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Alessandro Borghese, la Leffe e il triste flirt tra chef e birra industriale

Alessandro Borghese entra in cucina, si rimbocca le maniche e introduce l’argomento del suo ultimo spot televisivo: “Abbinare buon cibo a un’ottima birra”. Si avvicina al tavolo, impugna una bottiglia da 75 cl, la stappa e ne versa il contenuto in un bicchiere a calice, continuando il suo monologo. Mentre assapora con gusto la birra, enuncia alcune parole chiave che si associano ai concetti di scoperta, tradizione e legame col territorio. Quindi esce di scena soddisfatto e lo spot si conclude. Dal suo inizio sono passati appena 15 secondi, sufficienti tuttavia a scrivere un nuovo capitolo del fatidico incontro tra gli chef italiani e la birra. Un incontro che ancora una volta si rivela per noi deludente: il marchio pubblicizzato non è infatti un’eccellenza della cultura brassicola internazionale, bensì la Leffe. Un prodotto mediocre, per di più controllato da AB Inbev, la più grande multinazionale birraria del mondo.

Lo spot di Borghese non è che l’ultima dimostrazione del grande problema che emerge quando l’alta cucina incontra la nostra bevanda. Purtroppo il suo non è un caso isolato e possiamo contare decine di chef che negli anni hanno associato il loro volto a brand discutibili. Gli esempi sono molteplici: la liaison tra Chef Rubio e Birra Peroni, le etichette di Birra Moretti con le caricature (tra gli altri) di Cannavacciuolo, Oldani e Sadler, i piatti dello stellato Boer abbinati alla birra Grolsch e altri ancora. La già citata Birra Moretti in passato si è legata addirittura a Massimo Bottura e ogni anno organizza un concorso per giovani cuochi (Premio Birra Moretti Grand Cru) dove in giuria appaiono nomi del calibro di Cracco, Romito, Berton, Reitano e via dicendo. Anche all’estero non mancano vicende analoghe: forse qualcuno di voi ricorderà la Estrella Damm Inedit, realizzata in collaborazione con Ferran Adria.

I tanti nomi elencati dimostrano che gli accordi tra gli chef e le multinazionali del settore non rappresentano sporadici incidenti di percorso, ma avvenimenti reiterati che si verificano con inquietante costanza. Per carità, a livelli altissimi può accadere che professionisti della gastronomia decidano di vendere la propria immagine all’industria, ben sapendo a quali ripercussioni andranno incontro. Uno dei casi recenti più emblematici è stato sicuramente l’accordo tra Cracco e la San Carlo, tramite il quale lo chef veneto ha pubblicizzato le patatine della ditta milanese. Una scelta sicuramente estrema, che infatti ha sollevato polemiche e critiche provenienti tanto dagli operatori del settore, quanto dal pubblico mainstream.

Il punto è che l’affaire San Carlo è rimasto un caso unico per la gastronomia italiana, almeno a certi livelli. Invece gli accordi tra multinazionali della birra e chef (più o meno) stellati sono praticamente all’ordine del giorno. Perché? Probabilmente perché per la nostra bevanda non esiste la stessa sensibilità che invece incontriamo per altri prodotti enogastronomici. I Cracco, i Romito, i Borghese o i Cannavacciuolo di turno non si fanno troppi problemi ad associare la propria immagine a controversi marchi brassicoli perché semplicemente non trovano in certi accordi qualcosa di deplorevole. Ma sarebbe lo stesso se a bussare alla loro porta fosse il Tavernello – con tutto il rispetto per il gruppo Caviro – o la Coca Cola? Magari la firma sul contratto la metterebbero lo stesso, ma prima dovrebbero superare almeno qualche decina di dubbi.

