difficile reperimento. Quindi hanno una loro unicità, giustificata da motivi storici e con una ripercussione a livello organolettico.

L’elenco di poco sopra andrebbe poi integrato con tutti i sottostili di ogni stile. Lasciamo per il momento da parte il mondo delle IPA, che fa storia a sé, e concentriamoci sugli altri. Tra le Stout dobbiamo considerare le Dry Stout, le Imperial Stout, le Oatmeal Stout, le Sweet Stout e probabilmente anche le Oyster Stout e le Chocolate Stout. Ora è chiaro che a livello organolettico e di caratteristiche c’è molta più differenza tra una Dry Stout e un’Imperial Stout piuttosto che tra una Oatmeal Stout e una Sweet Stout. Nel secondo caso sembrerebbe un eccesso di parcellizzazione, se non fosse che hanno un loro valore storico e tradizionale. Se deve essere un documento didattico, questo aspetto non può essere trascurato.

Per la stessa ragione manterrei divisi sottostili ben più simili, come quelli che compongono la tipologia delle Scotch Ale o delle Bitter, pur valutando l’operazione sulla base di un criterio di ragionevolezza. La suddivisione invece mi sembra molto meno sensata quando include moderne rivisitazioni, che magari prevedono minime variazioni a livello di ricetta o di caratteristiche organolettiche: spesso non sono altro che mode del momento, senza una connessione storica a giustificarne la codifica come stile a sé stante. Tanti sottostili “American …” soffrono proprio di questo problema. Ma è chiaro che siamo già entrati in un campo in cui la valutazione soggettiva ha sempre maggior peso.

E le cose si complicano se parliamo di IPA e soprattutto delle diverse interpretazioni che ne hanno fatto i birrifici americani. Qui lo stile anglosassone ha avuto una diffusione così impressionante da favorire la codifica di una serie impressionante di sottogeneri. Alcuni di questi hanno giustificazione di esistere per caratteristiche ben definite: penso alle Imperial IPA, alle West Coast IPA, volendo anche alle Black IPA e White IPA. Mi sembra invece alquanto pretestuoso inserire nell’elenco denominazioni come Red IPA, Brown IPA, Rye IPA e via dicendo. Addirittura avrei da ridire sullo stile American IPA. Ma, come dicevamo prima, qui l’opinione personale ha un peso importantissimo.

Oltre agli stili fin qui definiti, aggiungerei poi tutta una serie di tipologie storiche che magari hanno poco riscontro sul mercato, ma che possiedono un valore culturale molto alto. Da questo punto di vista le integrazioni previste dalla revisione alle Style Guidelines sono una delle novità che apprezzo maggiormente, perché – parametro che tengo sempre in considerazione – si legano alle tradizioni di un popolo o di una regione. In questo caso il mercato ha il suo peso, determinando o meno la rinascita di uno stile considerato come estinto (o quasi): fino a qualche anno fa non aveva più senso parlare delle Grodziskie, ma il discorso è cambiato quando diversi birrifici hanno cominciato a produrle di nuovo.

E gli stili a fermentazione mista? Quelli affinati in botte? Quelli con cereali alternativi? Anche in questi casi entriamo in campi dai confini molto labili, dove è difficile decidere cosa inserire e cosa no. Sono tipologie che si riferiscono a tecniche particolari, che non sempre possono essere elevate allo stato di “stile”. Qui è davvero difficile valutare caso per caso. Le birre brettate valgono come stile? Sarei propenso a dire di no, perché la presenza del Brett non è un carattere che offre unicità. E le birre con uva o vino, di cui l’Italia è uno tra i maggiori interpreti? Sarei propenso a dire di sì, perché il risultato è estremamente particolare. Ma in effetti non c’è una regola precisa che determina l’esclusione delle prime e l’inclusione delle seconde.

Insomma l’argomento è spinoso e non è facile redarre una guida agli stili che soddisfi tutti. Voi come vi muovereste? Che tipo di valutazioni fareste?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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12 Commenti

  1. Chissà se prima o poi anche noi italiani riusciremo a creare un vero e proprio stile….speriamo…. 😀

  2. Ciao Andrea,

    l’impostazione mi piace ! Secondo me dovrebbero però essere aggiunti questi stili

