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L’industria all’attacco: ecco 3 armi di difesa a disposizione dei microbirrifici

I temi trattati nel mondo della birra artigianale sono cambianti profondamente negli anni. In questo momento è impossibile non imbattersi, almeno una volta a settimana, in un articolo che sciorina dati di mercato (quasi sempre positivi) o che illustra la dicotomia tra craft beer e prodotti delle multinazionali del settore. Dobbiamo abituarci a questa idea: la birra artigianale è cresciuta così tanto da essere diventata un attore importante a livello economico e una delle conseguenze è l’interesse che ha suscitato nei confronti dell’industria. Mai come oggi il panorama birrario internazionale appare confuso: colossi che acquistano microbirrifici, birre commerciali che scimmiottano le artigianali, piccoli produttori che in poco tempo si riscoprono giganti.

Questa confusione ha due conseguenze dirette: la prima è di ripercuotersi immancabilmente sui consumatori finali; la seconda è di mettere in pericolo l’intero movimento. I fenomeni precedentemente illustrati si stanno concretizzando in realtà diverse da quella italiana, ma a ben vedere anche noi stiamo cominciando a confrontarci con alcune tendenze inquietanti: la più evidente è l’invasione di birre “crafty”, realizzate cioè dalle multinazionali ma con sembianze da artigianali. Se, come sembra, la minaccia dell’industria è destinata a diventare sempre più opprimente nel breve termine, quali sono le manovre di difesa a disposizione dei nostri microbirrifici? Proviamo ad azzardare qualche ipotesi.

Definizione di birra artigianale

Questo è uno degli argomenti che da sempre attraggono maggiore attenzione nell’ambiente, ma sul quale sembra impossibile trovare un accordo. Eppure sembrerebbe la soluzione più ovvia per contrastare la subdola incursione dell’industria nel nostro mercato: per evitare che le multinazionali lancino prodotti pseudo artigianali, basta stabilire cosa è birra artigianale e cosa no. Più semplice a dirsi che a farsi, come si può leggere nei commenti al recente articolo sulla discussione legislativa in atto in Italia al momento.

Se e quando il parlamento avrà legiferato sul concetto di birra artigianale, allora si potrà pensare di creare un marchio per identificarla agli occhi dei consumatori. Non sarà necessariamente un marchio di qualità in senso stretto – su questo argomento tornerò in futuro – ma quantomeno permetterà di distinguere i prodotti realmente artigianali da quelli camuffati come tali. Ciò servirà effettivamente a tutelare il lavoro dei microbirrifici? Difficile da dirsi. Probabilmente però la definizione legale arriverà – partendo però da esigenze diverse, legate in primis alle accise – e allora potremo verificare se i birrifici artigianali potranno utilizzarla come arma di difesa dall’industria.

Go local

Se le multinazionali operano in un mercato globale, una soluzione può essere di ragionare in modo completamente diverso, cioè locale. Attenzione però, non sto parlando della controversa moda di impiegare ingredienti del territorio, bensì di operare principalmente sul territorio di appartenenza. In altre parole potrebbe essere importante che i locali (pub, ristoranti, birrerie) sviluppino un’offerta incentrata sui produttori della zona, favorendo e alimentando un mercato locale che si contrappone, appunto, alle politiche globalizzanti dell’industria.

È un approccio molto sviluppato in contesti birrari diversi da quello italiano, ma non completamente sconosciuto alle nostre latitudini. Sono infatti diversi i locali che anche in Italia hanno concentrato la loro offerta sui microbirrifici della provincia o della regione di appartenenza, ottenendo spesso e volentieri risultati a dir poco incoraggianti. È una soluzione che non solo definirei virtuosa, ma che permette di affrancarsi da offerte standardizzate e ridondanti. E che mi auguro sia seguita da un numero sempre maggiore di attività, perché offre impulso a tutto il movimento.

Comunicazione

In passato spiegare la differenza tra birra artigianale e industriale era più facile: bastava farle assaggiare entrambe e il risultato era evidente. Oggi è più complicato, poiché la birra artigianale è diventata praticamente di dominio pubblico e i prodotti crafty confondono le acque. Mai come ora per un microbirrificio è quindi importante investire in comunicazione e raccontare la propria storia, cercando un contatto diretto con i consumatori. Che differenza c’è tra una vera birra artigianale e una Poretti 10 Luppoli o una Moretti alla Friuliana? Che nel primo caso a raccontarla c’è il birraio in persona, nel secondo caso il sig. Poretti o il sig. Moretti ha le stesse probabilità di palesarsi di Babbo Natale a ferragosto.