Ecco, per chi ancora non avesse chiara la questione, marchi come Leffe o Moretti Grand Cru stanno alla birra come il Tavernello al vino, la Coca Cola alle bevande analcoliche e la San Carlo alle patatine. Ma mentre il mondo dell’enogastronomia sa bene cosa rappresentano questi ultimi brand, credo che abbia le idee molto più confuse rispetto ai suddetti marchi birrari. Per averne conferma vi basta spulciare il menu della stragrande maggioranza dei ristoranti (stellati) italiani: raramente è dedicato uno spazio alla birra e quando accade è quasi sempre un disastro. È un problema che abbiamo raccontato più volte e sul quale è stucchevole tornare, tuttavia è chiaro che in questo caso, come nella facilità con cui gli chef si legano alle multinazionali della birra, c’è un grande limite di fondo: la scarsissima conoscenza del settore brassicolo.

Perciò a ben vedere il problema non sono i Borghese, i Rubio, i Cracco o gli Oldani. Così come il male non è vedere pubblicizzate in tv o per strada Leffe, Peroni o Moretti. Qui, in entrambi i casi, parliamo di livelli altissimi, dove certe dinamiche possono anche concretizzarsi. Il problema è più in basso, tra le centinaia di chef e ristoranti che ancora non hanno raggiunto certe vette, ma che si contraddistinguono per talento e per un’offerta di prima qualità. È in questo substrato che dovrebbe innescarsi un cambio di direzione nei confronti della birra, che dovrebbe svilupparsi una reale consapevolezza della bevanda e di tutto ciò che può offrire all’alta cucina.

Per riuscirci sono necessari due ingredienti: da un lato la capacità del settore di incuriosire e intrigare gli chef – obiettivo facilitato dalla caratteristiche intrinseche del prodotto – dall’altro una diversa predisposizione di questi ultimi nei confronti della birra. Che tradotto in parole povere significa allontanare i pregiudizi, entrare nei luoghi dove la birra si vive davvero e affrancarsi da certe dinamiche distributive. Insomma, nei confronti della nostra bevanda il mondo della cucina dovrebbe dimostrarsi curioso, umile e informato. Attribuiti che – quale coincidenza! – non dovrebbero mancare in qualsiasi cuoco che ami la sua professione.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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41 Commenti

  1. Sono completamente d’accordo su ogni parola che hai scritto ma da quel che ho recepito dalle tue parole trovo un po’ di rabbia e frustrazione (pienamente compresibile). Oltre ad analizzare questo fenomeno bisognerebbe anche andare alla ricerca della soluzione del problema, ma più mi metto a cercarla e più mi rassegno.
    Il problema fondamentale (in Italia) è la cultura. Il vino è prelibato, la birra è da “plebei” (non so se mi spiego). La birra è considerato un prodotto di seconda qualità e dal panorama birraio mondiale non veniamo certo aiutati (vedi Omnipollo).
    L’industria fa sicuramente la sua parte in questa concezione grazie alla quantità di denaro che mette in campo per pubblicizzare i porpri prodotti ma secondo me non viene fatto abbastanza da coloro che dovrebbero tutelare la nostra bevanda. Associazioni come Uniobirrai, MoBi, ecc, dovrebbero secondo me anche loro puntare alla sponsorizzazione da parte di chef che siano di piccolo o grande calibro perchè ormai nel mondo di “Masterchef” ogni volta che un cuoco apre bocca sembra abbia parlato Gesù Cristo in persona.
    Capisco la bassa disponibilità economica ma esisteranno chef che credono davvero alla qualità!? Esisteranno chef disposti a rinunciare alla valanga di soldi delle multinazioni e pronti a schierarsi in un prodotto di vera qualità?
    Io, sinceramente, lo spero ma purtroppo “pecunia non olet”.

    • Come ho scritto, da una parte dovrebbero essere gli stessi birrifici a sentire la necessità di accreditarsi nei confronti di un certo mondo, almeno per uno spirito di rivalsa, diciamo così. Unionbirrai non si è mai mossa in tal senso e fino a oggi l’unico birrificio che ha provato a sensibilizzare quell’ambiente in maniera decisa è stato Birra del Borgo (prova a cercare su Google “birra chef”), che purtroppo nel frattempo è passato nelle mani dell’industria.

