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Del piacere della bevuta e dell’aderenza di una birra al suo stile di appartenenza

Uno degli argomenti più annosi nel mondo della birra artigianale riguarda gli stili, le tipologie cioè in cui si divide il vasto e variegato mondo birrario. Se siete appassionati dovreste sapere che la sua definizione fu coniata dal grande Michael Jackson, e oltre a fornire una classificazione dei diversi frutti dell’arte brassicola, fu propedeutica a quell’approccio “etnografico” tanto caro al compianto scrittore britannico. Probabilmente gli stili sono lo strumento migliore per guidare il neofita alla scoperta dello sconfinato universo birrario, tuttavia possono rivelarsi un’arma a doppio taglio quando la loro funzione viene fraintesa ed estesa ad ambiti che non li riguardano direttamente. E poiché questo tema è ricorrente, non è un caso che negli ultimi giorni si stato trattato sia in Italia che all’estero.

La questione è stata ripresa lunedì scorso da Giuseppe Triggiani sul suo Diario Birroso, dove si è concentrato sul caso in cui l’attenzione alla coerenza stilistica diventa più importante del piacere della bevuta. Il suo riferimento è dunque a quelle situazioni in cui il bevitore di turno valuta più importante l’aderenza allo stile di appartenenza rispetto al risultato finale, così da penalizzare una birra nel complesso gradevole solo perché non perfettamente in linea con il modello di partenza. Chiaramente però esistono situazioni in cui questo approccio è sbagliato e altri in cui lo è molto meno.

La situazione più estrema è rappresentata dai concorsi birrari, dove la coerenza stilistica è fondamentale. Come forse saprete, in queste circostanze le birre sono divise in categorie, che corrispondono a stili o gruppi di stili. Ogni birrificio è chiamato a iscrivere le proprie birre nelle corrette categorie e quindi la gara comincia già con questa operazione. Un errore in questa fase è fatale: la produzione può essere complessivamente di grande valore, ma se non rispetta i dettami della categoria non solo sarà penalizzata, ma addirittura esclusa dal concorso. È il motivo per cui per anni i birrifici italiani non hanno vinto medaglie nella categoria Pils, salvo poi cominciare a mietere successi quando capirono che l’iscrizione andava effettuata in quella delle Zwickel Pils (non filtrate).

L’approccio ai concorsi è ovviamente il caso limite ed è giusto che sia improntato in questo modo – spesso mi trovo in disaccordo con giudici che tendono a premiare buone birre nonostante non siano in stile. Stiamo parlando però di contesti lontani dalle situazioni di tutti i giorni, che non corrispondono esattamente a una vivisezione analitica di qualche centilitro di birra servita in un bicchiere anonimo con davanti una scheda di degustazione. L’ambito di cui parla Giuseppe è quello più ordinario della bevuta al pub o in birreria, dove un approccio così tanto scolastico potrebbe sembrare quantomeno fuori luogo.

È naturale che in certi contesti il piacere della bevuta dovrebbe essere l’aspetto più importante, perché in ultima analisi è il motivo per cui si esce fuori per bere. Quindi il concetto di gradevolezza dovrebbe essere superiore a qualsiasi valutazione strettamente tecnica, come, appunto, quella relativa all’aderenza allo stile. Può accadere che le nozioni che si apprendono avvicinandosi a questo mondo cambino così tanto l’approccio all’assaggio da creare aberrazioni, dunque è importante ricordarsi sempre il fine ultimo della bevuta. Il fondamentalismo e l’interpretazione pedante della cultura birraria non sono mai una buona cosa, sia per il singolo consumatore, sia per il movimento nella sua interezza.

Premesso dunque che ogni appassionato talebano è un cattivo appassionato, ci sono almeno un paio di precisazioni da fare. La prima, sottolineata anche su Diario Birroso, è che la maggior parte delle birre artigianali riportano in etichetta il loro stile di appartenenza (o quantomeno di ispirazione). Anche solo per un rispetto nei confronti delle aspettative che si generano nel consumatore, è giusto che quella birra sia coerente con quanto dichiarato in etichetta. Ed è qui che entra in gioco quella zona d’ombra e quelle sfumature che intercorrono tra il nero e bianco e che, secondo Giuseppe, segnano il confine tra un approccio tollerante o eccessivamente intransigente.

È anche vero però che esistono stili più stringenti e altri che consentono maggiore libertà. Se un birrificio produce (e dichiara) una Kölsch o una Bitter, difficilmente potrà allontanarsi da alcune linee guida piuttosto stringenti. Ben diverso però è il caso delle Saison o delle IPA (intese in senso più generale), che permettono di variare su alcuni aspetti senza tradire il modello di partenza. Questo però non significa che alcuni stili non lasciano spazio all’inventiva, ma semplicemente che deve realizzarsi in maniera più subdola e, se volete, più elegante: pensiamo alla Tipopils del Birrificio Italiano o alla Rodersch di Bi-du, due birre molto personali, ma che sono coerenti con lo stile di riferimento (nell’ordine Pils e Kölsch).

