Cimec

Della difficile arte di caratterizzare una birra

Ieri sera all’Open Baladin di Roma si è tenuta la nuova tappa di Brassare Romano, il concorso di homebrewing della Capitale. Partecipo in qualità di giudice sin dalla prima edizione, perché, oltre a essere appuntamenti piacevoli, talvolta stuzzicano riflessioni diverse dal solito. Credo che ciò dipenda dalla possibilità di valutare birre fatte in casa e di confrontarsi con gli altri giudici, concentrandosi su aspetti che non sempre emergono bevendo produzioni commerciali (o che vengono considerati sotto un’altra luce). Ieri ad esempio abbiamo sfiorato il concetto di caratterizzazione di una birra, che significa riscontrare all’assaggio un non-so-che capace di renderla diversa da tutte le altre e permetterle quindi di distinguersi (in positivo) dalla massa. Stimolato su questo punto, oggi ho deciso di approfondire il discorso.

L’idea di caratterizzazione in una birra dipende principalmente da percezioni molto soggettive. Prima ancora che a livello organolettico, entra in gioco una valutazione di tipo “etico”: è plausibile per una ricetta deviare dai canoni del suo stile di appartenenza per offrire un quid in più? La risposta non è facile ed è soprattutto nei concorsi birrari che assume una certa importanza. Ieri ad esempio al tavolo dei giudici non eravamo tutti concordi sul considerare lecite queste “licenze poetiche”: in definitiva se esistono delle regole, vanno rispettate fino in fondo. Principio che sento di condividere – cosa che faccio non solo per la birra – ma che merita un’analisi più profonda. Se infatti produrre birra è anche un’attività creativa, è giusto lasciare un minimo di spazio di manovra al birraio.

Sì ho usato quel termine: “creativo”. Proprio la creatività è la giustificazione con la quale spesso si tende a estendere la precedente considerazione verso confini aberranti. In altre parole per molti la licenza a inventare diventa il pretesto per allontanarsi totalmente dalle regole di uno stile. Una cosa che ad esempio a me non va giù è trovare stili tradizionali stravolti solo per la voglia del birraio di sorprendere con presunti effetti speciali. Diverse volte mi è capitato di trovare birre definite Pils – e attenzione, non Imperial Pils – completamente sbilanciate sull’amaro e magari aromatizzate con luppoli esotici, solo per il desiderio di stupire. E parliamo di uno stile che fa dell’eleganza e della finezza la sua cifra stilistica. Per non menzionare coloro che magari dichiarano uno stile belga e poi ricorrono a un lievito americano.

Ma mi rendo conto che mi sono addentrato in valutazioni molto tecniche per il lettore medio, quindi facciamo un esempio molto più semplice. Molto spesso in passato – ma accade di frequente ancora oggi – andava di moda in Italia caratterizzare le proprie birre con ingredienti locali, che fossero cereali, frutta, spezie o altro ancora. Questa peculiarità fu uno dei primi caratteri della birra artigianale che valicò i confini del giro degli appassionati per raggiungere i mezzi di comunicazione generalisti. E molti sfruttarono il momento: si passò a materie prime sempre più insolite e cominciarono a essere usati prodotti certificati, il tutto (anche) con l’intento di far parlare di sé. Ma caratterizzare una birra con un ingrediente particolare non è un gioco da ragazzi e richiede grande abilità, perché si prescinde dalle classiche regole della produzione brassicola. Così una delle conseguenze più comuni in questi casi è la nascita di una birra sbilanciata e senza senso, che perde ogni connotato di gradevolezza. Questo vuol dire caratterizzare il prodotto? Direi proprio di no.

Secondo me caratterizzare il prodotto significa aggiungere sfumature insolite o inaspettate, magari non propriamente ortodosse, ma che non comprometto il rispetto – inteso anche in senso reverenziale – dei canoni dello stile. Chiaro poi che la caratterizzazione sarà considerata valida se quella sfumatura contribuirà a un piacevole livello aggiuntivo in termini di sensazioni organolettiche, senza prevaricare le peculiarità dello stile (che dovranno mantenersi ben distinguibili).