      Dall’altra parte ci vuole meno supponenza (che mi pare un po’ superata negli ultimi anni), ma soprattutto meno pigrizia. Insomma, di fronte a una pubblicità come quella di Leffe mi aspetterei una levata di scudi da parte dei colleghi di Borghese, un po’ come è accaduto nel caso San Carlo. E invece niente, è normale. Anzi, magari tocca pure sentire che “alla fine è una buona birra”. Come se il punto fosse quello.

  2. La verità è che questi antipaticissimi chef pur di intascare denaro sarebbero disposti a tutto. Ma ci ricordiamo degli spot nei quali Bastianich ha prestato la sua faccia al colosso McDonald’s?

    • Su quello siamo d’accordo. Ma la domanda è: la reazione che in quel mondo può provocare vedere Bastianich accanto a Mc Donald’s è la stessa che provoca la faccia di Cannavacciuolo su una bottiglia di Birra Moretti?

      • Hai ragione, la reazione non è la stessa. Ma volevo solo dire che dopo il caso Bastianich non mi meraviglio più di niente.

  3. Io credo,modestamente,che il problema sia meno complesso. Da anni si fanno gli stessi discorsi sulla birra artigianale ma nessuno si pone una domanda basilare : Ma non é che chi beve la Leffe lo fa perché gli piace? E se a chi beve la Leffe una fantastica birra artigianale italiana non piaccia proprio?
    Sembra un ragionamento basilare ma altrimenti non se ne esce. Inutile voler cercare di educare le masse quando alle masse non frega nulla della birra artigianale. Secondo me é proprio cosí semplice. Considerare ignorante chi ha gusti diversi da noi non funziona,la sinistra Italiana perde le elezioni da 10 anni facendo un ragionamento politico simile!

    • E chi sta giudicando i bevitori di Peroni o di Leffe? Il pezzo punta i riflettori sulla considerazione che hanno della birra gli chef e il mondo enogastronomico in generale, cioè coloro che dovrebbero compiere delle scelte più oculate.

      • Si ho capito,quello che volevo dire (probabilmente spiegandomi male) é che il problema é che tu dici che la birra Leffe non é buona, ma se ne vendono cosí tanta vuol dire che a qualcuno piace, perché alla fine di gusti si parla. Il consumatore di Leffe magari le artigianali non le comprerebbe, oppure una parte di bevitori di Leffe attende di essere convertito a bevute “migliori” , e li sta alle persone come te di diffondere il “verbo”. I prodotti di nicchia ci saranno sempre, ma si chiamano di nicchia proprio per quello. Se i birrifici diventano famosi e si ingrandiscono subito sono tacciati di tradire lo spirito artigianale, insomma non se ne esce.

        • Il Tavernello è il vino italiano più venduto in assoluto, anche perché a molti piace (o piace acquistarlo, quantomeno). Per questo lo trovi nelle carte dei vini dei ristoranti stellati?

          • Non credo, io non ci vado a mangiare nei ristoranti stellati, non mi interessa pagare 50 euro per 30 grammi di riso o pasta. Se quello é il target dei produttori artigianali di birra allora che caccino i soldi e si comprino uno di questi chef stellati brassicolarmente ignoranti!

  4. Ciao.
    Io non vedo il problema , e se il problema c’è non lo vedo associato solo alla birra.
    Se anzichè il tavernello, uno chef stellato pubblicizzasse un vino altrettanto industriale ma meno sputtanato al grande pubblico, pensi ci sarebbe la levata di scudi da parte di tutti? Non credo.

    Immagino che la gente comune possa certo associare marchi come Peroni o Moretti a prodotti industriali, ma non essendo molto informata (come non lo è per il vino) magari pensa che la Leffe sia un prodotto di maggior qualità e legata a chissà quale tradizione.