C’è poi un’altra considerazione di stampo più psicologico e che si collega alla propensione del nostro cervello a ordinare la realtà in categorie. È un concetto ripreso qualche giorno fa da Stan Hieronymus sul suo Appellation Beer, dove riporta un estratto dell’ultimo capitolo di un libro di Tom Vanderbilt incentrato sul gusto. È un passaggio non riferito alla birra, ma che spiega perché le etichette sono importanti anche a livello sensoriale. Potremmo estendere il discorso agli stili birrari:

Ci piacciono di più le cose che possiamo categorizzare. Il funzionamento del nostro cervello è orientato alla classificazione della realtà e sembra che siamo attratti maggiormente dalle cose che rispecchiano ciò che noi pensiamo esse siano. […] Le cose che sono “difficili da categorizzare” sono difficili da apprezzare – almeno finché non creiamo nuove categorie. Ci piacciono di più le cose quando le possiamo classificare e le categorie aiutano a farci apprezzare di più la realtà, anche quando non non è così piacevole come potrebbe essere.

In tutto il discorso sull’assaggio e sugli stili di appartenenza c’è quindi una profonda componente psico-neurologica. Nel momento in cui qualcuno ci dice che una birra appartiene a un determinato stile, è innegabile che a livello di analisi entrano in gioco nuovi parametri, che si aggiungono a quelli di natura puramente edonistica. Saremo propensi a valutare l’assaggio comparando la birra con una serie di modelli mentali, che corrispondono (o che riteniamo corrispondere) alle caratteristiche di quello stile. E decideremo di conseguenza quale peso dare a questi parametri addizionali: in qualità di giudici saranno fondamentali, in qualità di bevitori “in borghese”… beh dipende da noi.

Escludendo quindi gli aberranti atteggiamenti dei talebani della bevanda di Cerere, è naturale che la coerenza dello stile è un parametro che ci accompagna sempre durante la bevuta, soprattutto quando viene dichiarata in precedenza. Le situazioni e l’esperienza ci aiuteranno a dargli il corretto valore rispetto al piacere finale della bevuta, ma è impossibile escluderlo dall’analisi complessiva, almeno a livello inconscio. Ma poi volete mettere quando una birra, oltre che buona, rispetta tutti i dettami dello stile di appartenenza? La soddisfazione in quei casi raggiunge livelli stratosferici!

Seguendo l’esempio di Giuseppe, concludo anche io chiedendovi come vi comportate in situazioni analoghe. L’aderenza allo stile è un valore imprescindibile? Oppure scompare totalmente di fronte al piacere della bevuta?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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7 Commenti

  1. Non sono un giudice, quindi la coerenza con lo stile mi interessa fino a un certo punto ai fini della bevuta in se stessa: mi basta che la birra sia buona.
    Il discorso però cambia in contesti dove la ricerca di uno stile è finalizzata alla ricerca di un prodotto con determinate caratteristiche organolettiche (in caso di abbinamento culinario, ad esempio, potrei opzionare una pils perché ho voglia di esaltare le note piccanti del piatto che devo mangiare: in questo caso trovarmi nel bicchiere una birra senza una netta chiusura amaricante non è opportuna).
    Tralasciando le mie opinioni personali credo però che il tema dello stile sia, in generale, una questione legata alla trasparenza di informazione e di rispetto nei confronti del cliente: quindi non si dovrebbe mai prescindere da una piena aderenza.
    Se un birraio dichiara una Cream Ale nel bicchiere non devo trovare una macedonia tropicale. Punto. Altrimenti chiedevo una IPA. Se poi volutamente crei qualcosa che non è inquadrabile in uno stile non fare dichiarazioni di principio e limitati a mettere altre indicazioni.

  2. Dire se una birra piace è una cosa soggettiva, dire che una birra è buona è possibile anche se non piace lo stile d’appartenenza. Ognuno ha il proprio gusto, quindi dire che piace vuol dire niente, perché a me che ho un gusto diverso, può anche non piacere. Dire che è buona vuol dire che ha tutte le caratteristiche dello stile. L’arte brassicola dovrebbe consistere nel trovare qualcosa di assolutamente unico, pur rimanendo nei parametri dello stile d’appartenenza. Purtroppo le artigianali sempre più spesso riportano come stili chiara, rossa, doppio malto. Non dichiarare lo stile è molto più semplice, non si può essere sottoposti a giudizi negativi della non appartenenza allo stile. E’ acida, la volevo fare così, è astringente, la volevo fare così, è sbilanciata, la volevo fare così. Così è tutto molto più comodo e facile e brassare attenendosi a delle regole complica di molto le cose.

    • Beh oggettivamente parlando (entro certi limiti) una birra buona può esserlo anche senza aderire perfettamente allo stile di appartenenza. Può cioè rispettare una serie di canoni che non sono legati direttamente allo stile. Sul discorso della comunicazione son d’accordo con te e con Enrico più sopra. Ad esempio a me piace poco la consuetudine di definire Saison qualsiasi birra con lievito belga prodotta con aromatizzazioni varie e non legata a uno stile preciso.

  3. Come commentato dagli altri, la definizione di stile di ispirazione serve, e molto, ai rapporti commerciali. Se sono un appassionato di IPA, scrivimi IPA, rispetta minimamente le guide stilistiche, e dammi sta bomba di luppolo (sotto la tua interpretazione). Quindi, la dichiarazione di stile è importante per capirci cosa vendo e cosa compro. Abbastanza simile come le varietà d’uva col vino, e i diversi tipi di formaggio.

  4. Dal mio punto di vista non ci sono grossi problemi dato che mi piacciono (quasi) tutte, tranne le stout.
    L’importante sono sempre le sensazioni che da la birra, non come la presentano.

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