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Sulla spinosa questione “birra artigianale e qualità”

In questi giorni la birra artigianale in Italia sta vivendo un momento molto importante. In settimana il Senato si pronuncerà sull’emendamento alla legge delega di semplificazione del settore agroalimentare, decretando molto probabilmente la nascita della definizione ufficiale di birra artigianale. Da quando il testo dell’emendamento è stato reso noto, in molti si sono espressi su un passaggio che – almeno sulla carta – pare epocale. Giovedì scorso abbiamo analizzato nel dettaglio la definizione, sottolineandone pregi e difetti. Ora secondo me è il caso di affrontare un discorso più ampio, per capire non solo come questa novità potrebbe influire sul settore, ma più in generale per confrontarsi con il sentimento che si sta sviluppando intorno al concetto di birra di qualità.

Difficile oggi dire quali ripercussioni avrà la novità proveniente dal mondo della politica. Una novità peraltro concretizzatasi in tempi relativamente brevi e che – come già spiegato – in partenza doveva semplicemente essere uno strumento a favore della riorganizzazione della disciplina delle accise: per poter diversificare l’apporto dei diversi produttori (piccoli e grandi), occorreva prima identificare le caratteristiche dei birrifici artigianali. Il discorso accise però è stato rinviato e così è rimasta solo la definizione, che, slegata dalle ragioni che ne avevano ispirato la formulazione, è oggi un’entità dalla natura decisamente ambigua e che potrebbe avere risvolti imprevedibili. In questi termini, forse sarebbe stato meglio che il dibattito non fosse mai entrato nei corridoi della politica.

In molti hanno interpretato i limiti imposti dall’emendamento come i criteri per un marchio di qualità. Questa però è solo una possibile evoluzione della situazione, e neanche la più verosimile: non è affatto scontato che dalla definizione nasca un “bollino” da imprimere sulle etichette di birra artigianale. Ma anche in tal caso, difficilmente si potrà leggerlo come una testimonianza della qualità del prodotto finale: quest’ultimo dipende infatti dall’abilità del birraio e non certo solamente dalla dimensione dell’azienda o dal ricorso a specifiche tecniche. L’errore che non si deve commettere – definizione o meno – è di far passare il messaggio che la birra artigianale sia buona a prescindere, indipendentemente da tutto. Purtroppo sappiamo bene che non è così.

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A mio modo di vedere esiste però una grande differenza tra l’idea di birra artigianale e la sua effettiva realizzazione. A livello concettuale è sempre “birra di qualità”, perché si oppone al modello di birra (industriale) che ci viene propinata sin da quando siamo piccoli – o quantomeno sin da quando possiamo bere alcolici 🙂 . L’idea cioè che il fine ultimo non sia quello di massimizzare i ricavi, ma di realizzare qualcosa di buono; di non sacrificare la qualità in nome del mercato, ma di trovare un compromesso tra risultato finale e opportunità economica. I caratteri che denotano questa nuova filosofia sono diversi e riguardano svariati aspetti: dimensionali, produttivi, comunicativi, ecc.

Fin qui però siamo ancora in una dimensione astratta, dove la concretizzazione della stessa non è stata affrontata. Voler fare una buona birra non significa saperla fare, altrimenti chiunque di noi sarebbe in grado di aprire un birrificio – su questo mi ricollego all’articolo di ieri di Francesco. Senza contare che spesso anche l’idea stessa non è sostenuta da solide fondamenta. Insomma, esiste una profonda distanza dal concetto di birra artigianale e la sua realizzazione, ma questo non toglie che a livello ideale essa rappresenti uno strumento di straordinaria potenza, capace di innescare piccole rivoluzioni. Che sono proprio quelle che si stanno verificando in vecchie e nuove realtà brassicole di tutto il mondo.