    Non ci vedo niente di strano… ed è inutile incazzarcisi… soprattutto oggi come oggi che con tutti questi programmi TV anche gli chef sono diventati personaggi di spettacolo il cui interesse primario non è più tanto tutelare i valori della tradizione e della qualità, ma quelli del proprio portafoglio.

    Ciao

    Carlo

    • Ciao Carlo, per Legge ok il beneficio del dubbio. Ma negli esempi che ho riportato sono coinvolti anche marchi molto più sputtanati, eppure anche in quei casi… Tutto normale

  5. Condivisibile, ma incompleto, purtroppo.
    Un punto chiave della tua analisi è che il caso Cracco/SanCarlo sia un unicum, mentre nel settore brassicolo purtroppo sia ricorrente.
    La tua giovane età ti ha risparmiato invece la coscien,a che nella ristorazione il fenomeno è ricorrente da tempo, e con casi ben più illustri.
    McDoo ha prodotto e venduto un panino Marchesi (si, QUEL Marchesi, non uno scief qualunque).
    Le aziende da sempre fanno marketing usando testimonial. Davvero nessuna differenza nella promozione della birra, dell’hamburger, o dei dadi da brodo. O forse non ricordi nemmeno il Famoso che ammiccava ‘il seftreto del mio risotto? Il dado xxyy!’
    Tieni conto che nel caso di specie il testimonial è un puro soggetto televisivo, quindi perfettamente aderente allo scopo, non uno chef di ristorante da guida gastronomica. Vale, nel settore, tanto quanto il prodotto promosso

    • Ti ringrazio per la giovane età 🙂 magari fosse vero.
      Sì Cracco patatino non è un unicum, su questo hai ragione. Non ho citato i casi che hai riportato, come anche quello di Bastianich e McDonald’s. Il punto però è che in tutti questi casi all’azione dello chef ha corrisposto una reazione dell’ambiente, che si sia trattato di panini, patatine o dadi. Con la birra non si avverte la stessa reazione.

      • Giuro che non voglio trollare nessuno! Non capisco perché “l’ambiente” debba reagire, ti assicuro che alla Leffe pensano di fare una buona birra, che a te e tanti bevitori di artigianale non piace(me incluso), ma non sono dei millantatori. Non dicono che Leffe é la birra piú buona del mondo(ok,dice che é ottima). Ci sono 1500 tra birrifici e firms in Italia, secondo te quanti di questi producono una birra “qualitativamente” migliore della Leffe? (lascia perdere il gusto personale,parlo di difetti,infezioni etc.)

        • Il punto qui, come quando si parla di legge sulla birra artigianale, non è la qualità. A me la Coca Cola piace molto più di tante altre bevande analcoliche, ma se ci vedi accanto la faccia di un grande chef non pensi che ci sia qualcosa di sconveniente, diciamo così?

          • MA perché “sconveniente”, Andrea? Lo chef è chef nel suo ristorante (e ripeto, il Nostro non ha un ristorante, lo sta progettando dopo anni di presenza televisiva). In tv, sulle pagine pubblicitarie della stampa egli è un testimonial, come l’attore famoso lo è per il caffè, il calciatore per il marchio d’abbigliamento.
            Insomma, è un’altra cosa, e ne sono ben consapevoli le agenzie di marketing in primis. Forse confondi il testimonial con il personaggio che porta nel messaggio la propria credibilità; e qui c’è un unicum, il sig. Giovanni Rana, che tutti cercano di replicare, senza peraltro riuscirci. Tutt’altra storia!
            Come noterai, quello Famoso per le patatine ora fa pubblicità a un certo locale di casa che… vabbè 😉

          • Perché ti aspetti che uno chef stellato si accompagni a prodotti di eccellenza, cioè proprio quelli che dovrebbe incarnare (altrimenti il suo ristorante sarebbe Da Gigi er Buiaccaro). E la Coca Cola o McDonald’s o qualsiasi altro prodotto industriale (nel senso dispregiativo del termine) non può essere considerata un’eccellenza.