Però attenzione, perché per raccontare una storia non basta possedere un impianto (quando lo si possiede) e fare birra. Bisogna avere le idee chiare, sapere da dove si proviene e dove si vuole andare, disporre di buone capacità oratorie. E soprattutto coltivare una passione sconfinata per la birra.

E alla fine, a pensarci bene, la chiave è proprio lì: la migliore arma di difesa che hanno i birrifici artigianali nei confronti dell’industria è la passione. Occhio a non perderla mai!

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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14 Commenti

  1. Il discorso del “Go local” non mi convince mai fino in fondo…
    Non perché non sia giusto in senso assoluto, anzi, ritengo che le eccellenze locali vadano spinte, sostenute e valorizzate.
    Il problema è che a volte il Go local diventa un darsi la zappa sui piedi, in quanto molti locali si basano quasi solo su quello con il risultato di proporre birre scadenti solo perché prodotte nello stesso paesino o a pochi km.

    Il territorio, a mio modo di vedere, va sostenuto, difeso e promosso quando garantisce qualità, perché invece la difesa e la promozione del territorio solo in quanto tale, rischiano di deviare la comunicazione e vanno a convincere il consumatore medio che una birra (ma vale anche per altro) sia buona solo perché prodotta nei dintorni.
    In questo modo non si fa cultura birraria, ma solo sterile promozione territoriale a discapito della qualità. Tra l’altro, questo meccanismo, purtroppo molto diffuso, è quello che fa sì che molti piccoli produttori locali di bassissimo livello siano convinti di fare birre clamorose perché “ne vendono un sacco” o “alla gente piace tantissimo”… ma se poi si va ad analizzare il loro mercato, è costituito quasi esclusivamente dal proprio spaccio e dai 4 o 5 bar vicini, nel raggio di 5 km, dove la gente non capisce una mazza di birra e apprezza quella perché è l’unica che c’è e gliela producono a un metro.

    • Beh Paolo, ma tu arrivi a una conclusione negativa partendo da un assunto negativo. In altre parole vedi la cosa in maniera eccessivamente pessimistica. Il rischio di cui parli è reale, ma do per scontato che il locale in questione sappia distinguere un buon birrificio da uno che non è in grado di lavorare. E rispetto al passato l’offerta è talmente aumentata che ormai un po’ ovunque è possibile proporre un discorso locale senza necessariamente compromettere la qualità.

      • Sì, la qualità media è decisamente cresciuta, su questo non si discute, ma non tutti i territori sono alla stesso livello.
        Il mio pessimismo nasce dal fatto che ne ho visti diversi di locali (in particolare ristoranti) che hanno in carta birra artigianale perché fa figo averla, ma hanno magari un paio di referenze del birrificio più vicino geograficamente e nulla più. E se gli chiedi come mai l’hanno scelto ti dicono “ma io non capisco niente di birra, ma questa la fanno qui vicino, sono venuti a propormela e allora la tengo perché ogni tanto il cliente chiede birra artigianale”.

        • Beh ma converrai con me che chi ti risponde in quel modo potrebbe prendere delle zozzerie prodotte anche lontane da casa. Cioè è un presupposto sbagliato in partenza, che rovina qualsiasi tipologia di offerta si voglia proporre

          • Scusate mi inserisco nella discussione purtroppo per quotare Celo, qui da noi in Sicilia birrifici validi ne abbiamo davvero pochi, e noi che facciamo disitribuzione ci troviamo obbligati a dover trattare birre davvero scadenti perchè prodotte nel raggio di 20 km piuttosto che poter vendere una ducato a caso pagandola addirittura meno

          • Chiaro che non tutte le zone d’Italia sono allo stesso livello, ma anche in Sicilia qualcosa sta cambiando negli ultimi anni. Lì il problema è che il territorio è davvero vasta e per raggiungere un’offerta capillare c’è bisogno di un numero non indifferente di produttori

  2. Esatto, poi c’è da dire che se l’unico (o quasi) modo di distinguere birre di veri artigiani da crafty industriali e solo un bollo di ‘qualità’ che potrebbe arrivare bisogna domandarci il collegamento vero tra e prodotto finito. Per me molte finte luppolate ceafty alla cieca da molta gente un po’ alle prime armi potrebbe tranquillamente essere confusa per l’ipa di turno