Il discorso però non è così facile. Esistono stili più “austeri”, dove ogni minima variazione sul tema suona quasi come una bestemmia. Se in una classica Pils mettete un luppolo neozelandese rischiate di passare per eretici, ma se lo stesso succede con una IPA di stampo americano nessuno griderà allo scandalo. Poi ci sono stili dai confini meno netti, che perciò permettono delle reinterpretazioni personali, sempre nel limite della ragionevolezza. Anche la fonte della caratterizzazione è importante: se deriva, ad esempio, da una varietà particolare di luppolo è un conto, se invece proviene dall’aggiunta di una spezia non prevista è un altro.

In definitiva caratterizzare una birra significa avere la capacità di rispettare le peculiarità di uno stile e al contempo essere bravi nell’aggiungere qualcosa di insolito, pur rispettando quanto detto poco sopra. Innovare senza stravolgere, valicare i confini senza allontanarsi troppo. E di birre del genere, ve l’assicuro, ne esistono pochissime. Come regola può sembrare semplice e ovvia, ma siamo sicuri che tutti l’abbiano chiara in mente?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

Leggi anche

Come alcuni birrifici italiani hanno iniziato a confezionare beer cocktail premiscelati

Dopo anni di riluttanza, negli ultimi tempi il settore della birra sembra aver sposato con …

Ultimi ritrovati dal mondo del luppolo: Phantasm, Kohia Nelson e YCH 702

Le birre luppolate dominano la scena della birra artigianale ormai da decenni. Cambiano i gusti, …

14 Commenti

  1. La prima birra che mi è venuta in mente leggendo questo articolo è la Seta Special del birrificio Rurale.
    In questa blanche è stata sostituita la classica scorza d’arancia amara con scorza di bergamotto. La differenza è palesemente percepibile, l’agrumato è dal mio punto di vista molto più intenso, ma hanno mantenuto un acidità contenuta, dunque il retrogusto lo trovo più persistente.
    Esperimenti del genere (se ho azzeccato il senso del post) m’incuriosiscono, e se nella prova d’assaggio non trovo riscontri piacevoli al massimo non la compro più.
    Trovo senso però nel specificare sull’etichetta o scheda se la ricetta è un originale del birrificio e non strombazzare stili conosciuti quando poi di quello stile non trovi riscontro nel bicchiere.

    • Sì Alberto, la Seta Special incarna perfettamente il senso del post. Sostituire un agrume con un altro (o aggiungerlo) ha la stessa valenza di mettere una varietà di luppolo diversa imo

  2. É più etico che una birra sia buona o che rispetti uno stile?

  3. Intendo, se nel bicchiere trovo una birra che stravolge lo stile di appartenenza ( teorica evidentemente ), ma che giudico piacevole, biasimeró chi l’ha prodotta come incompetente ?
    Se un birrificio fa una birra che, da etichetta rientra in una categoria, ma che in realtá presenta delle caratteristiche eretiche, dovrá correggere il prodotto, seppur ben fatto e apprezzabile, per cercare di andare in contro alle caratteristiche specifiche dello stile tradizionale ?
    Se faccio birra a casa, senza farla a caso, anche se ho piú libertá ( escludendo la partecipazione ad un concorso, dove ci sono dei regolamenti ) dovró cercare di riprodurre il piú fedelmente gli stili, o seguire la mia fantasia?

    • Ok ora la questione è più chiara e ti ringrazio di averla posta, perché mi permette di spiegare meglio alcuni passaggi.
      Premetto che personalmente amo il rispetto delle regole e delle tradizioni, ma neanche mi piace l’intransigenza più totale. Al livello massimo di astrazione, l’importante è che una birra sia buona. Stop.