          • Io sinceramente no,pero capisco cosa vuoi dire.Il problema é forse l’idea che si ha degli chefs,per me sono persone che fanno un lavoro come un altro, alcuni bravissimi altri meno. A me la Leffe non piaceva prima e non piace ora. Stiamo all’opposizione che ci si diverte di piú !!

          • Basta che si beve! 🙂

  6. Samuele Roldo

    Credo che in molti locali, dove il livello della cucina è molto alto a prescindere dalla presenza della stella o no, ci sia questa attenzione ma manchi da parte dei maitre la conoscenza del prodotto. Non è il cuoco che propone in sala il vino…. Quindi non farebbero una gran figura a portarlo in sala.
    Vorrei ricordare che Bonci è legato a BdB e non ho visto grandi levate di scudi contro questa iniziativa. Baladin a casa Baladin porta nomi importanti della cucina italiana. Quello che forse manca è una strategia di marketing ed i soldi per realizzare certe campagne!

    • Lungi da me sperare che la birra artigianale possa andare in tv con la faccia di uno chef. Il problema è che non ci sono strategie del genere neanche a livelli più bassi.

  7. Non mi soffermo sul messaggio della pubblicità discutibile con il legame dello chef che “si vende” e il marchio della birra, ma se dici che la Leffe è “un prodotto mediocre” solo perché viene attualmente gestita dalla InBev, ne hai capito gran poco.
    La Leffe veniva originariamente prodotta in abbazia, poi a causa della rivoluzione francese questo non è stato più possibile e la produzione è stata spostata nella InBev, mantenendo naturalmente la ricetta iniziale.
    Ho bevuto abbastanza birre Leffe da garantirti che è una birra di gran lunga superiore a molte altre, e molto complessa e sofisticata, come sarebbe normale aspettarsi da una Belgian Ale.
    Una birra non deve essere per forza artigianale per essere di qualità, e sentir dire che è “un prodotto mediocre” sinceramente lo trovo un insulto, mi dispiace.

    • Oddio, il fatto che nelle mie considerazioni la Leffe sia una birra mediocre lo prendi come un insulto? E chi sei, il birraio di Leffe?

      • Lo trovo un insulto alle birre, in questo senso.
        Ovvio che non sono un birraio Leffe, ma ho avuto modo di apprezzarla appieno, in tutte le sue sfumature, e ti garantisco che mediocre non è, così come dimostrano, tra l’altro, i 75/85 punti che la gamma Leffe fa su ratebeer.com

        • Ah beh se lo dice Ratebeer… Già di suo quel sito è uno strumento ampiamente opinabile per certe considerazioni, poi tirarlo in ballo in questa discussione è un autogoal clamoroso. Sai che Leffe e Ratebeer appartengono alla stessa multinazionale?

          • Cosa c’entra? I punteggi sono ricavati in base alle valutazioni delle singole persone, e comunque poi ci sono ben altre birre Leffe, come la gamma Royale, che non hanno questi punteggi.
            Tra l’altro poi, tu stesso in uno dei tuoi articoli, citi il sito per confermare la qualità di alcune birre di cui stavi parlando.
            In più, paragonare la Leffe come se fosse il Taverenllo del vino, è fuori luogo in una maniera imbarazzante. Lo potresti fare con marchi industriali che veramente sono la mediocrità del mercato delle birre, come la Pedavena, Moretti, Peroni, ecc. ma non con la Leffe.

          • Cosa c’entra dici? A parte che è imbarazzante proporre come termometro della qualità del prodotto di un marchio un sito posseduto dallo stesso marchio, ti consiglio di leggere questo articolo https://www.pastemagazine.com/articles/2017/06/brewer-ratings-on-ratebeer-are-broken–and-they-ha.html

            In 10 anni di articoli ricordo di aver spesso criticato le dinamiche di Ratebeer e mai di averlo elevato a giudice della qualità di una birra, ma 10 anni sono tanti e quindi se dimentico qualcosa linkami pure i pezzi in questione.

