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I pericoli delle leggi regionali sulla birra: incoerenza e vincoli sugli ingredienti

Come probabilmente saprete, dal 2016 esiste in Italia una legge che disciplina la definizione di birra artigianale. Coerentemente con i costumi italiani, non basta però una regolamentazione nazionale per mettere tutti d’accordo sul tema, poiché gli enti locali sentono l’esigenza di stabilire dei propri criteri in materia. Così mentre a livello generale siamo ancora in attesa del benedetto decreto ministeriale per l’effettivo abbassamento delle accise – situazione che sta diventando una barzelletta e motivo ultimo per cui esiste la legge del 2016 – a livello regionale continuano gli iter per la creazione di norme specifiche sulla birra di qualità. Poiché la parcellizzazione delle direttive relative a un argomento rischia di provocare confusione ed effetti controproducenti, è importante seguire queste vicende con attenzione, evitando che si sviluppano sulla base di premesse fuorvianti.

Innanzitutto è bene precisare che la creazione di leggi regionali sulla birra artigianale è un fenomeno cominciato ben prima della nascita della normativa nazionale del 2016. Già all’inizio degli anni ’10 si cominciò a parlare di marchi locali attribuibili a birre prodotte secondo determinati disciplinari: furono iniziative quasi sempre collegate ad Assobirra, che dal 2012 in poi promosse la creazione di A.BI. Lazio, A.BI. Campania e A.BI. Lombardia. Iniziative che non ebbero vita lunga, ma che presumibilmente incuriosirono il mondo della politica: fu da quel momento in poi che iniziarono a essere prodotti alcuni disegni di legge regionali in materia, come quello denominato “Norme in materia di Birra Artigianale Piemontese”, a firma PD. Era il 2013 e se non sbaglio fu il primo esempio del genere, apripista per altre proposte analoghe che sarebbero arrivate negli anni successivi.

Dopo il Piemonte notizie del genere hanno coinvolto altre regioni, tra cui il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, il Lazio e la Campania. Inutile specificare che i vari disegni di legge sono stati redatti in assenza di una guida comune e ciò ha provocato la conseguenza più prevedibile e meno auspicabile: la creazione di una serie di normative locali diverse tra loro e talvolta persino in contrasto (o quantomeno non del tutto coerenti) con quella italiana del 2016. Questo è quindi il primo problema di simili iniziative, cioè il rischio di doversi barcamenare tra differenti certificazioni locali che cambiano di regione in regione e che non necessariamente condividono i criteri del famigerato articolo 35 della legge 154/2016. Per ipotesi, quindi, un birrificio potrebbe fregiarsi della certificazione della sua regione di appartenenza ma non rientrare nella definizione nazionale di birra artigianale (e quindi non possedere i requisiti per il bollino Indipendente Artigianale di Unionbirrai).

Il secondo inconveniente è che questi disegni di legge si focalizzano quasi sempre sulla provenienza delle materie prime. Il dettaglio non rappresenta di per sé un problema, almeno finché non diventa una conditio sine qua non per ottenere la certificazione di turno. Cerco di spiegare questo passaggio con esempi pratici. Quando a fine 2013 si cominciò a parlare di una legge per la birra piemontese, uno dei requisiti richiesti era che il 51% delle materie prime fosse di provenienza italiana. Ciò avrebbe costretto i birrifici a impiegare malto d’orzo nazionale (essendo la materia prima preponderante nella birra, dopo l’acqua), obbligandoli a rispettare un vincolo senza senso, se non addirittura controproducente in termini di qualità finale. Tanti birrifici italiani infatti sono soliti rivolgersi a fornitori stranieri, rinomati per la qualità del loro malto.

Negli anni successivi – spero anche grazie alla campagna di sensibilizzazione che abbiamo promosso su queste pagine – i disegni di legge hanno abbandonato vincoli così stringenti in termini di materie prime, ma non certo l’idea di base. Alcune proposte obbligano i birrifici a produrre almeno una birra con materie prime prevalentemente di provenienza locale, altre continuano a richiedere l’uso di ingredienti nazionali ma in percentuali ridotte. Questi requisiti chiaramente non nascono da una fissazione del legislatore, ma dalla possibilità di dare senso (semantico ed economico) alle discipline regionali in materia. Il pericolo però è dietro l’angolo, perché potrebbero costringere i birrifici a utilizzare materie prime di qualità inferiori, con gravi ripercussioni sul risultato finale e in ultimo sulla promozione stessa del settore.