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Un poeta alieno proveniente da Atkhor III afferma che “nell’arte l’idea generatrice è tutto, la realizzazione è irrilevante”. Ma appunto la birra non è arte, nonostante alcuni si affannino a dimostrare l’opposto. La birra è un prodotto, un bene di consumo, uno dei più antichi di sempre. E come tale è soggetto alle regole economiche che tutti conosciamo. Di conseguenza un birrificio è un’impresa, ha come obiettivo quello di crescere economicamente, pur mantenendo priorità ben precise. Aumentare la produzione non significa diventare “industriale”, così come l’aggettivo “artigianale” – probabilmente sbagliato, ma col quale dovremmo imparare a convivere – nel nostro settore ha poco a che fare con la visione romantica di Geppetto chiuso nella sua bottega a lavorare con legno e scalpello.

La deflagrante idea di una birra “migliore” ha in realtà confini molto labili ed è questa indeterminatezza che l’industria sta sfruttando per inserirsi con i suoi prodotti crafty. Che per carità, in rari casi sono anche migliori di quelli di alcuni microbirrifici nati da progetti inconsistenti, ma che a monte non partono dalla stessa filosofia. Una differenza che, al di là delle questioni relative a dimensioni, tecniche produttive, ingredienti e altro, si concretizza in un semplice dato: qualsiasi birra artigianale è riconducibile a una persona, che sia il birraio o il fondatore dell’azienda. Una persona in carne è ossa, sia chiaro, non un personaggio di fantasia con baffoni e improbabili cappelli 😛 .

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Il discorso intorno alla concezione e alla definizione di birra artigianale è quindi molto complesso. A me piace pensare che alla fine ognuno è libero di bere ciò che preferisce: il birrificio minuscolo e magari tutt’altro che costante, il produttore più grande e attento alla qualità, la birra crafty che riporta il nome di qualche regione italiana. No, in realtà l’ultimo caso lo escludo 🙂 . Al di là di tutto, delle chiacchiere e delle dichiarazioni (strumentali o meno che siano), secondo me ognuno dovrebbe bere valutando col suo giudizio personale, scevro per quanto possibile da ogni condizionamento esterno. Dobbiamo in primis riappropriarci di questo potere, che troppe volte mi sembra ignorato a favore dei luoghi comuni e dei giudizi di terzi.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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5 Commenti

  1. Dico la mia personale opinione dopo aver metabolizzato… per dirla in dialetto veneto.. pezo el tacon che el buso…
    sono d’accordo con te Andrea.. delegare alla politica una definizione di prodotto è un errore strategico del settore e inoltre a mio modestissimo parere non corrisponde alla ricezione della normativa europea (che è la ragione per la quale è passato l’articolo in commissione..) Per arrivare ad una cosa semplice (fiscalità di vantaggio per le birrerie non di grandi dimensioni, uno dei pochissimi casi in cui è ammessa dalla UE) qualcuno si è fatto prendere la mano (e non i deputati, che non credo sappiano nulla di quello che stavano scrivendo, ma qualcuno che gliela ha passata la definizione)… personalmente non sono nemmeno d’accordo sulla non pastorizzazione/microfiltrazione.. di fatto diremo fine a qualsiasi velleità non solo di esportazione ma anche vi saranno difficoltà di aumento distributivo fuori dalla aerea geografica di ciascun birrificio… ho il terrore di come possano venir fuori i decreti attuativi…

    • … e le beer firm (ad oggi per codice Ateco equiparate a distributori) rimangono .. solo saranno ad occhio dello stato equiparate ad un qualsiasi marchio commerciale della GDO… nel caso interpretativo peggiore saranno produzioni escluse da eventuale fiscalità di vantaggio sulle accise (chi le vorrà fare non ho idea di come possa gestire un doppio registro a magazzino fiscale..).
      non vado avanti perchè mi viene la bile verde…

    • Ma che dici? Perra, Arioli, Campari e altri ancora, attualmente, pastorizzano forse le loro birre, prima di esportarle? Non cambierà nulla. Tutto resterà come prima.

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