    1) Weizen (inutile distinguere tra Kristall, weiss e dunkelweizen)
    2) Weizenbock (stile troppo particolare per ritenerlo compreso nelle weizen o, peggio ancora, nelle bock)
    3) Lightbeer (fanno schifo ma secondo me è uno stile a parte perché l’obiettivo è creare un prodotto dietetico per le donne)
    4) Steinbier
    5) Rauchbier (se poi vogliamo chiamarle smoked per essere più internazionali facciamo pure, io sono un sostenitore del plattdeutsch)
    6) Doppelbock (ero indeciso se considerarlo un sottostile delle bock, ma secondo me – anche per un discorso di tradizione, visto che sono le birre quaresimali per antonomasia – vanno tenute a parte)
    7) Grodzisk
    8) Lichtenhainer
    9) Birre “imperializzate” (la userei come unica denominazione per descrivere imperial stout, imperial pils, imperial porter ecc. Una volta che le rendi più muscolari cambi troppo le caratteristiche dello stile base per considerarle un mero sottostile)
    10) Pumpikin Ale (non è solo un discorso di fermentabile diverso, secondo me nasce proprio come stile per ragioni analoghe a quelle che hai valorizzato per le American Lager)
    11) Birre superalcoliche (tipo la Uthpias per intenderci: come soglia fisserei le “over 15°”)
    12) Farmhouse Ale lituane
    13) Pennsylvania swankey (salvo non vuoi considerarlo un sottostile delle ale ma è troppo riduttivo secondo me, vale quello che ho detto per le Pumpikin Ale)
    14) Sahti (forse l’unico vero stile autoctono finlandese)

    • Ho dimenticato le Weizen? Provvedo subito. D’accordo su Pumpkin Ale e anche sull’indipendenza di certi pseudo-sottostili. Una curiosità: cosa sono le Pennsylvania Swankey?

  3. Io non sono d’accordo nello elevare a “stile vero e proprio” tutte le birre che cambiano solo nel grado alcolico (piu` o meno alcoliche), per sfumature di colore, o per altri dettagli che per me le fanno rientrare a pieno titolo in sottostili…da intendersi assolutamente come nulla di offensivo o minore. Secondo me per un’organizzazione schematica e didattica ci sarebbe bisogno di una classificazione a cascata dove partendo da i macrostili storici si arrivi fino alle piu` moderne interpretazioni, ma il peso storico va comunque evidenziato. Non voglio fare il tradizionalista, ma una birra per rientrare in un sottostile o addiriuttura in uno stile dovrebbe avere un background solido. Io sarei per inserire quindi anche un minimo di limite temporale prima di buttare nuove birre nella mischia; con questo intendo, che l’eventuale nuovo stile debba essere prodotto con costanza per un po` di anni (dal birrificio che l’ha creato “come minimo” e magari anche da altri che ne hanno prodotto imitazioni); altrimenti si rischia che ogni fantasioso birraio che inserisce una piccola modifica ad una storica ricetta, magari per una cotta una tantum, poi voglia essere riconosciuto come inventore-detentore-massimo genio di qualcosa che, a mio parere, effettivamente non esiste. Quindi per rifarci al caso italico, uno stile di birre con uva o con mosto d’uva io non lo farei, ma lo raggrupperei in un sottostile nello stile di birre alla frutta. Perche` se non sbaglio l’uva e` un frutto a tutti gli effetti…
    per quanto riguarda i Brett invece uno stile lo farei, perche` molti stili storici sono stati classificati tali proprio grazie alla caratterizzazione data dai lieviti, quindi essendo i Brett lieviti a pieno titolo, con caratteristiche organolettiche ben definite, io un posto glielo darei.

    • Sulla tua ultima osservazione allora bisognerebbe fare anche uno stile per le birre con i lattobacilli… Il punto è che qualsiasi stile potrebbe essere brettato (oddio, per alcuni meriteresti l’ergastolo) e perciò è un po’ quello che succede con le Rauch: è fuorviante considerarle uno stile, più giusto valutarle come un’aggettivazione di uno stile (Rauch Marzen, Rauch Weizen, Rauch Bock).

      Sul resto condivido alcuni punti, altri meno.

      • si hai perfettamente ragione, e` per quello che come primo punto ho messo il tempo (la tradizione)…perche` non e` che se faccio una qualsiasi birra brettata, una volta nella vita, voglio che sia considerata uno stile a parte. Pero` se dovessero nascere delle birre appositamente pensate al Brett allora uno spazio in piu` gli andrebbe dato. Non so se mi sono speigato 😉

  4. Ciao Andrea,
    Perchè avresti da ridire sullo stile American IPA?

    colgo l’occasione per farti i complimenti per il blog che ormai seguo da anni.

    • Perché nel concetto di riduzione della parcellizzazione degli stili mi sembra quasi ridondante. Ma comunque molto più sensato di altri sottogeneri. Grazie per i complimenti!

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