      Il discorso che ho fatto riguardo l'”etica” è confinato nei limiti dei concorsi a tema (pro o hb). Puoi anche aver prodotto l’APA più buona del mondo, ma se la presenti tra le Pils è chiaro che verrà cassata (magari con una menzione di merito, ma è un altro discorso). Ci saranno giudici più aperti a minime variazioni si stile (ammettendo caratterizzazioni) e chi seguirà alla lettera persino il range SRM previsto.

      Fuori dai concorsi il discorso è molto diverso. Secondo me ognuno è libero di brassare come preferisce, basta che lo fa con consapevolezza e cognizione di causa. Nell’articolo non voglio rivendicare la necessità di attenersi pedissequamente ai canoni stilistici, ma spiegare che spesso si fraintende il concetto di caratterizzazione. E quando questo succede, il risultato non è apprezzabile a livello qualitativo. Quindi la tua domanda non ha senso: una birra caratterizzata male è sbagliata anche se buona? Sì, semplicemente perché se è caratterizzata male non può essere buona.

      • Forse intendeva “troppo caratterizzata” più che male.
        In quel caso non sarei così sicuro non possa venire fuori una birra buona, ma ovviamente si va oltre la caratterizzazione e, di conseguenza, oltre lo stile.

        • Forse stiamo un po’ trascendendo il senso del post, che parte dalla sponda opposta. Cioè dal valore che si da al concetto di caratterizzazione, indipendentemente dal risultato finale.

  4. Un’ultima considerazione. Secondo me nasce tutto da ció che effettivamente é una questione etica, cioé il nostro bisogno di mettere le etichette ( materialmente, parlando di bottiglie ) su ogni cosa. E non ci sta bene, giustamente credo, che quello che é il contenuto non corrisponda a quanto annunciato sulla confezione.
    Tutti i problemi legati alla redazione di una guida precisa agli stili ( mi riferisco ovviamente a quella redatta dal bjcp ) derivano, a mio parere, dal fatto che a volte non sia semplice definire le cose.
    Gli stili tradizionali, che abbiano una storia, e quindi un legame con la terra, gli ingredienti e la gente , devono essere riconosciuti, conosciuti e rispettati.
    Il problema sorge quando mi trovo nel bicchiere una birra scura, amarissima e che profuma di pompelmo. L’assurditá di chiamarla black ipa é piú che palese.

  5. Stili come le baltic porter o le california common secondo te possono rientrare in argomento ? Sono brassate male perché caratterizzate da un lievito non tipico per lo stile (o utilizzato in modo non usuale) ?
    Sono d’accordo che una pils con la frutta o luppoli americani non é più una pils. Il problema é il fatto di etichettarla come pils alla frutta o come american pils, non il fatto che la birra esista di per se, se bevibile.
    Non ho una risposta, sono solo riflessioni.
    Hai ragione quando dici che una cosa non esclude l’altra, e cioé che una birra che rappresenti un buon esempio di uno stile é apprezzabile due volte, ma non per questo esperimenti ben riusciti debbono essere condannati a priori. Quello di cui non vedo il senso é cercare di ricondurre queste birre fuori stile ad una categoria, per poi giudicarle sbagliate perché non ne rispettano i canoni.
    Secondo me, riguardo al discorso concorsi, si potrebbe aggiungere una categoria definibile “stile libero”, in cui le birre vengono giudicate secondo parametri di tecnica produttiva e gustativi.
    Si eviterebbero ibridazioni che minano la purezza di uno stile, senza limitare ricerca e creativita.

    • Beh ma le Baltic Porter e le California Common hanno una storia centenaria alle spalle e, almeno nel secondo caso, non dal capriccio del birraio, ma da esigenze produttive. È chiaro che tutto il discorso impostato riguarda interpretazioni personali (del singolo birraio) di stili già esistenti. Poi che ogni stile sia nato in principio come scostamento o imitazione di un altro è un discorso diverso.

