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Quando un birrificio vende a una multinazionale

Ormai da qualche anno le chiacchiere birrarie della comunità internazionale si concentrano su un solo argomento: le acquisizioni dell’industria nel comparto craft. Il fenomeno all’inizio è rimasto pressoché circoscritto alla realtà americana, salvo poi coinvolgere successivamente tutte le realtà brassicole del mondo. In Italia è arrivato nel 2016 con la cessione di Birra del Borgo, mentre esattamente un anno fa restammo disorientati dalle operazioni che in pochi giorni cambiarono l’assetto di Birrificio del Ducato e Birradamare. Come sappiamo, a questi nomi poi si è aggiunto Hibu, finito sotto il controllo di Heineken. In tutte queste circostanze (e in altre ancora) non ho nascosto il mio disappunto per la perdita di importanti protagonisti della scena italiana e internazionale e per l’ingresso delle multinazionali nel nostro mondo. È una reazione comune a quella di tanti altri appassionati, eppure anche quando le conclusioni sono le stesse, possono esistere delle sfumature nell’interpretazione dei fatti che hanno un’importanza decisiva. Nel pezzo di oggi cercherò di chiarire ulteriormente il mio pensiero al riguardo.

Immagino che molti tra voi non accolgano di buon grado le notizie riguardanti le acquisizioni dell’industria. Ciononostante le reazioni possono essere molto diverse tra loro, così come le valutazioni che si elaborano di volta in volta. Essere contrari a certi fenomeni non significa pensarla tutti allo stesso modo: in altre parole le conclusioni possono collimare, ma i percorsi a cui vi si arriva cambiare sensibilmente da persona a persona. E allora comincerò con lo spiegare che cosa non è, per me, questa “guerra” tra birrifici artigianali e multinazionali.

Non è una questione ideologica

Con il tempo ho imparato che alcune persone danno a certi avvenimenti una lettura ideologica e politica – sia chiaro, intendendo questi termini nel senso più ampio possibile. Personalmente non sono contro le multinazionali in quanto tali. Nella mio rammarico rispetto a certi avvenimenti non c’è alcun tipo di lettura anti-globalizzazione o di critica nei confronti del sistema economico neoliberista. Le mie valutazioni sono decisamente più pragmatiche e si basano su quanto avvenuto in passato. Se oggi si parla di una renaissance della birra artigianale è perché tra gli anni ’60 e ’70 qualcuno si è accorto che il mercato birrario era profondamente cambiato: i prodotti erano diventati quasi tutti scialbi, simili, anonimi, senza alcun riguardo per le differenze locali e le tradizioni del passato. È una costante che si ritrova in tutte le principali realtà brassicole: in Belgio, nel Regno Unito, negli USA.

Sebbene le multinazionali e i piccoli birrifici abbiano un fine ultimo comune – quello cioè di fare business – il modo in cui lo perseguono è molto diverso. Le prime hanno necessità di rivolgersi al più ampio pubblico possibile, con conseguenze sia dal punto di vista economico che produttivo. I secondi possono fare impresa differenziandosi dai prodotti di massa, ricercando la qualità invece della riduzione dei costi di produzione. È la filosofia di partenza a essere totalmente differente ed è ciò che permette a una birra artigianale di essere concettualmente – e sottolineo concettualmente – migliore di una industriale per materie prime e soluzioni tecnologiche. Per questo mi rammarico quando un birrificio indipendente vende a un gigante del mercato: perché potenzialmente si espone a un cambio di paradigma assai pericoloso, come dimostrato in passato da molti marchi ex craft. Non perché le multinazionali sono grosse, sporche e cattive.

Non è una questione morale

Invidio chi riesce ad avanzare obiezioni di tipo etico di fronte alla scelta di un piccolo imprenditore di vendere il suo birrificio a un colosso del mercato, in cambio magari di un accordo economico a sette zeri. Per come la vedo io, porre una questione morale di fronte a certe scelte è un esercizio piuttosto disonesto, perché è impossibile conoscere da fuori lo stato di un’azienda in un determinato momento. O anche quello di una persona che trova economicamente vantaggioso cedere la propria società alla multinazionale di turno. Non ho mai nascosto di aver sempre ritenuto lecite certe operazioni, perché chiunque di noi nella stessa condizione avrebbe probabilmente compiuto la stessa scelta.

Se c’è una questione morale in ballo è in realtà quella relativa all’onestà intellettuale e alla trasparenza di chi vende. In questa ottica è giusto pretendere che chi ne è protagonista lo renda noto a tutto l’ambiente, rispettando coloro che preferiscono lavorare o semplicemente acquistare birra di birrifici indipendenti. Allo stesso modo è importante che chi ceda alle lusinghe dell’industria non continui a utilizzare una denominazione evidentemente redditizia come “birra artigianale”, per di più da quando in Italia esiste una legge che ne disciplina l’uso. Questi sono i temi sui quali i consumatori dovrebbero mostrare intransigenza, non sulla scelta “etica” di vendere all’industria.

Non è una questione sulla qualità

“Quel birrificio ha venduto all’industria, ma fa buone birre e di certo la qualità non cambierà dall’oggi al domani”. Recita più o meno così un’affermazione ricorrente in situazioni del genere, ma è sbagliata: non è vero che la qualità non cambierà, perché nel breve e medio termine forse crescerà persino. L’acquisizione da parte di una multinazionale può tradursi nell’adozione di protocolli e in investimenti immediati in vari aspetti della produzione, capaci di apportare sensibili miglioramenti. Ma l’analisi dovrebbe spingersi un po’ oltre e capire cosa può avvenire nel lungo termine, diciamo dopo qualche anno, quando il birrificio deve dimostrare alla proprietà il raggiungimento degli obiettivi prefissati in partenza. Ed è qui che potrebbero subentrare problemi per il mantenimento della qualità del prodotto, se non della sopravvivenza stessa del marchio.

C’è poi chi riduce tutta la questione a una superficiale contrapposizione tra due fazioni, senza vie di mezzo – ahimè, un bias cognitivo molto diffuso al giorno d’oggi. Se esprimi rammarico nei confronti dell’acquisizione di una multinazionale, diventi automaticamente uno snob che si compiace delle bottiglie da 20 euro di discutibili produttori indipendenti, incapaci persino di garantire una costanza qualitativa minima. Purtroppo è vero, esistono tanti birrifici che sfornano in continuazione schifezze monumentali. E allora? Per due o tre di loro ne esiste uno che invece crea grandi birre, se non vere e proprie perle brassicole. Qui la contrapposizione non è tra birra buona e birra cattiva, ma tra autonomia e dipendenza. Secondo me è meglio avere a che fare con 1.000 birrifici indipendenti, nei quali rientrano aziende valide e altre da censura, piuttosto che con pochi birrifici controllati dall’industria – come se poi questi ultimi producessero solo birre straordinarie.

Il succo della questione

Per me tutta la questione non verte su considerazioni ideologiche, morali o qualitative. Come accennato, la mia è una lettura molto pragmatica: in passato le acquisizioni hanno distrutto il mondo della birra e vorrei evitare che accadesse di nuovo. Non è una presa di posizione facile da mantenere, né una valutazione esente dalle evoluzioni del mercato. Da appassionato di birra, ho sempre pensato che l’auspicio migliore per tutti noi è che si moltiplichino le occasioni per bere bene. Che si possa trovare con sempre maggiore facilità una valida alternativa alle birre dell’industria. Apparentemente, le acquisizioni delle multinazionali producono proprio questo effetto, perché ampliano le possibilità di acquistare birra “diversa”, talvolta di ottima fattura. Ma potrebbe essere un specchietto per le allodole, una conseguenza temporanea di una tendenza destinata a evoluzioni completamente opposte.

Ma se così non fosse? Che succederebbe se le multinazionali, operando in un contesto diverso dal passato, riuscissero a preservare la qualità dei marchi che acquisiscono? In quel caso, puramente ipotetico, allora realizzerebbero l’auspicio di cui sopra e potremmo esserne cinicamente felici. Ma probabilmente a discapito di centinaia di piccoli produttori, che non potrebbero competere e sarebbero destinati a scomparire. Ne guadagneremmo in reperibilità, ma ne perderemmo in varietà. E ricordate che la varietà è alla base delle ricchezza della nostra bevanda.

Insomma, tutta la questione è parecchio spinosa e io stesso a volte mi muovo in bilico tra predisposizioni differenti. L’importante è capire che ogni lettura immediata e superficiale del fenomeno trascura qualche parte importante dell’intero discorso.

P.S. L’immagine qui sopra è presa da un recente post di The Mad Farmentationist, che vi consiglio di leggere.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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