L’idea che un ingrediente italiano sia migliore di uno straniero e che addirittura sia “più salubre” – giuro di aver ascoltato questa parole da un esponente politico locale – è una stupidaggine in assoluto e ancora di più se declinata al mondo della birra, ambito nel quale il nostro paese non può certo vantare una tradizione plurisecolare come altre nazioni. Non bisogna essere esperti del settore per arrivare a una simile conclusione, ma potrebbe comunque essere formulata con leggerezza da chi non conosce a fondo l’argomento. Dunque è in casi del genere che gli stessi birrifici dovrebbero sensibilizzare la politica sulle conseguenze di certi vincoli, senza soprassedere in nome di chissà quale vantaggio per la propria azienda. In alcune circostanze queste obiezioni evidentemente sono state sollevate, ma ancora troppo spazio è lasciato al legislatore senza che sia avanzato un minimo di contraddittorio. Speriamo che in futuro questo fenomeno assuma la giusta direzione, sia in termini quantitativi che qualitativi.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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11 Commenti

  1. Ciao Andrea, condivido la riflessione e l’analisi della problematica, ma con queste mie parole vorrei allargare la visione per un quadro di insieme più chiaro, così da affrontare la problematica con efficacia. Le leggi regionali e i disciplinari costruiti conseguentemente, per quanto legati strettamente ad un piccolo territorio, devono essere conformi alla normativa europea e italiana. La necessità di inserire il vincolo per l’utilizzo di materie prime prevalentemente locali è dettato dalla necessità di rispettare il Reg.510/2006 aggiornato poi con il Reg.1151/2011 sui prodotti di origine a marchio. Già nel primo regolamento agli art. 2 e 4 c’era l’obbligo di utilizzo di materie prime locali, con logica se letto nelle suo insieme. Inoltre la birra è posta nella prima posizione nell’elenco dei prodotti alimentari, che se sotto disciplinare, devono rispettare le regole poste dal regolamento. Come sempre ci sono delle eccezioni, che se usate con conoscenza e intelligenza, possono portare all’utilizzo di materie prime di qualità. Adesso e nel tempo.

    • Ciao Alberto, sono d’accordo. Ma è anche vero che creare dei disciplinari regionali non lo impone certo il dottore. La ratio dovrebbe sempre essere quella di migliorare la qualità e dubito che certi vincoli ne favoriscano il raggiungimento.

      • Manuele Torres

        Premesso che condivido appieno l’articolo, nemmeno la definizione nazionale va verso l’assicurare la qualità, anzi lascia le porte aperte a tutte le pratiche orribili dell’industria. Evita invece la corretta conservazione di alcune birre e la possibilità che queste vengano distribuite sull’intero territorio nazionale.

        Capendo e condividendo le tue preoccupazioni sulla qualità di birra prodotta con malto italiano, conoscendo i metodi di maltazione nazionale ed avendo potuto verificare il gap esistente tra malti esteri ed italiani, mi chiedo e ti chiedo se le stesse considerazioni e preoccupazioni non debbano essere applicate anche in ambito agricolo.

        • Cioè ti riferisci alla qualità dell’orzo?

          • Manuele Torres

            Alla qualità dell’orzo, del malto che se ne ottiene e conseguentemente del prodotto finito.

          • Orzo e malto sono discorsi molto diversi e spesso i due concetti vengono confusi. Entrambi presentano problematiche proprie e specifiche.

          • Manuele Torres

            Avevo chiesto un’altra cosa. Avevo chiesto: visto le tue giuste considerazioni e preoccupazioni riguardo alle birre prodotte con malto italiano, se queste come penso, non valgano anche per le birre agricole.

          • Nella domanda è contenuta la risposta visto che le birre agricole sono birre che devono essere prodotte per almeno il 51% da orzo italiano (e che quasi sempre viene maltato in Italia)

      • Hai ragione, l’esistenza di certe regole non impone la creazione di così tanti marchi soprattutto legati a territori così piccoli per il mondo birra artigianale o agricola. La qualità intesa quella legata all’utilizzo di materie prime di medio alto livello, ne risente veramente tanto! Come potrebbero essere le birre artigianali o agricole italiane se le materie prime fossero tutte almeno di medio livello? Sarebbe fantastico..

  2. buonasera
    vorrei che si specificasse meglio il termine di “perdita di qualita'” , impiegando malti nazionali, nel prodotto finale/birra.
    vorrei inoltre ricordare l’esistenza sul mercato di malti esteri, con secoli di esperienza produttiva alle spalle, dove non e’ escluso che l’orzo e/o il frumento sia stato trattato con diserbanti tipo i glifosati (alcuni paesi esteri non lo vietano)
    bersi p.p.m. di diserbanti, teku dopo teku, non e’ molto salutare
    ringrazio

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