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Proprio così, le birre moderne quasi mai sono innovative

Quando nei comunicati dei birrifici mi capita di incrociare la parola “creatività” ho sempre un sussulto. Il termine è infatti uno dei più inflazionati dell’ambiente e spesso utilizzato a sproposito. In casi limite diventa l’alibi per giustificare qualsiasi cosa: ricette strampalate, birre senza identità, stravolgimenti di stili classici. All’argomento e all’idea di “caratterizzazione” di una birra dedicai un post quasi un anno fa, ma i concetti vittime di incomprensioni sono diversi. Un altro molto importante è quello di “innovazione”, che si incontra sempre più frequentemente e sempre più frequentemente è usato in maniera impropria. Il motivo è che, dopo millenni di storia, una birra o una tecnica brassicola difficilmente è davvero innovativa e molto spesso si confonde questo concetto con quello di “modaiolo”.

A questo problema ha dedicato un bel post ieri Craig Gravina sul suo Drinkdrank. Craig ha preso in considerazione tutti quei trend brassicoli che al momento vanno per la maggiore e che vengono ritenuti innovativi, dimostrando che in realtà non lo sono affatto. Il suo punto di partenza è che infatti esiste una profonda differenza tra il concetto di “innovazione” e di “moda” e che la maggior parte delle novità attualmente in atto non è rivoluzionaria, ma semplicemente la riproposizione di tecniche e birre ampiamente diffuse in passato.

In alcuni casi il ragionamento è lapalissiano. Prendiamo le birre acide, che molti hanno indicato come la “next big thing” per tutto il settore: non sono produzioni innovative per il semplice fatto che rappresentano il modo più antico di produrre. In passato, quando tutte le birre erano a fermentazione spontanea, l’invasione di microrganismi non ortodossi era all’ordine del giorno e una certa acidità era probabilmente riscontrabile in ogni birra. Basti pensare che tutti gli stili più antichi presentano proprio caratteristiche di questo tipo: il Lambic, le Oud Bruin, le Flemish Red Ale, le Gose, le Berliner Weisse e via dicendo.

beer bottling

La stessa considerazione vale per molte altre tendenze contemporanee. La maturazione in legno è antecedente all’uso di tini in metallo, gli stili “imperiali” risalgono al XIX secolo, il termine “session” – molto in voga negli ultimi anni per indicare birre leggere – ha almeno 70 anni. È facile estendere il ragionamento oltre i casi citati: il dry hopping ad esempio, che viene considerato una soluzione moderna e associata alla rivoluzione craft americana, è invece attuato da tempi immemori e ne fa ricorso persino una birra storica come la trappista Orval. In pratica quasi tutto ciò che oggi viene ritenuto innovativo era già presente nelle tecniche di produzione brassicola da decenni, se non secoli.

Secondo Craig, allora, le vere innovazioni sono altre e più precisamente quelle che hanno permesso uno strappo concreto e inedito rispetto alle tradizioni brassicole precedenti. Si tratta di soluzioni di tipo tecnologico: l’invenzione del termometro, il motore a vapore, l’avvento della microbiologia e della pastorizzazione, la refrigerazione, il perfezionamento delle tecniche di imbottigliamento, la catena di montaggio, la diffusione delle lattine, lo sviluppo di dispositivi elettronici programmabili.

Quindi tutto ciò che è stato inventato nella birra ha una base tecnologica? Sicuramente no.

Una delle più grandi innovazioni nella storia della produzione brassicola è stata l’adozione di malti chiari, che arrivarono solo in seguito all’Industrializzazione. Ovviamente alla base c’è un passo avanti di tipo tecnologico, ma è il modo in cui tale avanzamento è stato adottato dai birrifici ad aver segnato una rottura con il passato. La prima macchina moderna per la maltazione dei cereali risale a inizio 1800 e da lì al successo delle birre chiare il passo fu breve: 40 anni dopo nacque la Pilsner Urquell, che si fregia (erroneamente) di essere la prima “bionda” della storia. Falsi primati a parte, è indubbio che quello delle Pils è stato il più innovativo degli stili birrari. Qui il termine è usato correttamente.

BB10birraartigianale

Per definire una soluzione innovativa non siamo però costretti a trovare delle novità così profondamente sconvolgenti come l’avvento delle Pils. Qualsiasi soluzione tecnica davvero inedita può essere considerata innovativa, anche quando non ottiene un tale seguito da imporsi come vera e propria tendenza. In Italia una recente piccola innovazione è stato l’uso di luppoli tostati da parte del Birrificio Italiano per la sua Nigredo: forse al momento è più giusto definirlo un semplice esperimento, ma a mia memoria mai nessun birrificio aveva tentato una strada del genere.

