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Il fenomeno crafty 2.0: l’industria prova a ridefinire il concetto di birra artigianale

Negli ultimi anni il mercato della birra è stato invaso da una miriade di birre crafty: prodotti delle multinazionali del settore che nell’immagine e nell’aspetto ricordano quelli dei birrifici artigianali. È una strategia in atto da tempo – ricordate ad esempio la Moretti Grand Cru? – ma che nel recente passato ha assunto le dimensioni di un vero e proprio fenomeno: in ordine sparso possiamo citare l’H41 di Heineken, le Regionali di Moretti, le Norden di Ceres, la numerazione luppolata di Poretti, la Re-brew di Carlsberg e tante altre ancora. Su queste pagine abbiamo sempre affermato che l’obiettivo di certe operazioni commerciali è di confondere scientemente le acque e sfruttare l’interesse del consumatore medio per la birra artigianale confondendolo con prodotti che sembrano birra artigianale. Mi rendo conto che una tesi del genere può sembrare eccessivamente radicale o addirittura il frutto di qualche strana paranoia birraria, eppure ora arriva uno studio a confermare che dietro il fenomeno crafty c’è il preciso tentativo dell’industria di trarre in inganno il potenziale acquirente.

La notizia è apparsa nientemeno che sul The Guardian, dove si spiega che una recente ricerca britannica ha rilevato che il 98% degli intervistati non associa il concetto di “craft beer” (birra artigianale) alle multinazionali. Per il 43% di loro la birra artigianale è quella prodotta da un piccolo birrificio, mentre una percentuale simile ritiene che lo stesso produttore debba essere indipendente. Ma – e questo è il dato chiave – solo il 2% dei 2.000 intervistati crede che l’aggettivo “craft” possa essere associato a una birra realizzata dall’industria. Il risultato è eloquente, perché significa che se un consumatore avesse intenzione di acquistare birra artigianale, quasi mai si rivolgerebbe a un prodotto delle multinazionali. La soluzione è dunque camuffare quest’ultimo da qualcosa di diverso.

Il discorso chiaramente si estende anche a tutti quei marchi originariamente artigianali, ma che sono passati sotto il controllo del colosso di turno. Queste fattispecie rappresentano il caso più evidente di confusione, perché chiaramente il cambio di status del birrificio è una notizia che difficilmente travalica i confini degli addetti ai lavori. Prendete l’esempio italiano per eccellenza: la maggior parte di coloro che bevono Birra del Borgo – azienda che da tempo si è fatta conoscere ben oltre l’ambito degli appassionati – è ancora convinto che sia un birrificio craft e non è minimamente a conoscenza dell’operazione con cui nel 2016 la multinazionale AB-Inbev ne ha acquisito il totale controllo. La delusione che percepisco in loro quando scoprono la verità è probabilmente solo l’anticamera di futuri cambiamenti nelle relative abitudini di acquisto.

Tornando all’articolo in questione, nette sono le dichiarazioni di Mike Benner, direttore esecutivo del Siba (Society of Independent Brewers):

Questa nuova ricerca dimostra che se i consumatori fossero pienamente consapevoli di ciò che acquistano, allora non considererebbero craft nessuna birra prodotta dalle multinazionali.

Gli fa eco Greg Pilley, direttore operativo del birrificio Stroud:

Se il 98% delle persone ritiene che la birra artigianale è un prodotto indipendente, di qualità e realizzato in quantità ridotte, come può l’industria continuare a usare questa espressione senza incorrere in sanzioni?

La risposta alla domanda è ahimè semplice: muovendosi in un cono d’ombra che le garantisce sostanziale immunità. Che in altre parole significa utilizzare espressioni come “birra artigianale” laddove ancora non è stata disciplinata (quindi in quasi tutti i paesi del mondo, Italia esclusa) oppure evitando riferimenti diretti ma utilizzando il linguaggio tipico dei microbirrifici. Che poi è esattamente ciò che fanno tutti i prodotti crafty elencati all’inizio.

Tuttavia da quando il comparto craft ha iniziato a correre ai ripari e a mettere in campo iniziative per tutelare il proprio mondo, le multinazionali hanno cominciato ad adottare un’altra strategia. Che è quella della retorica: non cercano più di confondere subdolamente il consumatore, ma provano a convincerlo che il concetto stesso di “craft beer” è relativo. Stanno cercando cioè di riscrivere il vocabolario del settore e di andare oltre la nozione di birra artigianale. Ci dicono che non è più valida, che è puramente soggettiva, preparando il campo per un nuovo paradigma semantico destinato (nella loro idea) a subentrarvi.

Significative in questo senso sono le parole di Jan-Willem Heeg, responsabile dello sviluppo craft di Heineken:

Il reale significato di “craft” è negli occhi di chi guarda. Ciò che rileviamo è che la maggior parte delle persone ritiene che la birra artigianale sia quella con una certa immagine, dotata di un range di aromi più ampio e generalmente nuova, o percepita come tale.

Queste dichiarazioni mi hanno subito riportato alla memoria un video che AB Inbev pubblicò qualche mese fa e in cui una “beer educator” intervistava i tre fondatori del birrificio americano Blue Point, passato nel 2014 sotto il controllo della multinazionale. A metà video arriva la domanda chiave: “Cosa significa per voi craft beer? Se proprio vogliamo continuare a usare questo termine…”. E giù risate, come se fosse la domanda più idiota del mondo. Seguite poi dalla seguente affermazione:

È un termine che probabilmente scomparirà in un paio di anni e sarà soppiantato da qualche altro concetto.

Detta da un birraio che ha scelto di non essere più craft all’incirca cinque anni prima. Ed è qui il paradosso, che a spiegarci cosa significa “craft beer” vuole essere chi non ha mai fatto parte di questo mondo o chi ha deciso volontariamente di uscirne. Un tentativo che, come potete verificare, è comune a diverse multinazionali.

Non è escluso che effettivamente tra qualche anno concetti come “birra artigianale” o “craft beer” non abbiano più senso, ma voglio sperare che sarà perché il comparto avrà trovato un altro modo di comunicare sé stesso e non perché sarà stato deciso da entità esterne.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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Un commento

  1. I birrai nostrani hanno aiutato non poco l’industria mettendo in etichetta termini tipici dell’industria: doppio malto, rossa, bionda, stile non dichiarato, ispirata a ….. Hanno aiutato l’industria con descrizioni prive della corretta informazione, ovvero con diciture pressapochistiche, tipiche dell’industria, che preferisce non entrare troppo nei dettagli. Alcuni li hanno anche aiutati adottando metodi industriali quali la saturazione forzata o ancora risparmiando sulle materie prime o velocizzando i processi. L’industria fa il proprio lavoro, i birrai a volte no. Personalmente non divido le birre in industriali e artigianali, ma in buone e non buone, mentre penso che per la massa la birra artigianale sia semplicemente quella cara.

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