  3. Da gestore di un pub brianzolo il problema di trovare proposte birrarie locali di assoluto valore fortunatamente non manca 🙂 senza star qui a fare nomi …
    Detto questo … ritengo anche io che il discorso del ” Go Local ” sia ancora, al momento, da approfondire e valutare per bene …
    Andrea ha pienamente ragione a evidenziare una costante ed esponenziale ascesa delle offerte … e soprattutto a responsabilizzare ” Il Pub ” nella ricerca di prodotti di in indiscutibile qualità da proporre al consumatore.
    Mio modestissimo parere però … credo che questa ascesa imponente della ” Birra Artigianale ” abbia fatto saltare qualche ” step di apprendimento ” ( chiamiamolo così ) al medio consumatore di birra italiano … storicamente poco legato all’arte della conoscenza della birra come concetto e non ( solo ) come bevanda.
    Ricollegandomi al concetto espresso da Celo … purtroppo ancora oggi moltissime persone nel momento in cui bevono per la prima volta qualcosa di alternativo ai classici liquami cui è stato abituato per anni, per il solo fatto di bere una birra ” artigianale ” questa gli risulta comunque buona …. involontariamente diffondendo il concetto che una birra artigianale è sinonimo di qualità.
    Questo credo abbia anche fatto in modo che anche a livello di produttori si siano inseriti nel mercato prodotti di qualità decisamente bassa, a volte anche oscena …. che comunque possono in ogni caso ” sopravvivere ” visto e considerato che certi target di consumatori medi locali li valorizzano consumandoli visto che godono del loro status di ” artigianale quindi di qualità “.
    Ecco allora che qui il pub deve ” istruire ” ma come scritto da Celo …. ci sono ancora molti posti dove la politica di ” Go local ” è da prendere con attenzione.

    • “Questo credo abbia anche fatto in modo che anche a livello di produttori si siano inseriti nel mercato prodotti di qualità decisamente bassa, a volte anche oscena”

      Probabile, anzi sicuro. Però io me li ricordo i festival di 10 anni fa, in cui l’80% delle bevute era da censura. Mi sembra che la situazione sia cambiata decisamente in meglio, per fortuna. Così come mi ricordo chi cominciava a fare birra in passato: te li potevi scordare progetti che partivano subito col botto come oggi e che conosciamo tutti. Quindi possiamo anche giocare a fare i vecchi rompicoglioni (non è il tuo caso) e a rimanere ancorati a quei 20 nomi che consideriamo intoccabili, ma nel frattempo tante cose stanno succedendo e tra queste molte meritevoli di attenzione. Fino a cinque anni fa avrei sfidato un pub campano a fare un discorso local con un minimo di rotazione di spine (tanto per fare un esempio), oggi invece è un’opzione percorribile con ottimi risultati (sia commerciali che qualitativi)

  4. Il bollo artigianale non è secondo un supporto. L’unico esempio sono i marchi IGT (nella birra l’unico è quello delle birre ceche, che sono un freno a qualunque innovazione…). Secondo me sono un’arma a doppio taglio (per capirci date una letta in giro su come funzionino i vari consorzi IGT che abbiamo in Italia). Sul Go Local ho anche dei dubbi (per fare un paio di esempi: con il go local TipoPils, Baladin, ReAle, Spaceman, Extraomnes, Hauria, per citare le birre che secondo me hanno creato il fermento italiano delle artigianali, non avrebbero mai avuto successo). Quello che invece serve è distribuzione alternativa e mescita di livello. Per distribuzione alternativa intendo distribuzione a temperatura controllata e servizio tecnico adeguato sugli impianti spina (e qualcosa da imparare la birra artigianale ce l’ha … in giro ci sono impianti infetti a gogò). Per mescita di livello invece significa lavorare con i punti vendita su formazione, mix di prodotti e abbinamenti. I grossi gruppo ormai pensano a queste due cose solo in termini di costo (di breve periodo) e non in termini di vantaggio di medio periodo. Come farlo visti i costi è una bella domanda..
    Un terzo punto è secondo me il più complicato ed è come arrivare al consumo a casa: nei beershop ci entriamo noi malati e basta, la GDO è uno schifo, le enoteche e vignaioli non sono educati abbastanza (e francamente i prezzi di alcune birre artigianali sono a livelli pari di buone bottiglie di vino… e la qualità non è sempre la stessa, il consumatore lo freghi una volta… la seconda no…). Su questo punto mi arrovello ancora e non ho idee chiare…

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