            Ho sentito spesso dire che tra i vini industriali c’è di peggio del Tavernello, cosa che sicuramente è vera anche per Leffe nella birra. Quindi direi che ci siamo.

            William io capisco che tu magari lavori con Leffe e non ti dirò che non capisci niente perché la ritieni una grande birra (cosa che invece tu hai fatto con me). D’altro canto ho scritto che è una birra mediocre, mica che fa schifo ai cani.

          • Ok, scusami, forse mi sono lasciato prendere “dall’emozione”.
            Non lavoro con Leffe ma in questi mesi l’ho scoperta e mi sono affezionato/appassionato al marchio, ecco perché mi sono subito sentito “preso in causa” quando ho letto il tuo giudizio.
            Certo, non hai detto che fa schifo, (ci mancherebbe!) ma al termine “mediocre”, mi piacerebbe tanto sapere come ci sei arrivato..
            Quante ne hai provate per arrivare a questa conclusione?
            Scusami, ma mi sembra veramente inconcepibile, visto che tutte le volte che bevevo una Leffe sentivo un corpo fruttato, un’aroma intenso, tutte sempre ben bilanciate e ben equilibrate, tra l’altro con un profumo finissimo che mi fa svenire ogni volta.
            Io giudicherei una birra mediocre magari perché non è bilanciata tra il dolce e l’amaro, o perché manca di corpo, o perché è troppo leggera, ma di sicuro non una Leffe.
            Ah, per quanto riguarda ratebeer, neanche io ero, e tutt’ora sono un fan di questo sito, infatti gran parte delle recensioni mi sembravano sballate e inconcludenti, però per alcune Leffe confermavano quanto da me sperimentato quotidianamente.
            Comunque avevo trovato questo tuo articolo http://www.cronachedibirra.it/altro/6025/quelle-banali-birre-per-cui-impazzivo-i-primi-tempi/
            nel quale citavi proprio ratebeer e i punteggi astronomici che dava proprio per confermare quanto alcune birre fossero speciali per te all’epoca..
            Sito o non sito, comunque per me la Leffe non sarà di certo la Belgian Ale migliore sul mercato, ovviamente, ma rimane una birra di alta qualità, viste le sue caratteristiche.
            Cosa ne pensi?

          • Oddio, sei andato a riprendere un articolo di 7 anni fa. Sinceramente non ricordo perché in quell’occasione decisi di far riferimento ai punteggi di Ratebeer, ma ci sono altre decine di pezzi che spiegano bene cosa io pensi di quel sito in termini di voti alle birre.

            Per me Leffe (parliamo della Blonde immagino) è una birra mediocre per aspetti che tu non condividerai. La trovo stucchevolmente dolce, anonima, dozzinale e “finta”. Senza entrare nei dettagli del processo produttivo, tipici dell’industria. A tal proposito dai una letta anche a questo mio articolo http://www.cronachedibirra.it/viaggi/7704/visita-a-stella-artois-o-di-come-le-multinazionali-concepiscono-la-birra/

            Perdonami se ho insinuato che lavori con Leffe, spesso chi difende su queste pagine certi prodotti è un distributore o un publican che li tratta. Evidentemente allora sei una persona che ha da poco conosciuto un modo diverso di intendere la birra e probabilmente Leffe rappresenta per te quella gateway beer verso prodotti alternativi alla birra industriale. È un’etichetta che funziona molto bene da questo punto di vista, perché apre le porte verso un’altra bevanda: è facile rimanere colpiti dagli esteri del lievito ad alta fermentazione (ma anche da aromi artificiali ahimè) e da un corpo meno sfuggevole del solito. Comunque basta bere un po’ di Belgian Ale di alto livello per spingere la Leffe in fondo alla propria graduatoria personale. È ciò che è successo quasi a tutti: anche io all’inizio stravedevo per prodotti che oggi ritengo ampiamente trascurabili.