      Hai ragione quando dici che l’etichettamento rappresenta gran parte del problema. Se tu birraio dichiari una Pils, fai una cavolo di Pils. Altrimenti definiscila diversamente. Se dichiari uno stile belga e poi usi lievito americano le cose sono due: o non sai di cosa stai parlando o ti piace usare le definizioni a cazzo di cane. Non stai caratterizzando quello stile, stai facendo un pastrocchio.

      Concorso anche sul voler necessariamente inserire tutto in categorie. Per me gli stili dovrebbero essere quelli consolidati e tradizionali, ma questo non impedisce di creare birre non inquadrabili (magari buonissime). Codificare lo stile American Wheat Red Brett Pale Ale (nome inventato) non ha alcun senso.

  6. Marco Pasqualotti

    Sono pienamente d’accordo con Andrea, se dichiari di rifarti a uno stile, questo deve essere riconosciuto da chi beve. La bravura del Birraio sta nel caratterizzare quella birra con quel qualcosa che si sente in “sottofondo” senza stravolgere il tutto. E’ come assaggiare una birra che ha 60 giorni da una che ne ha 180, la birra è la stessa, le caratteristiche sono PIU’ O MENO le stesse, posso preferire la giovane o la stagionata, ma le variazioni sono minime. Se quella birra la metto in “barrique” e la stagiono 5 anni, non possiamo più riferirle allo stesso stile.

  7. È un problema che ha a che fare solo con la necessità di avere un termine di paragone nel momento in cui si giudica una birra durante un concorso ed è assolutamente lecito: una pizza coi peperoni non la posso presentare come una margherita, sarebbe un vezzo cretino più che creativo. In questo caso la questione gira attorno alle varianti concesse rispetto ai dettami dello stile, la giuria è proprio in questo senso che deve operare, definendo le linee guida e definendo se in fase di giudizio le maglie debbano essere più o meno strette. Fuori dal mondo dei concorsi (se uno decide di parteciparvi poi non può lamentarsi delle regole che li governano, perché funzionano proprio in virtù di quelle…) la questione a mio avviso non è però meno complessa, se pensiamo che le nostre birre cominciano a vivere solo quando le bevono gli altri. Ha senso fornire uno stile di riferimento semplicemente perché se mi viene voglia di bermi una Pils e sull’etichetta c’è scritto Pils, mi aspetto una Pils. Se poi la Pils in questione, sa andare oltre lo stile e sorprendermi ben venga, ma per recepire quell’oltre devo conoscere cosa significa Pils e qui sta il problema. La questione è sicuramente culturale, ma non solo: chi stappa non deve per forza conoscere quali sapori vanno cercati in quello stile, ma quali sapori (e profumi, livello di carbonazione, temperatura, grado alcolico, etc.) vuole trovare lui nel momento in cui stappa e versa. Cosa vogliamo dare con la nostra birra? Tradizione? Innovazione? Qual’è l’idea che sta dietro a una birra? Io credo che una birra riesce solo se chi la beve la capisce, la apprezza, la ama. E una volta che ne ha bevuta una, ha subito voglia di bersene un’altra.

  8. Ciao,
    Io credo che la grande forza delle birre Italiane risiede punto nel suo StyleNoStyle.
    Cioe come Teo docet nella capacità di stupire con un prodotto che tutti ritenevano di ultima classe e portare anche milioni di persone a rivalutarlo e considerarlo non più come alcool economico ma come bevanda da degustare.
    Detto ciò come nel modo dell’arte prima di diventare un Picasso devi sapere esattamente tutte le nozioni base della pittura fino a copiare esattamente i vecchi stili e poi creare il tuo.
    Credo facendo un paragone artistico che il mondo birraio italiano si sta affacciando ad una nuova corrente impressionistica che cambierà il modo futuro di fare birra rischiando spesso l’incomprensione.

Rispondi a Marco Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *