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Una visione parziale e personale dello stato della birra in Belgio

La scorsa settimana vi ho raccontato in due articoli distinti la mia recente trasferta nelle Fiandre, puntellata da visite per birrifici e locali e tour per città e luoghi splendidi. I quattro giorni di viaggio sono anche serviti per costruirmi una visione d’insieme dello stato attuale della birra in Belgio, sebbene sia impossibile non considerarla una visione parziale vista la ricchezza e le sfaccettature birrarie che è in grado di regalare il piccolo stato mitteleuropeo. Come spiegato, il viaggio è stato organizzato, oltre che dall’immancabile Ente del Turismo delle Fiandre, dall’associazione Belgian Family Brewers, che rappresenta più di venti produttori di tipologia e dimensioni diverse. Proprio questo dettaglio mi ha permesso di entrare in contatto con realtà assai variegate, ognuna delle quali sta affrontando a modo suo il delicato momento di transizione del settore brassicolo belga.

Un settore minacciato dall’esterno

Il primo tassello utile per ricostruire il puzzle dello stato della birra in Belgio è arrivata dalla stessa Belgian Family Brewers durante la presentazione introduttiva al viaggio. L’obiettivo dell’associazione era di comunicare i valori dell’autentica birra belga, per rivendicare una posizione di prestigio offuscata dalla giovane rivoluzione della birra artigianale. L’ente ha espresso esplicitamente preoccupazione per la crescente popolarità delle produzioni craft provenienti dall’estero e in particolare dagli USA, che spesso sfruttano proprio i simboli della tradizione brassicola belga. Nelle slide proiettate durante il meeting non sono mancati riferimenti visivi ad alcuni birrifici americani (primo fra tutti New Belgium) e a birre ispirate a stili belgi. L’aspetto curioso è che mi sarei aspettato che una simile comunicazione fosse rivolta alla stampa specializzata, ma degli oltre 20 partecipanti al viaggio solo io e altre quattro o cinque persone erano profondi appassionati di birra.

In termini di produzione, Duvel Moortgat è 100 volte più grande dei nostri microbirrifici più grandi
In termini di produzione, Duvel Moortgat è 100 volte più grande dei nostri microbirrifici più grandi

Una realtà lontana anni luce dall’Italia

Al di là del momento che sta vivendo la birra in Belgio – argomento su cui tornerò più avanti – uno dei primi aspetti che saltano all’occhio è quanto sia diverso il movimento locale da quello nostrano. Il motivo è semplice: il Belgio è un paese tradizionalmente legato alla birra, l’Italia sta (ri)scoprendo questa bevanda solo negli ultimi anni. Se da noi il movimento è appena diventato anagraficamente maggiorenne, lì esistono vere e proprie dinastie di birrai che si tramandano la professione (e le aziende) di generazione in generazione. La bevanda non è una moda né un vezzo, ma un elemento scontato e imprescindibile della vita quotidiana di ogni persona (o almeno di coloro che la bevono).

La birra artigianale in Belgio non esiste

La conseguenza di questa scontata premessa è che è difficile tracciare una linea netta tra birra artigianale e birra non artigianale, come d’altra parte accade in tutte le nazioni con un’antica tradizione brassicola alle spalle. Per entrare nell’associazione Belgian Family Brewers i produttori devono operare da almeno 50 anni ed essere dei “birrifici familiari indipendenti”, una definizione apparentemente difficile da associare ad alcuni dei suoi rappresentanti acquisiti in passato dall’industria. Etichette a parte, mi è accaduto quindi di visitare sia grandi industrie come Duvel Moortgat (terzo produttore del Belgio), sia piccoli birrifici quasi paragonabili per dimensioni a quelli italiani. È chiaro quindi che un’associazione del genere si posiziona in un ampio spazio intermedio situato tra le vere e proprie multinazionali (Inbev, Alken-Maes) e i piccoli microbirrifici, magari nati in tempi recenti.

La confusione derivante da una posizione passiva

Come accennato, la birra artigianale in Belgio è attualmente esposta ai grandi cambiamenti in atto nel mercato. L’impressione però è che i produttori invece di cavalcare l’onda di rinnovamento, la stiano subendo, cercando di adattarvici come meglio possono. Non so se il motivo è da ricercare nella storia stessa della nazione, da sempre influenzata dai destini delle vicine superpotenze europee, ma la sensazione è proprio quella che vi ho descritto. E poiché esistono enormi differenze da produttore a produttore, il risultato è una confusione generale che è impossibile non percepire anche per un occhio meno esperto: nomi di birrifici che cambiano dal giorno alla notte, brutte copie di stili provenienti dall’estero, riproposizione di antiche pratiche birrarie ma in maniera aberrante.

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Le foudres di De Brabandere

Scelte radicali e non sempre condivisibili

Ben due degli otto birrifici che abbiamo visitato nelle Fiandre sono accomunati dall’aver compiuto negli anni passati una scelta radicale, decidendo di adattarsi a un mercato profondamente mutato arrivando persino a cambiare nome. In entrambi i casi è stato scelto il cognome della famiglia: Bockor è diventato De Brabandere e Bavik si è trasformato in Omer Vander Ghinste. Oltre al desiderio di assecondare la rinnovata attenzione dei consumatori per il concetto di “tradizione”, questa mossa ha permesso a entrambe le aziende di operare un taglio netto col passato, dove il loro nome coincideva con quello del loro prodotto di punta, una Pils. Ma il crollo dei consumi delle basse fermentazioni per i birrifici di questa fascia ha imposto un cambio di direzione, che nel loro caso è stato quantomai radicale.

Rivoluzionare la propria identità può essere una carta vincente? Forse sì, ma solleva alcune perplessità circa, appunto, la volontà di difendere le proprie caratteristiche distintive. Certo, la capacità di adattamento a volte è più preziosa della cieca ostinazione, ma quando ci si piega totalmente al mercato qualche dubbio rimane. Soprattutto se poi alcune scelte risultano poco condivisibili. Prendiamo De Brabandere: qui sono stati compiuti ingenti investimenti per lanciare la linea Petrus, che identifica delle birre affinate in legno. Le decine di immense foudres regalano uno spettacolo meraviglioso, ma si rimane spiazzati nel sapere che tutte queste produzioni subiscono un processo di pastorizzazione flash. Se la pastorizzazione è già una pratica poco apprezzabile per alte e basse fermentazioni, che senso ha utilizzarla per fermentazioni miste? Perché “infettare” la birra con miliardi di batteri e microrganismi selvaggi e poi ricorrere a una tecnologia di “risanamento termico”? Mi sembra un controsenso clamoroso.

Se vogliamo ancora più grave – mi si passi il termine – è la situazione di Omer Vander Ghinste. Questo birrificio nei decenni ha cambiato più volte tipo di produzione: in origine realizzava Red Flemish Ale e fermentazioni spontanee, poi si concentrò quasi esclusivamente sulle basse fermentazioni, recentemente invece ha lanciato un’alta fermentazione e ha riesumato le sue birre acide. Per quest’ultima operazione ha reso nuovamente operativa la vasca di raffreddamento posta all’ultimo piano della sua torre di produzione, completamente abbandonata fino a qualche anno fa. Il risultato di questo carattere mutevole si riscontra in uno degli orgogli del birrificio, quello cioè di realizzare tutte e quattro le fermentazioni possibili. Non so voi, ma è uno slogan che a me non piace particolarmente.

Sul bancone della tap room di Omer Vander Ghinste anche la Gueuze non Gueuze
Sul bancone della tap room di Omer Vander Ghinste anche la loro Gueuze non Gueuze

La confusione è soprattutto nella comunicazione

Il problema è quando ai tanti cambiamenti non segue una comunicazione corretta da parte del birrificio. Così ho scoperto con delusione che Omer Vander Ghinste commercializza una Jacobins Gueuze che in realtà non è una Gueuze: oltre a essere prodotta a 80 km dal Pajottenland, a detta del proprietario è un mix tra un’alta fermentazione e una fermentazione spontanea. Capisco che le acide del Pajottenland stiano vivendo un momento di grande successo, ma un nome diverso non avrebbe affatto guastato.

Da Huyghe (quelli della Delirium Tremens) ho incontrato una situazione molto simile. Tra i loro prodotti compare una birra identificata come “Trappist”, sebbene ovviamente non sia una trappista. Sfruttare un nome commercialmente coperto da un marchio d’identificazione non mi sembra una scelta molto intelligente. Se la Belgian Family Brewers vuole veicolare il concetto di qualità di birra belga e il suo carattere autentico, forse è importante che prima di tutto pretenda chiarezza dai suoi stessi membri.

Altre strane vie di adattamento

Uno dei più evidenti tentativi dai parte dei birrifici del Belgio di inseguire i trend del mercato è stata la nascita, in anni recenti, di IPA “alla belga”, con risultati quasi mai apprezzabili. Un esempio di questa tendenza lo abbiamo trovato anche tra i membri della Belgian Family Brewers: la Duvel Tripel Hop è una birra secondo me piuttosto anonima e distante anni luce dalla Duvel base, che rimane un prodotto valido e iconico nonostante i numeri da capogiro e le tecniche industriali impiegate.

Un altro trend che sembra sia seguito con attenzione è quello rappresentato dalle birre “femminili” (sigh) o comunque da consumare durante gli aperitivi. Un (pessimo) esempio è stato la Rodenbach Rosso, una “birra” dalla connotazione eccessivamente dolce, che tradisce l’infiltrazione dell’industria all’interno dell’onorevolissima produzione di Rodenbach.

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La vera tradizione è il miglior strumento di adattamento

Ma a parte l’inquietante bevuta finale, proprio Rodenbach è stata una delle visite migliori dell’intero viaggio, da tutti i punti di vista. Nonostante sia passata in mano a Palm, Rodenbach è riuscita a mantenere la sua identità e le sue tradizioni brassicole in maniera quasi totalmente fedele al passato. Immagino non sia stato facile continuare a produrre Flemish Red Ale negli anni del dominio della bassa fermentazione, ma oggi che il mercato è cambiato l’azienda raccoglie i frutti delle sue scelte. La speranza è che Palm non snaturi in futuro uno dei patrimoni dell’arte brassicola belga.

I cambiamenti del mercato hanno portato vantaggi anche a Timmermans, almeno in termini di cultura birraria. Il produttore di Lambic ha vissuto un periodo buio sotto il controllo del marchio industriale Anthony Martin, che ha coinciso col lancio di tante fermentazioni spontanee addolcite con i famigerati sciroppi di frutta. La riscoperta internazionale per il vero Lambic ha spinto l’azienda a riproporre sul mercato dei prodotti autentici, identificati dall’aggettivo “Oude” (vecchio). Un ritorno alle origini apprezzato da tanti appassionati, che conferma come il momento di transizione della birra belga sia vissuto in maniera diversa da realtà a realtà. E per fortuna non solo compiendo scelte opinabili.

Altri trend

Nel breve e medio termine la confusione è probabilmente destinata ad aumentare. Le tendenze emergenti in Belgio sono tantissime e affrontate quasi mai in maniera organica e chiara. L’incontro tra la birra e la cucina, la nascita di birre acide (in senso più ampio), l’uso di affinamenti in legno di ispirazione americana: sono questi alcuni dei trend che si rafforzeranno nei prossimi anni. Il Belgio resterà una delle potenze mondiali della birra e forse questo fermento non farà altro che aumentare il suo fascino come meta birraria per tutti gli appassionati.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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11 Commenti

  1. alexander_douglas

    Sebbene sottoporre a una breve pastorizzazione le acide delle Fiandre (e le acide in generale) possa sembrare una bestialità agli occhi dei cultori del sour perchè pregiudica il fatto che il gusto possa evolvere (quindi ne consegue che queste birre non serve a nulla invecchiarle) in realtà non è una pratica così mostruosa: certo va a morire il concetto di artigianalità ma non siamo lontani da chi pur artigianalmente va acide col sour mash o aggiungendo acido lattico e simili ( cosa che fa più di qualcuno, anche tra gli insospettabili). E tutto sommato quindi le scelte produttive di Vander Ghinste e Brabandere non mi sembrano male….le rispettive oud bruin sebbene più ruffiane di quelle classiche delle fiandre con quell’acetico che taglia le gambe le ho assaggiate in Belgio e sono piacevoli….la sfida di dedicarsi a tutte le fermentazioni poi, la giudico affascinante. Mi preoccupano di più l’appropriazione indebita di alcune denominazioni tipo gueuze che non sono manco vere spontanee ma dei blend a fermentazione mista, oppure le ingerenze dell’industria verso un mondo come quello dell’acido che dovrebbero essere le più lontane da certe logiche: cero John Martin permette di fare vere kriek e gueuze a Timmermans, come Palm a Boon però poi li obbligano a fare quei dolciotti commerciali a base di sciroppo….e anche con Rodenbach è lo stesso: hai citato la Rossa, ma escludendo Vintage e Caractere Rouge che sono fatti artigianalmen4e tout court mi sembra che la classica rodenbach e la grand cru subiscono quella pastorizzazione flash di cui parlavamo prima, o quanto meno Paolo Erne mi diceva così…puoi confermare?

    • Sulla pastorizzazione flash della Grand Cru non saprei, certo che il suo gusto è (almeno secondo me) ben lontano da quello “addomesticato” dei casi citati.
      Rimane il fatto che “ripulire” un prodotto che hai voluto precedentemente “sporcare” mi sembra un totale non sense.

      • alexander_douglas

        Credo che l’intento sia non rinunciare alla tradizione acida delle Fiandre ma allo stesso tempo avvicinarla alla necessità di un prodotto più stabile…..lo so che è un abominio per i puristi però funziona 😀 d’altronde se non ce l’avessero detto ci saremmo mai arrivati che sono birre che subiscono pastorizzazione?

    • Recentemente ho bevuto sia la Petrus Aged Pale di De Brabandere che la Cuvée des Jacobins di Omer Vander Ghinste. Entrambe facili, ruffiane e piacevoli, ma tuttavia prive di quelle note e quella complessità che, invece, in una Rodenbach Gran Cru si riscontrano ancora. Forse il motivo va ricercato nella pastorizzazione, ma io nutro dubbi persino sul fatto che vengano affinate in legno per 18 mesi, come in etichetta riportato…

  2. Ottimo articolo (come i due precedenti) e ottima analisi. Grazie! 🙂

  3. Trovo molto interessante la tua analisi Andrea. L’unica cosa che condivido parzialmente è che comunque esiste un Belgio progressivo che rivendica con forza la sua tradizione..vedi i produttori di Saison e il recupero della saison tradizionale, il mondo del Lambic, alcuni aspetti del mondo trappista, qualche flemish ale, e così via……senz’altro però un paese a chiaroscuri che deve fare i conti con il mondo americano come hai ben spiegato.

    • Grazie Paolo. In effetti ci sono tanti “Belgi” diversi, per questo ho premesso che la mia analisi sarebbe stata inevitabilmente parziale. Però forse è ancor più interessante, perché la Belgian Family Brewers accoglie produttori che spesso vengono trascurati da noi, vuoi per dimensioni, per un approccio poco “moderno” o per realizzare prodotti ormai super consolidati (e quindi percepiti come “roba vecchia”). In realtà però rappresentano insieme il 15% del mercato. Quindi forse è questo il “vero” Belgio brassicolo.

  4. Francamente se fossi un birrificio di un Paese con una tradizione forte eviterei di correre dietro alle mode e punterei sulla mia identità per tenere il mercato. Cioè un conto è essere USA, Italia, Ungheria e Scandinavia (Paesi con tradizione zero, a parte la Finlandia che almeno il Sahti ce l’ha) e creare quello che vuoi partendo da stili noti, magari reinterpretandoli. Ma se hai il trademark su Tripel, Dubbel, Saison, Lambic, Belgian Strong ecc. chi te lo fa fare di correre dietro agli americani ? Lo hai già dimostrato con Orval e Taras Boulba che il luppolo lo sai usare bene: piuttosto tieni quella linea perché tanto le IPA del Belgio non saranno mai concorrenziali a quelle USA.
    Nota a margine: lo stesso fenomeno lo percepisco (in scala ridotta) in Germania: sei la nazione delle basse (ok le weiss sono alte e Dusseldorf e Colonia fanno eccezione ma spero di aver espresso bene quello che intendo) e alcuni craft anziché “pompare” su quel tipo di prodotto (vedi Forschung che non a caso chiama pilsissimus il suo prodotto più riuscito) vanno a fare alte con esiti discutibili (provata la Imperial Stout di Schonramer ?)

  5. Interessante, in anni di Belgio non ho mai fatto caso ad un vero e proprio declino, certo che con il passare del tempo ormai il fenomeno dei microbirrifici ha contagiato un po’ tutte le nazioni erodendo parte del mercato delle birre belghe come anche la “moda” ed il forte richiamo delle birre made in USA…
    Però credo che sia una delle tante bolle, la fetta di mercato delle belghe è indubbia, ci sono tantissimi birrifici nuovi ma non tutti dureranno gli anni necessari per imporsi.

    Comunque noto che i birrifici della belgian family brewers sono più che di tutte le dimensioni già abbastanza grandi per i nostri standard ma anche per la miriade di birrifici del belgio.

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