            P.S. Il corpo non può essere fruttato, quello è il gusto

          • Ok, son d’accordo che la Leffe Blonde magari può non piacere perché è leggermente più dolce delle altre, però, sull’aroma “finto”… non riesco proprio a condividerlo.
            Comunque, quando intendo “Leffe” intendo ovviamente anche tutte le altre birre della gamma, come la Radieuse, la Royale, la Triple, ecc.
            Se non l’hai già fatto, permettimi di suggerirti di provare la Triple, è decisamente più complessa delle altre, è molto corposa e ha un’aroma che mi ha lasciato a bocca aperta (ed è anche molto meno dolce della Blonde, ovviamente!).
            Comunque si, nella mia vita relativamente “giovine” mi sono stupito di questa Belgian Ale in quanto la prima birra belga che avessi mai provato, e in quanto completamente diversa dalle standard lager a cui ero abituato, magari se allargo i miei orizzonti potrò scoprire nuovi aromi e gusti più complessi.
            Fai una cosa, per curiosità mia, prova sia la Radieuse che la 8°, e poi dimmi cosa ne pensi.
            Non potrai dire di nuovo che sono mediocri! 🙂
            (Sono fiducioso).

          • Ok mi sacrificherò per la causa e assaggerò la Radieuse se mi capiterà sotto mano, anche se l’unica che davvero proverei è la Royale. Tu però bevi qualche Belgian Ale artigianale di alto livello, ovviamente belga.

          • Ah hah! Grande!
            Ti dico la verità, la Royale non l’ho ancora provata così a fondo per esprimere un parere, ma purtroppo qui dove vivo io importano solo la “Whitbread Golding” che è solo uno dei 4 stili di Royale.
            E si, comunque, mi piacerebbe provare altre Belgian Ale artigianali, a patto di trovarle nella mia zona… 😉
            Comunque credo che proverò la Kwak.
            E’ un buon inizio?

          • Pessimo 🙂 A quel punto di Bosteels (che ormai è anch’esso un marchio AB Inbev) molto meglio la Tripel Karmeliet, anche se entriamo nel campo delle Belgian Strong Ale / Tripel.
            Se vuoi restare su prodotti “tranquilli” e facilmente reperibili, prova la Moinette Blonde di Dupont (anche se qui saliamo un po’ di gradazione) o la Rulles Blonde di Rulles. Poi virando verso interpretazioni più moderne (e un po’ più amare) trovi cose interessanti da De La Senne (Zinnebir) e De Ranke (XX Bitter). Ci sarebbe anche la trappista Orval, che ti consiglio di provare per una variante sul tema (Brettanomyces).
            In Italia c’è qualche interpretazione molto valida, come la Blond di Extraomnes e la Xelles di Nix.

          • Guarda, ti ho detto la Kwak perché 1) l’ho sentita menzionare da te in uno dei tuoi articoli come “birra per cui spasimavi all’epoca” e, molto più importante, perché 2) l’avevo già vista sugli scaffali degli ipermercati vicino a dove vivo 🙂
            Avevo già sentito la Triple Karmeliet su internet, ma non so se la trovo in giro, e ovviamente neanche tutte le altre che hai citato.
            Comunque si, so bene che è dello stile Tripel, ma ciò non va bene, va benissimo!
            Per farti capire, la Leffe Triple è anch’essa dello stile Belgian Tripel, ed è la miglior birra che abbia mai bevuto fino ad ora.
            Certo, per la mia età (ho 18 anni) questo vuol dire gran poco, visto che Leffe è l’unica esperienza belga che abbia mai avuto, però… era giusto per farti capire i miei gusti.
            Adoro le Belgian Tripel!
            Comunque grazie per il consiglio. Vedrò di trovare quel che posso.
            P:S. Ci scambiamo qualche contatto, così magari continuiamo questa interessante conversazione in un altro posto un po’ più comodo? 🙂

          • Certo puoi scrivere alla mail del sito o sulla pagina Facebook, tanto rispondo sempre io

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