Un’innovazione italiana ben più importante è stata quella relativa all’incontro tra il mondo della birra e quello del vino. In realtà dubito che siamo stati i primi a intraprendere questa strada, ma per ragioni storiche e per le ormai tante incarnazioni dello stile, birre di questo tipo sono spesso associate al nostro paese. In questo senso possiamo allora considerare la BB10 del sardo Barley una delle birre più innovative di sempre, essendo stata la prima a impiegare mosto di vino (sapa, per la precisione).

A questo punto è facile la connessione mentale con un’altra tipologia nella quale i birrai italiani sono maestri: la creazione di birre con ingredienti locali. Considerarla però un’innovazione sarebbe un grave errore, poiché il ricorso a materie prime locali, spesso in aggiunta a quelle classiche, esiste da quando esiste la birra. Non c’è niente di nuovo in tutto ciò, nonostante spesso questo trend sia considerato come una delle cifre stilistiche del nostro movimento.

Morale della storia: diffidate sempre quando sentite parlare di innovazione, soprattutto nel mondo della birra. Come abbiamo visto, le vere innovazioni sono poche e spesso hanno cambiato radicalmente il modo di intendere la birra. Ve ne vengono in mente altre?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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9 Commenti

  1. Ci sarebbe il Randall ideato da Sam Calagione, che pur rappresentando una innovazione tecnica nel metodo di spillatura, è forse più assimilabile ad un fenomeno modaiolo, legato com’è all’epopea dei luppoli americani.

  2. Con tutto quello che si assaggia in giro, più o meno riuscito che sia, in certi momenti la più grande innovazione mi sembra una birra ben fatta, equilibrata e senza troppi “picchi”, di quelle che ne berresti a secchi insomma. Magari anche in stile ma non è così fondamentale. In certe situazioni una cosa del genere mi sembra quasi rivoluzionaria!

  3. Ciao Andrea qui Alessandro del birrificio PADUS anzi, scusa, beer-firm PADUS!! La tua analisi non fa una grinza,
    anche perchè noi dobbiamo sempre pensare come se domani venisse un inglese, un belga o un americano a proporci come innovativo una personalizzazione di una ricetta di un vino piacentino Gutturnio piuttosto che di un Chianti oppure una speziatura di un Sassicaia piuttosto che di un Negramaro o Barolo (così più o meno ho fatto il giro d’italia!! ) Detto questo però io dico anche: non facciamoci del male da soli!! Stiamo ( plurale majestatis ) creando qualcosa che mancava nella cultura alimentare italiana, ovvero la CULTURA BIRRARIA, e perciò credo che sia opportuno lasciare campo aperto ai produttori di proporsi nelle varie sfaccettature degli stili più o meno personalizzati e/o territorializzati. Poi certo, la storia della birra, per quanto esistesse la “cerevisia” ai tempi dei romani, non ce la inventiamo noi!! In tutta risposta ai produttori mondiali: voi ci rubate il Made in italy?? E noi “facciamo” la birra…tiè!!!!!!!!!!!!!

  4. Non so se definirla innovazione o sperimento ma la nostra IN LOVE (SUPERBUM) è una lager con sale italiano in aggiunta, ed effettua due fermentazioni con lieviti differenti, in una versione utilizza sale affumicato da noi

  5. Se per innovatività cerchiamo cambiamenti radicali nei processi di produzione assestati da secoli, possiamo aggiungere che qua e là abbiamo vistobirre no-boil, con luppolatura continua (Sam docet), pseudo-birre no-hop, birra a fermentazione in linea (ahimè di matrice industriale), birre prodotte con taglio di mosti parzialmente fermentati (orzo, mele, miele, uva). Anche in Italia.

  6. L’incontro tra il mondo della birra e quello del vino non so se sia un’innovazione italiana…non conosco le date in Italia, ma so di certo che nel 2006 il birrificio ungherese Serforrás ideò la birra chiamata “Korty”, tutt’ora prodotta e fatta utilizzando anche il famoso vino Tokaji Aszú (l’ho provata e onestamente a me non è andata molto a genio).

    http://visitbudapest.travel/articles/korty-when-beer-meets-wine/

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