Risale a un paio di settimane fa un articolo di Jack Peat comparso sulla sezione Lifestyle di Huffington Post (edizione britannica), dal titolo piuttosto perentorio: “The homogenisation of the British craft beer industry”. Nonostante il pezzo finisca ben presto per toccare i soliti argomenti triti e ritriti – l’invasione dell’industria nel settore, la posizione dominante di Brewdog – inizia concentrandosi sulla sfacciata omologazione che sta caratterizzando l’evoluzione di molti pub londinesi, incapaci di differenziarsi rispetto a un’offerta che sembra creata con lo stampino. È questa la parte del post che mi ha solleticato particolarmente, perché per certi versi si può adattare alla realtà italiana senza troppi stravolgimenti.
L’idea di Jack Peat può essere riassunta con l’espressione “illusione della scelta”. È proprio questo che avverrebbe in tanti locali di Londra, dove l’offerta è solo apparentemente ampia, risultando in realtà identica a quella di molti altri concorrenti. Non è un discorso che si riduce solo alla birra craft – sono citate anche le mode per i gin locali, i distillati artigianali, i cocktail di qualità – ma nei quali la nostra bevanda gioca un ruolo da protagonista. Anzi si può dire che è stata proprio la birra artigianale, grazie al suo successo planetario, a promuovere un nuovo modo d’intendere l’offerta dei locali.
In realtà è lo stesso autore a sottolineare come questa situazione rappresenti un grande passo avanti rispetto a qualche decade fa, quando le uniche opzioni possibili erano tra pessime Lager industriali e cibo scadente. Oggi in teoria il ventaglio di possibilità nelle mani dei consumatori è cresciuto drasticamente, sostituendo il concetto di piccola produzione indipendente alle imposizioni delle multinazionali. Ma nel momento in cui da esigenza di risposta allo status quo, questa nuova predisposizione si trasforma in tendenza, è ovvio che l’omologazione finisce col prendere il sopravvento.
È ciò che sta accadendo anche in Italia e in particolare a Roma. Perché cito la Capitale? Per diverse ragioni. In primis perché è la realtà che conosco meglio, abitandoci direttamente. In secondo luogo perché è il mercato di riferimento della birra artigianale in Italia, così avanti rispetto al resto del paese da anticipare presumibilmente futuri fenomeni nazionali. Infine perché Roma ha la malaugurata capacità di assorbire in maniera “artificiosa” le tendenze sorte altrove in modo spontaneo, apparendo troppo spesso un ricettacolo di mode già stanche e inflazionate prima ancora di arrivare in città.
Così la birra artigianale è diventata uno dei “linguaggi” del moderni format di locali, che troppo spesso si assomigliano fino alla noia. A ben vedere questo approccio deriva dal tipo di consumo che si è recentemente sviluppato nel settore enogastronomico, al quale ci si avvicina (anche per colpa di una comunicazione colpevole) in maniera ipocrita e superficiale. Le promesse di una varietà infinita di prodotti, della valorizzazione di piccole realtà locali e del riscatto del gusto e del piacere dell’assaggio, troppo spesso si annullano a causa di offerte estremamente standardizzate, che finiscono col vanificare tutti i presupposti.
In un contesto come quello di Roma alcuni di questi fenomeni sono già evidenti, altri potrebbero svilupparsi nel breve e medio termine. Il locale con hamburger gourmet e birre artigianali è ormai un modello che vanta innumerevoli esempi, ma basta ricordare il boom dei beershop degli scorsi anni per menzionare un format di grandissimo successo, che altrettanto velocemente si è arrestato. Ma a ben vedere di per sé uno stereotipo inflazionato non è necessariamente un problema, perché molto dipende da come lo si concretizza.
E qui entra in gioco il concetto di passione, che è sempre centrale in discorsi di questo tipo. Altri problemi sono spesso una conseguenza del modo in cui si avvia un’attività. Prendiamo l’offerta standardizzata: a fronte di decine e decine di pub e beershop presenti a Roma, in quanti si può affermare di bere qualcosa di diverso? Pochi, pochissimi. E nonostante in Italia siano attivi circa 1.000 produttori – in realtà non molti davvero validi, ma non a tal punto da giustificare una simile omogeneizzazione. Solo chi ha passione può spingersi oltre i listini dei soliti distributori e cercare contatti diretti con realtà differenti, al fine di offrire qualcosa di inedito con cui magari costruire un rapporto privilegiato nel tempo. Gli altri sono destinati a sopravvivere finché la moda continuerà, ma dopo saranno dolori.
Riallacciandomi all’articolo menzionato inizialmente, un altro pericolo in questo senso è rappresentato dalle future evoluzioni delle birre crafty in Italia. L’invasione infatti non è più limitata solo agli scaffali dei supermercati, ma sta conquistando spazi e linguaggi tipici di altre modalità di consumo. Quali sono le vere potenzialità di Birra del Borgo dopo l’acquisizione di AB Inbev? Fino a dove può spingersi il marchio Birra Poretti, forse il produttore crafty per antonomasia in Italia? Nel suo pezzo Jack Peat parla di un mercato monopolizzato da pochi birrifici (Meantime, Camden Town, Brewdog) che non sono né direttamente mainstream (sebbene i primi due siano passati nelle mani delle multinazionali), né rappresentanti di piccole realtà locali (Brewdog è ormai un colosso internazionale). Ammesso che la realtà londinese sia davvero così malmessa, è ciò che dobbiamo aspettarci anche da noi nei prossimi anni?
Tutti quesiti importanti e interessanti, ai quali oggi è difficile dare una risposta certa. Voi che ne pensate?
Puntare-mirare-fuoco!
Un ottimo articolo e ben scritto (seriamente ).
Mi trovo in accordo anche per la tendenza che vedo in una piccola provincia del nord Italia.
Una successiva riflessione andrebbe fatta anche sugli stili birrai che ridondano, anziche darne propria interpretazione, tanti cloni quasi mai riusciti.
Dopo questo boom modaiolo spero in una rinascita.
Grazie Damiano.